| L’eterno codice dei furbi e dei fessi di Beppe Benvenuto
 da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
 
 Sarcasmo e ironia. Pungente la prima, amara la seconda. “Prezzo” 
              (così la seconda moglie chiamava Giuseppe Prezzolini, nato a 
              Perugia nel 1882 e morto a Lugano un secolo dopo) raccontava il 
              suo paese spesso così, oscillando fra poli estremi, fra emozioni 
              radicali. Il suo dire era spesso un definire, il suo raccontare 
              aveva i modi talora apodittici e le forme secche dell’antico 
              saggio. “Prezzo”, nella sua vivacissima carriera intellettuale, 
              nella sua lunghissima biografia ritorna spesso a rimuginare sul 
              senso della sua identità, sul suo essere italiano. Lo fa in un 
              certo senso sempre (ovvero famosi e ricorrenti sempiterni 
              pensieri), ma lo fa con maggiore insistenza, con più puntuta 
              determinazione in taluni momenti particolari del suo travaglio 
              esistenziale. In certi passaggi topici. In quelle stagioni, cioè, 
              dove è come d’obbligo mettere i puntini sulle i, registrare e 
              registrarsi. Nel 1921, ad esempio, pubblica un libretto, una 
              raccolta di aforismi che è una specie di sunto, succoso ed 
              epigrammatico, di disagi e di nuove consapevolezze.
 
 Il libretto, appena riproposto per i tipi della Robin, s’intitola 
              “Codice della vita italiana” e fissa, una volta per tutte, 
              l’azzeramento di ogni residuo di giovanile speranza ed idealismo. 
              Di quell’idealismo, per intenderci, abbracciato con tanta 
              convinzione durante la precedente stagione de La Voce, e che 
              l’aveva, quasi quasi, convinto di poter essere utile al suo 
              prossimo. La fine diasporica di quella rivista (si badi, 
              senz’ombra di dubbio, il più importante periodico del secolo 
              appena trascorso) e poi, soprattutto, la delusione della Grande 
              Guerra gli avevano fatto cambiare radicalmente parere. Da italiano 
              utile si era sentito improvvisamente un italiano inutile, quasi un 
              antitaliano. Il “Codice della vita italiana” racconta a botta 
              calda questo mutamento, racconta di una sconfitta e di un 
              sopraggiunto stato d’animo scettico se non peggio. In apertura 
              “Prezzo” recita: “I cittadini italiani si dividono in due 
              categorie: i furbi e i fessi”. Subito dopo: “Non c’è una 
              definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in 
              ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, 
              amico della moglie e potente sulla magistratura, ecc.; non è 
              massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero 
              reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, 
              eccetera: questi è un fesso”. E così a seguire. Capitoletto dopo 
              capitoletto: una sorta di antropologia essenziale del vivere e del 
              costume italico.
 
 “Prezzo” ha idee chiarissime sulla nostra geografia politica. 
              “L’Italia – a suo avviso – si divide in due parti: una europea, 
              che arriva all’incirca a Roma, e una africana o balcanica che va 
              da Roma in giù. L’Italia africana o balcanica è la colonia 
              dell’Italia europea”. Dunque? Dunque c’era davvero poco da 
              sperare, praticamente nulla da fare. Perché il bello del paese è 
              anche il suo lato nero. L’uno e l’altro sono praticamente 
              inseparabili: “L’Italia non è democratica né aristocatica. E’ 
              anarchica”. Epperciò “tutto il male dell’Italia viene 
              dall’anarchia. Ma anche tutto il bene”. E si potrebbe continuare 
              per un po’ sul filo del paradosso e a suon di bocconi amari. 
              “Prezzo” era così. Dopo il ’15-18 vedeva più nero che non. Si era 
              trasformato in uno scettico-realista, in un “indifferente 
              planetario” (la definizione calzantissima è del suo miglior 
              biografo, Emilio Gentile). Un atteggiamento quest’ultimo dal quale 
              non si separerà davvero mai. Neppure, molte tragedie dopo, quando, 
              oramai cittadino americano, al suo paese dedicherà uno splendido 
              ritratto a uso dei suoi nuovi concittadini.
 
 Il libro in questione ha il titolo quasi profetico de “L’Italia 
              finisce” (ora riedito per i tipi della Bur, la prima edizione in 
              inglese è del 1948, la prima traduzione in italiano è invece di 
              sette anni successiva) ed è una specie di “confessione di un esule 
              volontario” che si sente politicamente en déshabillé. Unica 
              speranza per lo Stivale, il suo sterminato patrimonio culturale, 
              da giocarsi magari più sul versante cosmopolita che su quello 
              nazionale. Insomma anche qui, al solito, un bicchiere mezzo vuoto 
              o un bicchiere mezzo pieno. Così “Prezzo” a proposito di certe 
              inscindibili virtù e debolezze nostrane. In sostanza, grumi 
              all’incirca imperituri. E peraltro ricorrenti e attualissimi. O 
              no?
 
 13 febbraio 2004
 
 
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