Striscia e la gara di inviati
di Paola Liberace
[23 nov 04]
Cosa succederebbe se ognuno degli spettatori di Striscia la
Notizia potesse maneggiare la telecamera e il microfono
improvvisandosi novello Staffelli? Per rispondere basta accendere
la TV ogni sera, e prestare attenzione, durante la trasmissione,
all’angolo della “gara tra inviati”. Per gustarsi appieno le
scenette occorre però tenere presente l’antefatto. Da tempo
Striscia si è votata alle cause perse, proponendosi di buon grado
come braccio armato di tutte quelle piccole battaglie che ognuno
di noi telespettatori medi, asfissiati dalla burocrazia,
surclassati dal rincaro dei prezzi, vessati in uffici impegatizi,
irritati dal traffico crescente e dalle auto parcheggiate sui
marciapiedi, indignati dalla mediocrità degli amministratori e dei
governanti, vorremmo personalmente combattere. Si tratta di una
forma moderna, più generalizzata e sottile - non nel senso della
raffinatezza, piuttosto dell’amarezza - di quello che Nietzsche
chiamava il “ressentiment”; con la differenza che, in questo caso,
non si danno belve bionde verso le quali esercitare il rancore
sordo che il peso della quotidianità ci getta addosso, ma solo un
sentore indistinto del privilegio dal quale si rimane esclusi.
A un certo punto, dunque, Striscia ha deciso di offrire a questo
rancore la possibilità di esprimersi: non più parlando per
interposta persona, godendosi dalla poltrona i risultati delle
azioni vendicatrici dei paladini del TG satirico, ma addirittura
imbracciando le armi e facendosi giustizia da sé. Valicando così
la “quarta parete”. Rivolgendosi direttamente al suo pubblico, ha
così dedicato uno spazio a tutti coloro che vogliono prendere
parte attivamente alla grande missione di smascheramento, di
denuncia e di demistificazione in cui consiste, ormai, la
quintessenza del “riccismo”. Ed ecco il risultato visibile: una
serie monotona di lamentele, di piccole rivendicazioni, noiose e
poco concludenti, strascinate imitazioni di moduli già troppo
visti (uno tra tutti, i servizi delle “Iene”), alle quali si cerca
inutilmente di dare dignità televisiva. Ma le magie della
postproduzione poco possono, di fronte alla sorta di morale dello
spontaneismo, che guarderebbe obliquamente ogni filtro artificioso
tra la “ggente” e lo schermo televisivo.
L’apoteosi della protesta qualunquista si rivela così, agli occhi
del telespettatore, una catena di meschinità, che nemmeno trova la
forza - né etica né estetica - per assurgere alla grandezza di un
festival trash o kitsch. Verrebbe da dire: ben gli sta, Striscia
raccoglie quel che ha seminato, cercando un consenso morboso nei
piccolo-borghesi risentiti. Eppure, anche nel ressentiment c’è
redenzione, se praticato con la leggerezza e l’ironia che sempre
contraddistinguono la buona televisione. Ma queste virtù sembrano
ormai da tempo non fare più parte del bagaglio del programma di
Antonio Ricci, che ha preferito buttarsi anima e corpo nelle
polemiche da mercato, facendo l’occhiolino ad associazioni di
protettori del popolo e consimili delegazioni di scontenti; invece
di continuare a praticare l’arte della provocazione mirata e
misurata, ha preferito passare all’artiglieria pesante, salvo poi
rimediare alla disaffezione dell’audience da un lato con
l’artificiosa ricostruzione del consenso nello studio di
registrazione, piegandosi alla presenza del pubblico in sala -
orrore! -, dall’altro ricorrendo al coinvolgimento diretto con la
“gara degli inviati”. Nell’uno e nell’altro caso, a farne le spese
è stata la qualità complessiva della trasmissione: la decadenza
estetica, come sempre, denuncia una carenza etica, la mancanza
della statura morale necessaria - in questo caso - a puntare il
dito come Fra Cristoforo: e per fare un Fra Cristoforo, ahimé, non
bastano milioni di Don Abbondio, nemmeno se in “gara” tra di loro.
23 novembre 2004
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