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The
case for Israel
di Alan Dershowitz
John Wiley & Sons, Inc., 2003
pp. 264, $ 13,97 (su Amazon)
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In difesa di Israele
di Marta Brachini
[05 gen 05]
Immaginiamo Israele sotto processo di fronte una corte di
giustizia internazionale. Ma, a differenza di quanto è successo
poco tempo fa per l’istanza sollevata davanti alla Corte penale
dell’Aia sulla legittimità del muro di difesa israeliano,
immaginiamo che l’accusa chieda un giudizio, anche non
vincolante, sui misfatti dell’imputato a partire dalla sua
nascita fino ai giorni nostri. Se questo dovesse avvenire ci
sarebbe subito qualcuno preparato ad assumere la difesa legale
di Israele su ogni accusa sollevata. Alan Dershowitz,
famosissimo avvocato e professore di legge alla Harward
university di Boston, risponde nel suo libro The Case for Israel
a tutte le accuse sollevate nel tempo dai più aspri critici
dello Stato ebraico. Dershowitz dice di voler difendere Israele
proprio per la sua passione «civile, libertaria e liberale».
La sua speranza, spiega nell’introduzione al libro, è quella di
«poter mettere in moto un dibattito su un problema al momento
polarizzato da argomenti estremistici», il suo obiettivo è
quello di «provare fuori da ogni ragionevole dubbio che un
doppio parametro di giudizio è stato applicato alle azioni di
Israele» e che «questo doppio standard non è stato solo ingiusto
nei confronti dello Stato ebraico ma ha danneggiato la sovranità
del diritto, scalfito la credibilità delle Nazioni Unite e
incoraggiato il terrorismo palestinese a commettere atti di
violenza al fine di provocare una reazione esagerata da parte
d’Israele e assicurarne la condanna unilaterale da parte della
comunità internazionale».
Dershowitz rileva nel suo lavoro trentadue capi d’accusa contro
Israele, esposti uno per ciascun capitolo, e ne fa un’analisi
dettagliata di riferimenti, prove e documenti per confutarne i
presupposti. Tra gli accusatori ci sono esponenti illustri della
classe intellettuale americana, storici e filosofi del mondo
arabo, professori universitari di tutto il mondo, istituzioni
politiche e organizzazioni internazionali non governative, le
cui affermazioni o ricostruzioni storiche vengono citate a
supporto dell’effettiva esistenza delle accuse. Tra i più famosi
teorizzatori troviamo Edward Said e Noam Chomsky, ai quali si
deve appunto l’esistenza di autorevoli versioni dei fatti vicina
ai sentimenti palestinesi. Ovvero l’idea che Israele sia nato da
un sopruso imperialista e coloniale, che si sia sbarazzato della
popolazione palestinese con la forza, vittimizzandola e
costringendola in campi profughi. In sostanza contestano Israele
per il suo peccato originale: quello di aver posto in essere
legalmente la propria esistenza.
Queste sono quelle che Dershowitz chiama le ancient grievances
(antiche lamentele) per le quali dovrebbe esistere uno “statuto
di limitazioni”. A suo avviso sono infatti i continui appelli
all’assolutezza dei singoli diritti originari ad ostacolare
soluzioni di compromesso pacifico. La questione di chi c’era
prima, di chi ha cominciato il conflitto e altre spinose e
arbitrarie lamentele, non fanno altro che suscitare antichi
rancori alimentando la spirale d’odio. Dershowitz, fornendo la
sua versione su fatti e personaggi, scenari locali e
internazionali, e rifacendosi anche alle ricostruzioni storiche
di Benny Morris (storico israeliano solitamente citato a favore
della versione opposta), riesce infine a dimostrare che «la
strategia delle leadership arabe è stata quella di cercare sin
dall’inizio la distruzione dello Stato d’Israele».
Con la stessa forza provocatoria e razionale, Dershowitz smonta
poi altri castelli d’accusa, più attuali e dolorosi, come quello
per cui Israele ha usato il vittimismo dell’Olocausto per
legittimare ogni sua azione, compresa la fondazione dello Stato.
Oppure tutte le questioni connesse con la violazione dei diritti
umani: dall’accusa di razzismo a quella di torture e genocidio
nei confronti dei palestinesi. E ancora respinge tutti i
tentativi di colpevolizzare lo Stato ebraico per il fallimento
degli accordi di pace del 2000, o di criminalizzare le sue
scelte politiche, dall’assassinio mirato alla distruzione delle
abitazioni dei terroristi. Rispondendo a queste accuse l’autore
riesce a dirci molto di più sull’atteggiamento delle leadership
arabe e palestinesi di fronte al genocidio degli ebrei, sulle
cinque guerre arabo-israeliane, sulle vere responsabilità del
fallimento dei processi di pace, sull’ostinazione dell’opinione
pubblica a non vedere lo sforzo dello Stato israeliano per
proteggere i civili contro gli attacchi terroristici. A
conclusione del suo lavoro, iniziato nel 1967, Dershowitz deve
ammettere però che accanto ai «principi della logica, della
moralità, della giustizia e della politica» va preso seriamente
in considerazione anche il «ruolo giocato da forze irrazionali»
per darsi conto dell’accanimento pubblico contro Israele. E «la
risposta – scrive – sta, almeno in parte, nel fatto che Israele
è lo Stato ebraico e l’ebreo delle nazioni».
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