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      Caro Pansa, ti spiego io l’ira di Boccadi Francesco Cossiga
 da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
 
 E’ proprio vero che la storia vera, e cioè il racconto secondo verità e 
      quindi completo, non condizionato, suggestionato o peggio distorto e senza 
      censure, e non orientato da interessi attuali di parte che inducono alla 
      manipolazione dei fatti, aperti alla conoscenza e al giudizio del lettore, 
      magari anche esprimendo su di esso il proprio storicizzato giudizio, 
      puranco politico ed etico, può essere solo storia del passato e mai del 
      presente, e di cui a stento si può solo fare superficiale cronaca. Ne è la 
      dimostrazione il bel libro di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti”, edito 
      da Sperling & Kupfer, nella collana di “Saggi” dedicati alla storia 
      contemporanea. Ho letto con sofferenza e sconcerto, ma non con 
      scandalizzata meraviglia, il racconto in questo libro ampiamente 
      documentato delle stragi e delle carneficine che, al di fuori di ogni 
      orizzonte di giustizia, anche “sommaria”, nei confronti di responsabili di 
      crimini, sono state compiute a Guerra di Liberazione finita e cioè dopo il 
      25 aprile 1945.
 
 E ciò avvenne quindi dopo la sconfitta in Europa della Germania nazista e 
      l’annientamento in Italia della Rsi; dopo che le sconfitte forze armate 
      germaniche, comprese le SS, le Waffen SS anche non germaniche, i reparti 
      di Polizia e la Gestapo – in alcuni casi a bandiere spiegate e al suono 
      delle loro bande militari, e dopo aver assistito senza intervenire e senza 
      essere attaccati, allo scatenamento della guerra civile tra italiani delle 
      due parti e al loro reciproco massacro – iniziarono, non disturbati né 
      dagli Alleati né dai partigiani, lo sgombero del Nord-Italia, secondo gli 
      accordi tra il Comando Supremo Alleato del Mediterraneo e il Comando 
      Militare delle Forze germaniche in Italia stipulati in Svizzera tra Allen 
      Dulles, il rappresentante dell’Oss – il servizio informativo americano e 
      per le operazioni speciali, che ne aveva avuto delega e mandato dalle Tre 
      Potenze operanti nel teatro europeo – e il Waffen-SS Generale d’Armata 
      Karl Wolf Capo delle SS, delle Waffen SS, della Gestapo e delle altre 
      Forze di Polizia germaniche in Italia. E tutto ciò alle spalle del Governo 
      Regio italiano, del Cnlai e del Cvl da una parte e del governo e dei 
      Comandi della Rsi dall’altra, entrambi totalmente tenuti all’oscuro.
 
 Ho letto con sofferenza queste pagine perché, essendo stato a quei tempi – 
      pur trovandomi in Sardegna e avendo solo diciassette anni – un fervente 
      antifascista e non essendo riuscito un gruppo di giovani amici, tra cui 
      Sergio Siglienti e Celestino Segni e io stesso, a trovare presso i Comandi 
      alleati in Sardegna alcun ascolto alle nostre richieste di essere 
      regolarmente arruolati nelle forze armate alleate o del Regno del Sud, per 
      combattere il “tedesco invasore”, sono stato quindi politicamente e 
      civilmente educato, anche successivamente, nel “mito” della Resistenza 
      quale guerra patriottica di liberazione. Anche per questo non posso che 
      contemplare con profondo dolore – anche per rispetto ai partigiani caduti 
      con le armi in pugno, ai militari delle Forze regolari di liberazione, ai 
      militari e civili vittime dei lager o della crudeltà germanica – i crimini 
      politici e comuni che furono commessi da non poche formazioni partigiane 
      comuniste dopo il 25 aprile 1945.
 
 Certo, la lucida e drammatica distinzione tra “guerra patriottica”, 
      “guerra civile” e “guerra di classe” nella realtà e nella storia della 
      Resistenza italiana, operata da un sincero “convertito antifascista” e 
      animo certamente nobile e onesto quale è Norberto Bobbio, mi aveva già 
      allarmato, ma prima ancora avevo raccolto il racconto, quasi sussurrato, 
      di amici che avevano combattuto la guerra partigiana nel Nord. Alberto 
      Marcora ad esempio, che mi avevano rivelato come i partigiani “non 
      comunisti” si dovevano spesso... guardare le spalle, proprio mentre 
      combattevano contro i reparti militari nazi-fascisti. Ho letto con 
      sofferenza queste pagine, ma anche con profonda ammirazione: per il 
      coraggio dolorante con il quale un democratico, un antifascista, un 
      comunista degli anni giovanili, Giampaolo Pansa, le ha scritte, così come 
      aveva già scritto su gli stessi temi e con eguale sincerità e onestà, se 
      pur con una diversa “calligrafia letteraria”, il bel romanzo I figli 
      dell’aquila che narra la storia di un giovane che dopo l’8 settembre 1943 
      scelse con onestà in nome dell’ “amore” la Repubblica sociale italiana.
 
 Comprendo così come egli debba aver sofferto, e forse soffra tuttora, per 
      le durissime parole e ingiusti giudizi, al limite ingiuriosi, espressi su 
      di lui con sincerità e onesta violenza, da un altro antifascista e 
      galantuomo quale è il grande giornalista e valoroso partigiano Giorgio 
      Bocca: “Un libro vergognoso”, ha infatti scritto quale lapidario commento 
      a Il sangue dei vinti, travolto dalla sua struggente passione 
      antifascista, ma anche dalla innata faziosità del post-azionista deluso, e 
      che a motivo della sua delusione cerca di eliminare comunque le cause di 
      essa. Ma perché questo duro contrasto tra due galantuomini, democratici e 
      antifascisti entrambi?
 
 Giampaolo Pansa è non solo un uomo libero, ma anche un liberal 
      all’inglese, per il quale la “verità” conta per il “bene”, sia storico che 
      civile, più che l’“utile” politico qualunque. Giorgio Bocca è certamente 
      un uomo libero anch’egli, ma, vetero e post-azionista “rancoroso” quale è, 
      non certo “liberal”... e non è il solo esemplare. Ne abbiamo infatti di 
      più importanti perfino al vertice dello Stato. Peraltro, non dimentico il 
      profluvio di critiche e insulti che ricevetti quando, primo capo dello 
      Stato dell’Italia repubblicana “fondata sulla Resistenza”, mi recai in 
      dolorante pellegrinaggio riparatorio a onorare i “patrioti”, tra cui una 
      donna valorosa, dell’epica Brigata Partigiana Osoppo nel luogo ove, per 
      ordine del IX Corpus Jugoslavo, elementi di vertice di una brigata 
      comunista “garibaldina”, mi sembra la “Val Natisone”, dopo aver attratto 
      in una trappola a Malga Porzus i componenti dello stato maggiore della 
      “Osoppo” – poi tutti silenziosamente decorati al valor militare – ivi li 
      trucidò freddamente. Fui autorevolmente sconsigliato dal fargli rendere 
      gli onori militari (a proposito, perché Carlo Azeglio Ciampi non pone 
      riparo al mio errore? Perfino l’Unità e il freddo e razionale Luciano 
      Violante lo elogerebbero: ed è tutto dire!).
 
 Per cinquant’anni quasi ci si vergognò non degli assassini dei partigiani 
      della “Osoppo” in parte rifugiatisi all’Est con l’aiuto del Pci e del 
      Guardasigilli dell’epoca (ne conobbi in Slovenia uno, peraltro affranto 
      dal rimorso), ma dei “martiri” trucidati, tra cui vi era anche il fratello 
      di Pier Paolo Pasolini, Guido – perfino ignorato nella biografia del 
      fratello sopravvissuto... – sui cui si arrivò anche a gettare l’infamante 
      dubbio di… tradimento e collaborazionismo con i germanici. Pur essendo, 
      quindi, pienamente solidale con Giampaolo Pansa (ma non vorrei con la mia 
      solidarietà comprometterlo ancora di più...), credo però di poter 
      comprendere, se pur con qualche difficoltà, anche la posizione di quel 
      “galantuomo”, anche se fazioso, nel senso trecentesco del termine (come lo 
      fu Dante insomma) che è Giorgio Bocca.
 
 Di Giampaolo – che tante volte mi criticò aspramente come “politico” e 
      soprattutto come presidente della Repubblica – ricordo bene il coraggio 
      con cui, nella drammatica corrispondenza dai cancelli di Mirafiori, appena 
      il giorno dopo l’attentato a Carlo Casalegno (il 16 novembre del ’77) a 
      Torino, ebbe il coraggio di rivelare che aveva potuto dolorosamente 
      constatare come alla gran massa degli operai della Fiat, almeno a quelli 
      di Mirafiori, del sequestro del grande giornalista antifascista Carlo 
      Casalegno colpito dal “terrorismo rosso”, non importasse nulla, ed anzi 
      qualcuno avesse lanciato la parola d’ordine: “Dieci, cento, mille 
      Casalegno!”.
 
 Ero allora ministro dell’Interno e la corrispondenza di Pansa non mi 
      piacque affatto: non dubitai certo che non corrispondesse al vero, ma alla 
      strategia politica di lotta contro il terrorismo, era a mio avviso più 
      “utile” il mito della classe operaia compatta contro il terrorismo, che 
      non la verità. E ricordo anche che alla vigilia delle elezioni del 1976 – 
      quelle del tanto da Aldo Moro temuto “sorpasso” della Dc da parte del Pci 
      – egli raccolse una bella ma sconvolgente intervista a Enrico Berlinguer, 
      nella quale il leader comunista, superando l’anti-atlantismo classico del 
      Pci (“servi degli americani!”), dichiarava che il comunismo italiano 
      accettava ormai pienamente il Patto atlantico e che anzi, sotto il suo 
      ombrello, sentiva più sicura la sua autonomia: erano iniziati i tempi 
      dell’eurocomunismo. Certo, la “vulgata” confidenziale fatta circolare tra 
      gli allibiti quadri medi del partito, fu (ma io non vi ho prestato mai 
      fede, conoscendo l’uomo!) che la sconvolgente dichiarazione fosse stata 
      addirittura autorizzata dal Pcus su richiesta di Berlinguer, al fine di 
      aiutare i “compagni italiani” nelle imminenti elezioni che sembravano 
      decisive per il futuro del Pci e dell’Italia.
 
 Perché, dunque, comprendo l’“ira” di Giorgio Bocca? Perché essa è 
      l’espressione di una “cultura politica”, direi anche e perfino di un’etica 
      politica, nel senso macchiavellico e gramsciano del termine, che ha 
      egemonicamente plasmato quasi cinquant’anni di vita culturale, civile e 
      politica di gran parte della sinistra italiana e dei compagni-di-strada di 
      essa (Bobbio, Galante Garrone, Eugenio Scalfari e tanti altri) e 
      inconsapevolmente o meno ieri, ma anche oggi, di molti cosiddetti 
      “cattolici democratici” e che, unitamente all’ancora largamente imperante 
      lascito della “egemonia culturale” marxista e para marxista nelle 
      università e nell’editoria, ha segnato profondamente e tuttora segna lo 
      spirito del paese.
 
 Basti pensare al valore “religioso” che un pur santo monaco, sacerdote di 
      Santa Romana Chiesa, ex-politico (mai iscritto peraltro al partito della 
      Dc, anche se stranamente nominato da Alcide De Gasperi… vice-segretario 
      politico di esso!, ma eletto nelle file della stessa), don Giuseppe 
      Dossetti, negli ultimi anni della sua vita, nel suo sogno quasi 
      neo-giobertiano di una unitaria riforma politico-ecclesiale insieme dello 
      Stato e della Chiesa, diede alla Resistenza e alla Costituzione, quasi 
      auspicando per il futuro un “quasi Concilio Nazionale-Assemblea 
      Costituente”. E lo permea tuttora, a sentire la “predicazione laica”, 
      “patriottarda” e “nazional-qualunquista” di quel “buon uomo”, ma peraltro 
      certamente gran galantuomo, che è Carlo Azeglio Ciampi.
 
 Dopo che l’Italia (e smettiamola con la storiella dell’ “Italia che ha 
      vinto la guerra”!), aveva subito una vergognosissima sconfitta e, per 
      essere stata essa auspicata da moltissimi italiani (tra di esse le 
      famiglie antifasciste dell’epoca, compresa la mia), ma soprattutto per il 
      tradimento del monarca e dei suoi “generali”, aveva celebrato, per dirla 
      con Salvatore Satta, il de profundis della patria; dopo che 
      drammaticamente, proprio durante l’Assemblea Costituente, il paese ancora 
      una volta era stato spezzato in due, si dovette ricorrere per salvarne la 
      “pace interna”, al “mito” dell’unità dell’antifascismo nell’antifascismo e 
      nell’unità della e nella Resistenza (tutti rigorosamente scritti e anche 
      pronunziati in maiuscolo!) per edificare la Repubblica e su cui fondare ed 
      in forza del quale legittimare la Costituzione. E a ciò si dovette 
      ricorrere anche al fine di evitare di far precipitare il paese in una 
      guerra civile, dolorosa conseguenza della spaccatura dell’Europa e del 
      mondo, e che avrebbe visto certamente la vittoria militare e politica del 
      comunismo sovietizzante o – nel caso, anch’esso probabile di una sua 
      sconfitta in una insurrezione armata per intervento militare degli 
      anglo-franco-americani in nome dei “principi di Yalta” – avrebbe visto la 
      tragica affermazione di un “regime di colonnelli massoni” filo americani, 
      in entrambi i casi con la morte della appena rinata democrazia!
 
 Per questo, appunto, lo ripeto, ci si inventò quale mito fondante della 
      Repubblica e della Costituzione il mito dell’ unità antifascista, in uno 
      con il mito della Resistenza unitaria e con il mito della Liberazione. I 
      “miti” contengono sempre certamente una parte di “verità” – ché altrimenti 
      sarebbero solo …favole o peggio menzogne – ma non sono la “verità”. E alla 
      fine, se dei miti si abusa o anche quando essi si consumano per il passare 
      del tempo o per l’emergere del reale, la “verità” si ribella! E così, ad 
      esempio, un modestissimo testo costituzionale, quale è la Costituzione del 
      1948 – su cui si abbatté giustamente il giudizio negativo e sarcastico di 
      Piero Calamandrei – una “costituzione” da Cnl, scopiazzata da qui e da lì 
      a metà tra il codice cattolico-sociale di Camaldoli di larga ispirazione 
      corporativistica e la formalmente bella Costituzione sovietica del 1936. E 
      così si arrivò ad inventarsi invece la formula: della “Repubblica fondata 
      sui lavoratori” proposta da Palmiro Togliatti, che avrebbe avuto un senso 
      grande se marxisticamente e illuministicamente intesa, la formula ridicola 
      della “Repubblica fondata sul lavoro” di dossettiana invenzione, che è 
      quasi roba da dopolavoro fascista! E così la Costituzione del 1948 è 
      diventato un “opus magnum”, e come tale viene celebrato, almeno prima e 
      dopo i pasti principali e tutti i giorni della settimana, dal nostro Capo 
      dello Stato. E invece tutti, ma proprio tutti, vogliono cambiarla.
 
 Certo, questa Costituzione ha un grande merito: è il “Piccolo Trattato 
      della Yalta interna italiana” che ha contribuito a salvare il paese dalla 
      guerra civile, e che ha trovato giustamente nel primo e grande 
      “compromesso storico De Gasperi – Togliatti – Andreotti”, la sua più 
      autentica attuazione. Anche se il Pci – ricordo personalmente le accuse e 
      le perorazioni di Renzo Laconi, il grande comunista sardo che fu poi 
      chiamato a contestare e contrastare in Parlamento – considerò non solo 
      politicamente, ma anche istituzionalmente illegittime le deliberazioni 
      adottate dal Parlamento, senza il loro voto, ad esempio nel caso 
      dell’approvazione della così detta legge-truffa e dell’adesione 
      dell’Italia all’Alleanza Atlantica prima e poi alla Comunità europea: 
      illegittime ancorché approvate a maggioranza, perché non frutto di un 
      accordo preventivo con il Pci e senza il voto di esso. Perché era appunto 
      l’accordo ciellinistico, da Fronte popolare e soprattutto l’intesa Pci-Dc, 
      che costituiva per il Pci il fondamento e la causa legittimante della 
      Costituzione, ponendosi anche come legale regolare del suo funzionamento 
      legittimo e democratico.
 
 E a voler fare il giurista, nel senso di una scienza giuridica positiva ma 
      anche illuminata dalla storia civile, culturale e politica, la tesi 
      interpretativa della Costituzione propria del Pci non è forse priva di 
      qualche solido fondamento. Certo, le rivoluzioni silenziose con cui, con 
      la sua non attuazione, di fatto la Dc di De Gasperi operò la riforma della 
      Costituzione ha oscurato questa forse più autentica interpretazione di 
      essa! I comunisti votarono la Costituzione perché ritennero che in essa, 
      in parte nei suoi princìpi fondamentali e in alcuni suoi meccanismi, si 
      potesse realizzare quel tipo di Costituzione emanata, anche se poi non 
      attuata, nelle democrazie orientali, che, soltanto in linea di principio 
      il pluralismo politico e sindacale realizzarono in regime però di 
      democrazia consociativa, guidata dall’egemonia dei partiti popolari e dal 
      prospettato sindacato unitario, in cui non il principio di maggioranza, 
      proprio dei regimi liberali costituiva la regola del deliberare 
      democratico, ma il principio della più ampia maggioranza delle parti 
      antifasciste che avevano combattuto insieme nella Resistenza e che insieme 
      avevano edificato la Costituzione. Questo spiega il perché movimenti, 
      almeno fino a ieri non ancora “antifascisti”, non fossero legittimati come 
      soggetti democratici della vita parlamentare e politica, benché i loro 
      rappresentanti fossero eletti, e numerosi, in Parlamento e negli altri 
      consessi elettivi di governo e di amministrazione degli enti locali con 
      suffragio democratico da centinaia di migliaia di cittadini.
 
 Le origini del rifiuto del “principio maggioritario” sono lontane: nel 
      medioevo, nel primo governo elettivo che si conosca, quello dei grandi 
      ordini religiosi e soprattutto delle Abbazie benedettine, il principio 
      della maior spes fu temperato più da quello della maior et melior spes! E 
      non volgarmente “reazionaria”, ma sottilmente sostanzialista fu la lunga e 
      tenace avversione della dottrina politica cattolica e della Chiesa, 
      consacrata mirabilmente nel Sillabus del Beato Pio IX, alla democrazia 
      elettiva intesa come democrazia del numero. E la convinzione che alla 
      “legittima democraticità sostanziale” di una decisione non basti il voto 
      della maior pars, ma occorra quello della melior pars, è presente nella 
      richiesta, ancor oggi attuale, che le decisioni importanti vengono prese 
      “mediante accordi”, con il “concorso più vasto”: e non a caso questa 
      “dottrina” è coltivata da coloro le radici etiche e storiche delle cui 
      convinzioni democratiche affondano nell’humus del pensiero comunista o 
      “aristocratico-azionista” o cattolico-sociale. Ma questa Costituzione ha 
      ormai esaurito la sua funzione, tanto che la vediamo sostituita da 
      successive e ricorrenti “costituzioni di fatto”, secondo il capriccio di 
      partiti e capi dello Stato.
 
 Certo, a Giorgio Bocca non manca il coraggio e l’intelligenza di far del 
      mito, una verità, e in verità mitica tradurre la falsità storica o almeno 
      la manipolazione di essa. Quel che manca però a Giorgio Bocca è il grande 
      respiro rivoluzionario che solo se comunista egli potrebbe avere! Esso gli 
      permetterebbe allora non solo di “giustificare”, anche se con insulti ed 
      invettive!, ma anzi di “glorificare” i “crimini” partigiani del dopo 25 
      aprile 1945. Egli si chiude in una timorosa negazione della realtà, che 
      ricorda il Pcus che per decenni negò, ma per fini tattici, la 
      responsabilità sovietica nell’eccidio di Katin, eccidio che invece per un 
      “comunista” ortodosso avrebbe dovuto esser giudicato, perché “doveva 
      essere giudicato”, e per molti fu, una misura prudente, utile e necessaria 
      per la edificazione del socialismo in Polonia, ponendo come presupposto di 
      essa l’eliminazione fisica, nelle persone dei 15 mila ufficiali polacchi 
      trucidati, di una buona parte della classe dirigente “borghese” e 
      anti-russa di quel paese, che sarebbe stato difficile assai “cooptare” in 
      una Polonia comunista, a differenza delle classi contadine e 
      piccolo-borghesi.
 
 E forse un comunista ortodosso può giustamente chiedersi, con tragico 
      coraggio ma serena e oggettiva sincerità di marxista-leninista, se senza 
      le “stragi” ordinate da Lenin e da Stalin, senza l’annientamento dei 
      kulaki, senza i gulag, sarebbe stato possibile fare di una accozzaglia di 
      contadini analfabeti, di piccoli-borghesi corrotti, di operai ignoranti e 
      poltroni, dalle cento lingue e dai mille costumi, dalle decine di razze e 
      colori, un grande, unito e forte popolo e un grande, unito e forte paese: 
      il glorioso ed eroico popolo sovietico e la grande e potente Urss, sotto 
      la guida di un vittorioso partito, il Pcus. E non può anche non chiedersi 
      (ma a dire il vero questa domanda ha tante volte tormentato me stesso...) 
      se, senza il popolo sovietico, senza l’Urss, edificata anche grazie ai 
      “gulag”, e senza il Pcus, irrobustito dalle “purghe”, sarebbe stato mai 
      possibile battere la Germania e sradicare il nazismo, il “male assoluto”. 
      E perché Giorgio Bocca non ha almeno allora lo stesso “coraggio 
      intellettuale” e “politico” dei giovani delle Br (esemplarmente 
      “illuminato” dal bel e tragico film di Bellocchio sul rapimento Moro!), e 
      non afferma senza tremore che senza cinquantamila italiani eliminati non 
      si sarebbe forse potuto nel dopoguerra battere e sradicare il fascismo ed 
      edificare Repubblica e democrazia? Colpevoli o innocenti? E che domanda 
      sarebbe mai questa da morale borghese per giudicare dei fatti della 
      Storia? E’ la “terribilità” dei grandi movimenti che conta!
 
 Quella terribilità che poi costituì la “divisa” delle Br, le quali, 
      coerentemente e per reagire all’insuccesso politico del massacro dei 
      cinquantamila, rivendicarono appunto a se stesse – se pur utopicamente, ma 
      non senza qualche valido titolo – la missione di realizzare o concorrere a 
      creare le condizioni per l’attuazione della “terza fase” della Resistenza, 
      la “guerra di classe”, per l’affermazione della dittatura comunista del 
      proletariato. La prima fase della Resistenza era la “guerra patriottica di 
      liberazione”; la seconda fase, conclusa parzialmente, era la “guerra 
      civile” contro il fascismo, ma non arrivò a sradicarlo totalmente e 
      risparmiò anzi il suo humus conservatore borghese. Certo, rinunziare alla 
      vita ordinaria, darsi alla pericolosa “clandestinità”, impugnare le armi, 
      uccidere persone anche se solo “politicamente” colpevoli, uomini miti come 
      Aldo Moro o Roberto Ruffilli, o essere uccisi come Margherita Cagol, è 
      certamente più duro che non pronunziare o scrivere articoli 
      “resistenziali”. E poi, essi non erano neanche pagati…
 
 Penso dunque che dobbiamo essere grati a Giampaolo Pansa di questo libro 
      realistico, sereno, severo, coraggioso e vero. Esso ci aiuta a comprendere 
      l’origine ideologica, l’ “etica politica”, la forte ispirazione da 
      “Resistenza espropriata”, della sovversione di sinistra degli anni 
      Settanta-Ottanta, e soprattutto delle Brigate rosse. Ricordo quasi con 
      commozione il racconto fattomi del suo passaggio in clandestinità, da un 
      militante del Pci, poi arruolatosi nelle Br, che uscito io dal Quirinale, 
      visitai, ferito e ammalato in carcere, un vecchio partigiano comunista, 
      che aveva valorosamente combattuto nella guerra civile, nell’ambito della 
      “guerra patriottica”, con l’animo però volto con speranza alla “terza 
      fase” di essa: la “guerra di classe” per l’avvento del comunismo e 
      l’instaurazione della dittatura del proletariato, lo schieramento tra i 
      paesi del “socialismo reale”, guidato dal Pcus e dall’Urss contro 
      l’“imperialismo capitalista” dell’Occidente – quando egli gli comunicò la 
      sua decisione di darsi alla clandestinità e alla lotta armata, gli 
      consegnò un’arma da lui usata nella lotta partigiana, dicendogli: 
      “Riprendi ora tu, con questa, da comunista, la lotta da dove siamo stati 
      fermati!”. Parole tremendamente illuminanti ma in fondo anche “nobili” e 
      illuminate. Ma a Giampaolo Pansa dobbiamo esser grati in modo particolare 
      noi antifascisti democratici che, pur ammettendo che l’Italia e non solo 
      il fascismo furono sconfitti quell’8 settembre in cui morì la Patria, 
      hanno creduto e credono ancora nel valore etico, certo più politico che 
      militare, della Resistenza e della Lotta di liberazione.
 
 Ammettendo gli eccessi consumati dalla Resistenza, e purificandola dalle 
      finalità e dalla liberazione della Patria con la sconfitta del 
      nazifascismo e della edificazione della democrazia, nobilita e onora 
      coloro che impugnarono le armi contro l’invasore germanico nelle tragiche 
      e tristi giornate della “morte della Patria” e che “resistettero” nei 
      campi di concentramento per i militari, nei lager per i politici, con le 
      armi in mano nelle città, nelle campagne e su i monti: dai caduti di 
      Cefalonia ai partigiani delle Langhe, dai partigiani della Osoppo ai marò, 
      ai paracadutisti e ai fanti del Corpo Italiano di Liberazione, ai 
      “gappisti” dei centri urbani, in prima linea quelli socialisti di Roma con 
      Giuliano Vassalli ed altri, che ebbero la temerarietà e l’abilità di 
      liberare Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dalle mani dei fascisti e della 
      Gestapo, dagli assassinati delle Fosse ardeatine per fatti loro non 
      imputabili, a quelli di Marzabotto, ai torturati e uccisi di via Tasso, 
      dimenticati perché non “omogenei” alla retorica della “Resistenza 
      espropriata”.
 
 Ed il libro di Giampaolo Pansa ha anche un altro valore, direi politico ed 
      insieme etico-teorico; d’esser materiale storico di grande utilità per 
      affrontare il non ancora risolto problema: “rivoluzione-riforme”, 
      “violenza-democrazia”, “insurrezione-terrorismo-liberazione”. Un problema 
      con grande lucidità e coraggio affrontato da giovani storici francesi che 
      hanno scritto ultimamente appassionati libri in difesa del “giacobinismo” 
      e del “Terrore”, pur essi legittimi perché necessari alla causa delle 
      libertà e della democrazia e con una riabilitazione “anti-furetiana” del 
      “Terrore” e della terribile giustizia, come condizione e premessa per 
      l’avvento del “regno della libertà e della modernità” del diciannovesimo 
      secolo. E’ risolto infatti il problema del “terrorismo” contro arabi e 
      britannici delle forze ebree delle Irgun Zwei Leumi e della “Banda Stem”? 
      E sarebbe potuto nascere di fatto lo Stato d’Israele senza il terrore ai 
      britannici e agli arabi in Palestina?
 
 E senza il crudele “terrorismo”, politicamente e in parte religiosamente 
      ispirato, anche da parte di ragazzi e ragazze palestinesi, il problema 
      dello Stato palestinese sarebbe ancora all’ordine del giorno non solo dei 
      paesi d’Europa e d’America, ma degli stessi così detti paesi arabi 
      moderati? E per riprendere il discorso iniziale, avrebbe potuto esserci 
      una “Resistenza”, che indubbiamente ebbe il suo asse politico e militare 
      portante nel Pci, senza la “strage di Porzus” e senza la prospettiva della 
      eliminazione di cinquantamila preti, fascisti, antifascisti non comunisti, 
      cento in più, cento in meno, non sembra contare, poi trucidati? E quanto 
      accade in Iraq è “terrorismo” o “resistenza”? Non do risposte, pongo 
      domande. E a farmi porre anzitutto a me stesso queste domande concorre 
      certamente il libro di Giampaolo Pansa ed anche le dure critiche ad esso 
      rivolte da Giorgio Bocca. Grazie, quindi a Giampaolo Pansa ed anche però a 
      Giorgio Bocca!
 
 12 marzo 2004
 
      
      Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", Sperling & Kupfer, Milano, 2003, 
      pp. 380 – euro 17,00 
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