Di Vittorio
di Antonio Carioti
il Mulino, Bologna, 2004
pp. 170, € 12
 

Il sindacalista riformista
di Pino Bongiorno
[17 nov 04]

«Come il piccolo rivolo d’acqua che scorrendo senza che nessuno se ne accorga precipita nel fiume, ma contribuisce a irrobustire il fiume, ad aumentare il volume dell’acqua, ad aumentare la velocità, a renderla anche travolgente, così ogni piccolo contributo di ogni militante affluisce sempre alla grande fiumana che è rappresentata dalla famiglia dei lavoratori, che è la nostra forza, la garanzia del nostro avvenire». È così che Giuseppe Di Vittorio si esprime nel suo ultimo discorso, tenuto a Lecco, il 3 novembre 1957, poche ore prima di morire. Fino all’ultimo la “grande fiumana” è stata al centro dei suoi pensieri, è stata la sua ossessione, il suo chiodo fisso. Di questo uomo tutto d’un pezzo, che per spessore morale e dedizione assoluta a una causa richiama alla mente le grandi figure del Risorgimento, Antonio Carioti ha ripercorso, con sobrietà e senza toni apologetici, la vita pubblica, le esperienze sindacali e politiche, sottolineandone anche le contraddizioni e le debolezze, dovute comunque più alle condizioni storiche del tempo che alla personale natura del soggetto in questione.

Alla “famiglia dei lavoratori” Di Vittorio ha dedicato l’intera esistenza, passando dal sindacalismo rivoluzionario degli esordi, fra i braccianti di Cerignola, al criptoriformismo degli ultimi anni, anni in cui si scontra col dogmatismo ideologico del Pci, il suo partito, a proposito soprattutto dell’indimenticabile 1956 e, quindi, del legame con l’Unione Sovietica. Lo spettacolo dei lavoratori polacchi e ungheresi in rivolta lo scuote profondamente e lo spinge a chiedersi come si possa «considerare socialista un sistema che costringe i proletari a versare il proprio sangue, come accadeva nella Puglia di mezzo secolo prima». Anche Togliatti, probabilmente, avverte la medesima contraddizione, ma non ha tentennamenti sul da farsi perché ha scelto di stare dalla parte dell’Urss e del movimento comunista internazionale sempre e comunque. Di Vittorio, invece, vacilla. Ha a cuore soltanto la classe operaia e sa per esperienza diretta che essa non è un’astrazione ideologica, essendo composta di uomini in carne e ossa di cui non si può non tener conto. L’azione dei comunisti, allora, dichiara durante l’VIII Congresso del Pci (8-14 dicembre 1956), «dev’essere condotta in tutti i paesi con il libero consenso e con la collaborazione diretta e creatrice delle masse». Altrimenti, e gli avvenimenti dell’Est europeo costituiscono proprio un ammonimento in tal senso, «ci si espone a tutte le degenerazioni burocratiche e alle peggiori catastrofi».

Togliatti e Di Vittorio sono stati l’incarnazione delle due anime che hanno contrassegnato la storia del Pci, quelle due anime che Fabrizio Onofri, dirigente comunista espulso proprio in seguito alle vicende del ’56, ha chiamato “partito di fatto” e “partito ideologico”: il primo «agiva, faceva, si batteva attraverso l’attività appassionata di tutti i suoi militanti»; il secondo, invece, era «orientato e governato al vertice attraverso principî dottrinari non pienamente adeguati alla sua condotta». Il “partito di fatto” si configurava laicamente e prosaicamente come «strumento per agire sulla realtà e trasformarla, immerso continuamente in essa e ricevente da essa la verifica o la correzione del suo agire». Il “partito ideologico” si considerava «prima di tutto e per se stesso fonte di verità, depositario di ogni verità, e dunque idolo, fine supremo». Di Vittorio e Togliatti sono stati più di chiunque altro l’espressione compiuta, rispettivamente, del “partito di fatto” e del “partito ideologico”.

Due partiti tra i quali – è la tesi di Carioti su cui chi scrive concorda pienamente – esisteva, e non poteva essere altrimenti, un nesso molto stretto: «il Pci non sarebbe riuscito a mettere radici così salde, in un paese profondamente cattolico e segnato da vent’anni di fascismo, se non si fosse presentato come un partito-chiesa, detentore di un’ideologia salvifica; d’altro canto, la determinazione e il coraggio con cui la base comunista affrontava il travaglio di una battaglia politica strenua derivavano anche dalla certezza, confortata dai dogmi del marxismo-leninismo, di percorrere la strada maestra della storia».