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      Richler e la versione di Solomon di Carlo Roma
 
 Una grande famiglia ebraica attraversa due secoli di storia americana. Un 
      gruppo eterogeneo che, a seguito di alterne fortune, si impone con sempre 
      maggiore determinazione sulla strada di una rapida ed esaltante scalata ai 
      vertici dell’economia mondiale. Con spavalderia, acume e spregio della 
      legge, esso crea un forte ed esteso impero finanziario partendo dal basso. 
      Getta le basi, dopo aver tessuto una rete considerevole di legami e 
      sostegni, per un progetto di ampio respiro grazie al quale conquistare 
      onori e ricchezze. Invidiato, osteggiato e temuto, il clan avanza senza 
      preoccuparsi dei nemici benché le insidie e le difficoltà siano dietro 
      l’angolo. L’origine della famiglia Gursky si perde in un freddo mattino 
      del lontano 1851. La figura di Ephraim, capostipite della dinastia che 
      verrà, si staglia nel clima gelido d’un bianco pallido delle immense 
      distese innevate del Canada. Nell’atmosfera sospesa e quasi inerme di un 
      paesaggio immobile, egli si muove fra gli igloo, vestito con pelli di 
      foca, procacciandosi il cibo. E’ tenace, silenzioso e pronto alle sfide.
 
 Il vecchio Ephraim è solo il primo personaggio a comparire nella vasta 
      galleria di eventi ed intrecci che si succedono nelle pagine di “Solomon 
      Gursky è stato qui” dello scrittore canadese Mordecai Richler. Conosciuto 
      ed apprezzato per l’opera divertente e acuta che in Italia gli ha 
      garantito il successo, “La versione di Barney”, pubblicata dall’Adelphi 
      nel settembre del 2000, Richler si è proposto come uno dei più arguti e 
      piacevoli cantori del mondo ebraico d’Oltreoceano. In realtà, però, la 
      rappresentazione dell’epopea dei Gursky è apparsa nel 1989, ben prima de 
      “La Versione di Barney”, la cui redazione risale invece al 1997. In 
      “Solomon Gursky è stato qui”, comunque, Richler si muove fra generazioni 
      diverse, e spesso in contrasto fra di loro, disegnando con sapienza il 
      ritratto di una porzione consistente dell’epopea degli ebrei giunti nel 
      Nord America. Sin dalle prime pagine affida a Moses Berger, un alcolizzato 
      senza troppe speranze, il compito di ricostruire i voli pindarici dei 
      tanti Gursky che hanno lasciato il loro segno nella storia della famiglia. 
      Mai, ad un narratore tanto spiantato ed incapace, è stata assegnata una 
      missione più difficile! Alla costante ricerca di una chiave di lettura 
      attraverso la quale svelare i misteri dei Gursky, Moses è attratto in 
      particolare dalla vita di Solomon, un rampollo caduto ben presto in 
      disgrazia. A dir la verità ne è ossessionato. Nella sua casa di legno 
      immersa nella foresta, circondato da pareti ricolme di libri fino al 
      soffitto, egli continua a studiare i molti documenti nei quali si parla di 
      Solomon. Riconosce che la sua esistenza è davvero un fallimento. “Eppure – 
      scrive Richler – l’avrebbe ancora potuta riscattare dall’inutilità se 
      fosse riuscito a completare la biografia di Solomon Gursky”. “Ma – 
      prosegue ancora Richler – anche nell’improbabile circostanza che avesse 
      portato a termine quella storia infinita, nessuno gli avrebbe mai 
      pubblicato il libro”.
 
 Le fatiche di Moses, alla continua ricerca di un modo per salvarsi dal 
      vizio, nascondono una strategia narrativa definita: attraverso il suo 
      lavoro, Richler costruisce un racconto nel racconto mettendo in scena le 
      difficoltà del suo protagonista nella stesura dell’unica biografia della 
      sua vita. Una biografia che lo impegna sino alle sue estreme risorse. E’ 
      dunque Solomon, la pecora nera dei Gursky, il ribelle allontanato e 
      temuto, a costituire il punto debole di tutta la tribù. Una tribù piena di 
      quattrini, a volte assai rissosa e competitiva, nata dal commercio 
      illegale di alcolici in grado di creare dal nulla la Mctavish, una delle 
      aziende del settore più ambite. Sono tanti gli eventi che vedono Solomon 
      in primo piano. Passa tra i meandri di un processo istruito ai danni della 
      sua famiglia per violazione delle leggi sul contrabbando di bevande 
      vietate. Si imbatte, poi, in vicende appassionate ma soltanto abbozzate. 
      Difende il suo ebraismo cercando di rivendicarne, per sé e per molti altri 
      correligionari, l’identità più profonda e cristallina. Il suo mito, 
      intanto, cresce. Agli occhi di Moses egli assume i caratteri di un 
      elemento mitologico. La sua persona e le sue molteplici azioni aleggiano 
      nei ricordi dello smemorato alcolista e gli fanno sentire la loro 
      pressione sulla sua debole vena creativa. Una presenza impalpabile, 
      avvolta nel mistero, che condurrà Moses ad impelagarsi con scarsi 
      risultati nelle invidie, nelle lotte intestine e nelle tante pastoie che 
      animano l’universo dei Gursky. Quale verità si cela dietro la parabola 
      umana di Salomon, il rappresentante più interessante ed estroso della 
      famiglia? A cosa addebitare la sua tenace diversità dagli altri componenti 
      della grande casata? Un dato è certo. Soltanto alla fine, dopo aver 
      percorso le lunghe e complesse vicissitudini dei Gursky, si approderà ad 
      una verità parziale. Una verità suffragata da una constatazione 
      innegabile: “Solomon, Moses lo sospettava, non era morto di vecchiaia, ma 
      in un gulag o in uno stadio in America Latina. Ovunque fosse accaduto, 
      dovevano per forza essersi radunati i corvi”.
 
      
      6 giugno 2004
 crlrm72@hotmail.com
 
      Mordecai 
      Richler, "Solomon Gursky", Adelphi, € 19, pp. 584 
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