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        La vera storia dell'Eurabiadi Paolo della Sala*
 [03 mar 05]
 
 E’ appena uscito negli Stati Uniti "Eurabia, the Euro-arab Axis", della 
        studiosa ebreo-egiziana Bat Ye’or. Le tesi della scrittrice individuano 
        nella struttura della comunità europea denominata “Dialogo Euro-Arabo”, 
        il motore della islamizzazione dell’Europa. Tutto venne deciso 
        all’indomani della guerra del Kippur del 1973. Di questi temi si 
        occuperà nei prossimi mesi la rivista Ideazione. Fornisco alcune 
        anticipazioni relative al tema del rapporto tra paesi arabi e la loro 
        mancata industrializzazione. Quando, all’indomani della sconfitta della 
        guerra del Kippur, i paesi della Lega Araba hanno imposto all’Europa 
        l’accettazione di una politica estera anti-israeliana in cambio della 
        ripresa delle forniture di petrolio, hanno centrato molti altri 
        obiettivi. In primo luogo sono riusciti a evitare l’industrializzazione 
        nei propri paesi. Secondo l’Islam radicale e tradizionalista (quello di 
        Stato, basato sull’assetto giuridico islamico, e non quello del jihad, a 
        quel tempo non all’ordine del giorno), la non-industrializzazione era 
        una condizione obbligata per preservare la società dalla laicizzazione e 
        dalle contaminazioni dell’Occidente. Il capitalismo per i coranici 
        integrali è una religione da combattere, un nemico da sottomettere. Per 
        questo motivo l’Islam – all’indomani della decolonizzazione - non ha 
        creato ricchezza all’interno del proprio territorio, se non nella forma 
        rentière, latifondista ed elitaria degli sceicchi e della classe 
        portante degli Stati islamici: un mix tra burocrazia e l’apparato 
        giuridico-religioso.
 
 Si noti che in questo assetto anticapitalista vi sono molte somiglianze 
        tra l’Islam integrale e il nichilismo socialista, o l’egalitarismo 
        giuridico-rousseauiano, base culturale della attuale Ue. Il Corano, come 
        il marxismo, vieta l’accumulo privato di capitali e punisce le 
        transazioni finanziarie con applicazione di tassi. La visione del 
        commercio di Hamas è singolarmente vicina a quella “etica” del 
        cattolicesimo a base socialista, banche e commercio “equi” compresi. Il 
        commercio, che una volta ha reso potenti i paesi arabi, in quanto 
        sostituti di veneziani e genovesi nei traffici tra Oriente e Occidente, 
        è ormai in decadenza, privo com’è di industria e produzione nazionale. 
        La sola fonte di ricchezza è il petrolio. Non a caso sauditi, emiri e 
        gli stessi libici hanno investito i proventi del petrolio acquisendo 
        industrie e reti commerciali in Occidente. Gheddafi preferiva 
        contribuire alla Fiat piuttosto che imporre la realizzazione di una 
        fabbrica di auto da Torino a Bengasi. Anche i leader palestinesi hanno 
        reinvestito in diverse parti del mondo il fiume di finanziamenti 
        pervenuto. Ma il loro territorio rimane povero. Oggi le cose stanno 
        cambiando sotto la pressione del jihad armato: il Libano potrebbe 
        tornare a diventare quello degli anni d’oro, una cassaforte degli 
        sceicchi.
 
 Ma torniamo al 1973, quando i paesi della Lega Araba impongono 
        all’Europa alcune condizioni per tornare ad aprire i rubinetti del 
        petrolio. Condannati alla mancanza di sviluppo dalla loro visione 
        conservativa dell’Islam, quale alternativa i governi arabi potevano 
        offrire ai loro cittadini? Serviva un patto con l’Europa attraverso il 
        coinvolgimento attivo delle massime istituzioni delle due sponde del 
        Mediterraneo. Secondo questa tacita convenzione, sancita dalle riunioni 
        del Dialogo euro-arabo, la non-industrializzazione dei paesi arabi 
        andava risolta con l’emigrazione verso l’Europa e col trasferimento e la 
        vendita di merci e prodotti tecnologici dal Vecchio Continente ai paesi 
        arabi. Si trattava di un patto scellerato per molti motivi: innanzitutto 
        perché non implicava l’arricchimento dei popoli arabi (tranne nel 
        contesto turco in Germania), perché i sindacati europei non potevano 
        permettere l’ingresso di manodopera nelle fabbriche. Era perciò 
        importante evitare la formazione e la specializzazione degli emigrati, 
        ai quali restavano ruoli marginali del mercato del lavoro. Ecco perché i 
        laureati in medicina senegalesi vendono tappeti nelle passeggiate a 
        mare.
 
 Quindi: ricchezza negata nei paesi di origine e ricchezza negata (di 
        fatto) nei paesi di accoglienza. L’Europa, anzi, ha offerto una 
        condizione servile, per quanto preferibile a quella nei paesi di 
        origine. Come scrive Massimo Nava sul Corriere della Sera: “Un giovane 
        immigrato su tre è disoccupato. La disoccupazione tra i giovani 
        diplomati riguarda per il 5% i francesi, per il 7% gli europei, per l’11 
        i francesi acquisiti e per il 18 gli extracomunitari. Per la Francia, 
        l'integrazione di milioni di immigrati, la più parte africani e di 
        religione musulmana, in maggioranza cittadini francesi di seconda 
        generazione, è da sempre un percorso sociale inquadrato in un modello di 
        valori scritti nella Costituzione: pari diritti, laicità, uguaglianza. 
        Ma trent'anni di leggi, investimenti colossali e battaglie culturali 
        hanno dimostrato i limiti di un modello che si pretende diverso, 
        alternativo a quello anglosassone. Per la Francia - lo si è visto nel 
        dibattito sulla legge contro il velo islamico a scuola - la diversità 
        etnica e culturale non è la somma di tante identità ma un progetto di 
        cittadinanza, con uguali diritti e doveri. I dati però dimostrano due 
        categorie di cittadini: i francesi e gli altri”.
 
 Dal punto di vista economico l’emigrazione di massa, pilotata dal 
        Dialogo euro-arabo, è stata un fallimento. Oltre a non produrre 
        ricchezza nel panorama europeo (tranne eccezioni limitate nel tempo, 
        come in Veneto e Lombardia), essa ha ulteriormente immiserito i paesi di 
        origine, sottraendo loro forza lavoro e capitali. Il che vale anche per 
        i paesi africani, islamizzati e ricolonizzati da iraniani, sauditi e 
        francesi. Al contrario un arricchimento bilanciato su entrambe le sponde 
        del Mediterraneo avrebbe trasformato l’area in una alternativa alle 
        tigri asiatiche. Qual è allora l’altro motivo e fattore scatenante 
        dell’emigrazione, dal punto di vista islamico? La risposta è nella 
        possibilità di invadere pacificamente un territorio, garantendosi nel 
        contempo la non-integrazione con la cultura e la fede occidentali 
        (richiesta costantemente nelle riunioni del Dialogo euro-arabo). Si 
        trattava di una tradizionale politica di espansione della fede. 
        Operazione lecita soprattutto se eseguita senza violenza (come nel 
        frattempo avveniva in Africa). A differenza del jihad armato, questa 
        strategia ha sancito una forte presenza islamica in Europa: un risultato 
        straordinario dal punto di vista del risultato.
 
 Oggi l’Islam però si è diviso: gli Stati arabi, pur mantendo quasi 
        ovunque caratteristiche di regime autoritario preindustriale, pensano a 
        una industrializzazione di Stato sul modello nazi-sovietico. L’Islam 
        integralista del jihad, al contrario, combatte la penetrazione islamica 
        in Occidente come “contaminazione”, teme la formazione di un culto 
        nuovo, una New Age europea, mix di laicismo, Rousseau, cristianesimo 
        socialista e islamismo moderato. Da questo punto di vista, i binladisti 
        hanno ragione: oltre alla distruzione dello sviluppo, l’Eurabia 
        produrrebbe una marmellata al posto di culture e fedi, tanto peggiore in 
        quanto diretta dai governi e non risultato di processi storici.
 
 03 marzo 2005
 
        * 
        Paolo della Sala è il titolare del blog 
        
        
        Le guerre civili 
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