Il sibilo stridulo di Oswiecim
di Pierluigi Mennitti
[27 gen 05]
Oswiecim è un nome quasi impronunciabile. Il suo suono ricorda
quello di una saracinesca che si chiude, inesorabile, stridendo
nei binari d’acciaio. Un fischio stridulo che provoca un brivido
gelato nelle ossa e produce un sibilo acido, insopportabile alle
orecchie. Oswiecim atterrisce già quando leggi le lettere
sgraziate stampate sul cartello stradale. Si arriva percorrendo
una strada statale sconnessa che porta alla fine del mondo,
mentre la Cracovia elegante da cui siamo partiti è già
cancellata dalla memoria. Nulla sembra umano a Oswiecim. Tutto
rimanda all’orrore che fu.
Ma lo devi cercare quell’orrore, devi volerlo vedere con i tuoi
occhi e faticartelo perché nessun cartello ti aiuterà, nessuna
indicazione ti guiderà al campo. Oswiecim pensava di seppellire
i fantasmi sotto un nome impronunciabile ma quel nome è la
memoria che si concretizza, che si fa filo spinato, mura, binari
ferroviari, forni, stanzoni, docce, camini, baracche, torrette,
vagoni piombati, lampioni, valige, capelli, occhiali. E voci.
Voci che sussurrano in ogni cortile, in ogni stanza, in ogni
angolo, assieme al vento che s’è portato via la cenere, alla
cenere che s’è portata via i corpi, ai corpi che si son portati
via le anime.
Entrando dalla periferia orientale, ogni capannone, ogni
complesso industriale sembra il campo. Oswiecim è tutta un
campo. Non è riuscita a sfuggire al peccato originale.
Costeggiamo una fabbrica dismessa che negli anni del comunismo
era l’orgoglio produttivo della città. Mura alte la circondano e
filo spinato. E torrette d’osservazione e lampioni. E chissà a
cosa servivano, visto che qui si produceva acciaio. Ma c’erano
anche i forni che forgiavano metalli invece che cremare
cadaveri, ma producevano lo stesso sibilo della saracinesca che
si chiude, lo stesso sibilo stridulo di sempre, il sibilo di
Oswiecim.
Quel che i nazisti costruirono sulle baracche di una vecchia
caserma polacca è il simbolo dell’orrore, la memoria che oggi
ricordiamo, a sessant’anni dalla sua scoperta, avvenuta in una
giornata del gennaio 1945. Oggi quel simbolo lo devi cercare
perché nessuno te lo indica. Senza indirizzo ti perdi nel
reticolo squadrato di questa brutta città di pianura polacca,
fatta di case basse e giardini senza alberi, senza prato, senza
fiori. Non nascono fiori a Oswiecim. Non ci sono mai nati. Il
prato sì. Quando finalmente arrivi al campo e passi attraverso
il cancello di ferro con la scritta “Arbeit macht Frei” il verde
ti inonda gli occhi, preme sulle pupille e ti fa male tutto quel
colore in un posto come questo. Le casette, le stradine, la
ghiaia che ti scricchiola sotto i piedi, ripetendo il sibilo
dell’orrore: Oswiecim, Oswiecim. Poi il secondo campo. Ci arrivi
seguendo i binari, fino alla porta d’ingresso, il torrione in
mattoni rossi che abbiamo visto in tante ricostruzioni
cinematografiche. Punti i piedi per non svenire. La chiamano
Oswiecim. Era Auschwitz.
27 gennaio 2005
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