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              Don Carlo, uno e trinodi Giuseppe Pennisi
 
 “Don Carlo” è l’”incompiuta” di Giuseppe Verdi. Lo è più di altre 
              sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali “Simon 
              Boccanegra”, “La forza del destino” e “Stiffelio”. E’ la sola che 
              non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale 
              quella “di Modena” del 1886 che riprendeva, scorciandola, 
              l’edizione originale parigina del 1867; l’”ur-Don Carlo” parigino 
              richiede oltre 6 ore di spettacolo, include pessimi ballabili e i 
              tentativi di riesumarla un quarto di secolo fa a Boston (grazie a 
              quella diavoloccia di Sarah Caldell) ed una quindicina di anni fa 
              a Torino (noncé in disco per la bacchetta di Claudio Abbado) sono 
              stati deludenti. Per ragioni di durata, in Italia è invalso l’uso 
              di rappresentare la versione “di Milano” del 1884- in quattro, 
              invece, che in cinque atti – da cui si perde, musicalmente e 
              drammaticamente, l’“atto di Fontainebleau”, premessa essenziale 
              della vicenda e , soprattutto, momento onirico di ricerca 
              dell’utopia (si ricordino gli allestimenti di Luchino Visconti a 
              Londra e a Roma).
 
              Sotto il profilo musicale, resta anch’esso però una tavolozza 
              incompiuta a metà strada tra il melodramma ed il dramma in musica 
              compiuto quale è “Aida”, pur realizzata 14 anni prima del “Don 
              Carlo” modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Complessa 
              la messa in scene: non c’è bisogno solo di sei grandi voci, di 18 
              comprimari, di un doppio coro ma anche di interpreti ed orchestra 
              versati sia nel melodramma sia nel dramma in musica. Ardui i 
              problemi della regia: nei sette quadri, otto nella versione “di 
              Modena”, sul fondale storico della dissoluzione degli Asburgo e 
              contemporaneo (per Verdi) di guerre d’indipendenza, si accavallano 
              i temi della fragilità del potere, dell’intolleranza religiosa, 
              degli amori proibiti, dell’amicizia virile sino alla morte. La 
              versione “di Milano” del 1884, in scena a Roma in una ri-edizione 
              dell’allestimento di Visconti del 1965, semplifica in parte questi 
              problemi in quanto, sotto l’influenza di Arrigo Boito, Vernì 
              scarnì è il significato del lavoro, più ancora che la trama 
              musicale ed il numero degli atti.
               Il 
              tema di fondo anticipa quanto scritto un secolo più tardi dal 
              Premio Nobel V.S. Naipul: per l’uomo l’utopia è la cosa peggiore. 
              Siamo sia alla dissoluzione degli Asburgo d’Austria (e, quindi, di 
              un’era politica) ma anche e soprattutto e all’eclisse dei valori. 
              Carlo ed Elisabetta non cercano l’utopia (come nella versione del 
              1867 ed in quella successiva del 1886), ma solo l’adulterio, 
              tradendo rispettivamente il padre ed il marito. Con Filippo II e 
              la Principessa Eboli intrecciano un complicato ménâge-à-quatre. Il 
              potere politico si sgretola di fronte al Grande Inquisitore, a sua 
              volta cieco ed incapace del perdono. Resta un solo valore: 
              l’amicizia virile di Don Rodrigo, ma viene stroncata dai 
              moschettieri del Grande Inquisitore che intendevano, invece, 
              uccidere Carlo. Le folle assistono alla morte dell’equilibrio 
              etico su cui si fondano e la vita delle coscienze e degli affetti 
              e il significato della politica; tentano una velleitaria 
              ribellione.
               A 
              40 anni circa dal sua primo allestimento (allora concertava Carlo 
              Maria Giulini), la lettura di “Don Carlo” fattane da Visconti 
              appare ancora più attuale. A ragione dei macchinosi cambi-scena 
              (nel 1965 l’allestimento fece epoca per sfarzo e grandiosità), lo 
              spettacolo dura pur sempre quattro ore e mezza. Il cast è di 
              lusso: Ferruccio Furlanetto (Filippo II), Francesco Casanova (Don 
              Carlo), Alberto Gazale (Don Rodrigo), Paata Burtchudzale (il 
              Grande Inquisitore), Dimitra Theodossiou (Elisabetta), Luciana 
              D’Intino (Eboli). Due nei: Casanova ha la voce ma non le doti 
              sceniche per interpretare l’infante di Spagna; Luciana D’Intino 
              deve curare il registro (specialmente quando svetta, troppo 
              rapidamente, da gravi ad acuti). Un veterano della concertazione 
              verdiana, Nello Santi, è stato chiamato a sostituire Daniel Oren, 
              ammalato. Gli impasti tra buca e voci sono migliorati man mano che 
              dal primo atto si viaggiava verso la notte fonda della politica, 
              dei sentimenti, dei valori. E della primavera romana. 
 22 maggio 2004
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