Paleotelevisione e neotelevisione
di Paola Liberace
[31 gen 05]
Se tra i miei trenta lettori si trovasse uno di quei semiologi
attempati, che hanno ben presenti certe letture; e se, per
avventura, questo maturo accademico fosse anche tifoso, putiamo
caso, del Livorno, oltre che possessore (sovvenzionato) di un
novissimo decoder digitale terrestre; e se ancora il longevo
semiologo fosse riuscito nell’impresa di guardare, qualche giorno
fa, la partita di calcio di San Siro con la schedina acquistata a
tre euro, avrebbe certamente pensato a quanti anni sono passati,
da quando Umberto Eco coniava i neologismi di “paleotelevisione” e
di “neotelevisione”, che tanto successo avrebbero poi riscosso
presso consimili studiosi (cfr.
"Sette anni di desiderio"). Anni
attraverso i quali la TV è diventata “di tutto, di più”, rispetto
a quella televisione cosiddetta “nuova”, che a guardarla oggi
sembra invecchiata almeno quanto la semiotica. Quando Eco
tracciava le linee di distinzione tra le due fasi della storia
televisiva, aveva in mente il passaggio dalla TV di Stato
all’emittenza privata, che si contrapponevano allora per la prima
volta.
Come non riconoscere l’età del monopolio statale nella
“paleotelevisione”, con la sua scarsa disponibilità di canali,
l’impostazione pedagogica; ma soprattutto con la struttura “a
palinsesto”, fatta di programmi distanziati dalle sigle, di generi
televisivi separati per fasce orarie e di audience? E, d’altro
canto, come non pensare alla televisione commerciale, guardando
all’avvento della “neotelevisione”, con la moltiplicazione
dell’offerta televisiva, governata da nuove logiche pubblicitarie
e con una struttura di programmazione “a flusso”, in cui le
trasmissioni sono sostanzialmente in continuità e si richiamano
costantemente le une con le altre? Gli spettatori dell’era
protoberlusconiana (penserebbe ancora il nostro canuto
accademico), fino ad allora abituati a seguire appuntamenti
televisivi costanti, venivano adescati dagli show
d’intrattenimento, che si susseguivano quasi “per trascinamento”,
come se all’interno di un unico, grande programma fosse stata
talvolta introdotta un’interruzione per consentire l’inserimento
dello spot pubblicitario.
Eppure questo flusso era già naturalmente destinato ad essere
governato dallo spettatore, armato di telecomando, di
videoregistratore e – soprattutto – meno assiduo e attento di
quanto si sarebbe creduto di fronte al piccolo schermo (come
avrebbero mostrato gli Audience Studies). La tecnologia, dunque,
come strumento di liberazione dalle catene mediatiche? (Qui, il
vetusto semiologo ha un pensoso sussulto). Piuttosto, gli
strumenti a disposizione del pubblico televisivo servirono a
trasformare la televisione, adattandola alle abitudini e ai gusti
dei telespettatori, invece che il contrario (come ad esempio si
sostiene dei rilevatori d’ascolto dell’Auditel, nata proprio in
quegli anni). La stessa tecnologia compie un passo decisivo una
decina d’anni più tardi, con l’introduzione di nuove piattaforme
per la trasmissione, e con il passaggio alla tecnica digitale. Già
con la TV digitale satellitare, e poi con quella via cavo, si fa
strada una logica di trasmissione specularmente opposta a quella
sino ad allora invalsa. Per la nuova tecnologia, infatti, i
programmi sono singole unità, dotate di senso compiuto, e quindi
trasmettibili e fruibili singolarmente. Di fronte al “flusso” di
programmazione si staglia ora la possibilità di visionare le
trasmissioni una per una, scegliendo - e acquistando - di volta in
volta quella che si preferisce, con una libertà sempre crescente
anche rispetto alla scelta del giorno e dell’ora di
programmazione.
Non importa più il canale, non importa più la rete, conta invece
il programma che sia un film, una partita di calcio o un reality
show. Di conseguenza, le regole del gioco, prima interamente
dettate dalle emittenti, diventano oggetto di negoziazione con chi
i programmi li fa, li produce o ne detiene i diritti. Dal digitale
satellitare e cavo a quello terrestre il passo è breve: anche se
non tecnologicamente, e difatti devono passare ancora alcuni anni
perché, quel che è già realtà per i sottoscrittori delle pay-TV,
diventi possibile anche per gli spettatori del digitale terrestre.
Ma data la diffusione necessariamente più vasta del nuovo mezzo,
le conseguenze sono potenzialmente rivoluzionarie (qui l’arzillo
accademico gongola, ma avverte un dolorino alla schiena). I
telespettatori, grazie al “pay-per-view”, acquistano le
trasmissioni di loro gradimento, mentre con il “video on demand”
scelgono da un catalogo uno o più programmi trasmessi solo per
loro, componendo nuove unità di senso compiuto.
Le reti televisive si sfidano sulla capacità di aggiudicarsi i
film, le partite o gli show più appetibili, ma il potere
editoriale, la facoltà di comporre un palinsesto personalizzato,
si trasferisce nelle mani dello spettatore, tutt’altro che supino
di fronte a un indistinto flusso televisivo. Altro che taglio
delle tasse, questa sì che è una svolta liberale... Liberale? A
questo punto, il paleosemiologo si riscuote tra qualche acciacco,
realizzando che la partita è pur sempre trasmessa da una rete del
Biscione e che, dunque, la scomparsa della neotelevisione non è
bastata a scongiurare l’età del neoberlusconismo. Per fortuna
almeno il Livorno ha vinto, sentenzia in pieno abbiocco l’ormai
decrepito professore (dimenticando che del Milan Berlusconi non è
più presidente); e si rintana nel plaid sulla sua poltrona mobile,
mentre nel sogno lo cullano le folte pieghe del conflitto
d’interessi.
31 gennaio 2005
pliberace@yahoo.it
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