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		Sharansky: lezioni di democraziadi Stefano Magni
 [13 mar 05]
 
 Come si devono comportare le democrazie nei confronti delle dittature? 
		Natan Sharansky ha vissuto per decenni nella dittatura sovietica ed è 
		stato incarcerato per nove anni in un gulag prima di essere liberato per 
		volontà di Reagan. La sua esperienza gli ha permesso di esplorare tutti 
		gli aspetti di un regime totalitario, anche quelli più nascosti e 
		terribili, permettendogli di comprenderne tutta la debolezza. Ora che è 
		ministro di Gerusalemme e per gli Affari della Diaspora nel governo 
		Sharon, è a pieno diritto un consigliere rispettato nella politica di 
		democratizzazione del Medio Oriente. In visita a Milano, presso la 
		scuola della Comunità Ebraica milanese, ha spiegato qual è il tallone di 
		Achille di tutte le dittature: “Le società del terrore sono per loro 
		natura più aggressive, perché strumentalizzano l’odio e la paura, ma 
		sono internamente molto deboli: il regime deve spendere troppe risorse 
		per controllare la sua popolazione, tanto da impoverirsi. E’ soprattutto 
		questo che ha permesso a noi dissidenti nell’Urss di sopravvivere così a 
		lungo: la convinzione che, prima o poi, questa enorme macchina della 
		repressione sarebbe andata in pezzi.
 
 Le più grandi vittorie della libertà non sono mai state ottenute con la 
		forza delle armi. La pace e la liberazione di noi ebrei sovietici è 
		avvenuta solo quando il maggior rappresentante del mondo libero, cioè il 
		Congresso degli Stati Uniti, ha detto a chiare lettere che non ci 
		sarebbe stato più libero scambio con l’Unione Sovietica, se non ci fosse 
		stata, da parte di Mosca, una libera emigrazione. E poi venne il grande 
		discorso del presidente Reagan, in cui definiva l’Urss come l’Impero del 
		male: questo ci rendeva ancora più ottimisti. In carcere, da una cella 
		all’altra, ci scambiavamo messaggi, dicendoci che il leader del mondo 
		libero, finalmente ci stava aiutando”. La cosa più importante che i 
		leader occidentali devono ricordarsi è di non scendere mai a compromessi 
		con i dittatori: mai legittimarli, mai dare loro credito quando fanno 
		prime concessioni. “I dittatori di solito non sono assolutamente 
		disposti a fare concessioni” – spiega – “Bisogna metterli di fronte al 
		fatto compiuto, in una condizione tale da non permetter loro altra 
		scelta. Se costretti, al limite, possono anche fare concessioni in 
		termini di diritti umani, perché sono molto attenti alle voci interne al 
		mondo libero.
 
 Infatti, appena Assad ha annunciato il ritiro di parte delle sue truppe, 
		ha subito controllato quale sarebbe stata la reazione del mondo libero. 
		L’Unione Europea ha immediatamente acclamato questa dichiarazione come 
		meravigliosa. Grazie al cielo, Bush non si è accontentato. I dittatori 
		devono essere sempre tenuti sotto pressione”. Una strategia di successo 
		è quella dei leader che chiudono il dialogo con i dittatori e aprono un 
		canale di comunicazione con i dissidenti: “Un regime cade tutte le volte 
		che si forma un’alleanza fra i dissidenti che vivono al suo interno e i 
		leader del mondo libero, un legame fra gli interessi nazionali e i 
		diritti umani. Quando il Papa diede il suo appoggio incondizionato a 
		Solidarnosc, la Polonia riuscì a liberarsi dal regime di Jaruzelski. 
		Quando Reagan incominciò a sostenere i dissidenti, il regime sovietico 
		cadde in poco tempo. Con il discorso dello Stato dell’Unione, Bush ha 
		parlato soprattutto ai dissidenti nel mondo.
 
 So che molti di voi possono chiedersi dove siano tutti questi dissidenti 
		nelle autocrazie arabe. Non è un caso che vi siano state massicce 
		dimostrazioni a Beirut nei giorni scorsi. E alcuni giorni fa ho 
		incontrato alcuni dissidenti egiziani: per la prima volta si stanno 
		organizzando in vista di elezioni, dato che Moubarak è stato costretto 
		ad annunciarle. Non è un caso nemmeno il fatto che la Siria, per la 
		prima volta, stia incominciando a parlare di un ritiro delle sue truppe 
		dal Libano”. E’ questa, in sintesi, la via giusta da percorrere nella 
		lotta contro il terrorismo e i regimi che lo sponsorizzano. Non la via 
		perseguita dalla Russia nella sua guerra in Cecenia: “Putin vuole 
		realmente combattere contro il terrorismo” – sostiene Sharansky – “Si 
		rende conto del pericolo che il terrorismo costituisce per la Russia. Le 
		forze dell’Islamismo che operano nelle varie regioni della Federazione 
		possono portare ad una frattura del Paese stesso. L’errore di Putin è 
		quello di voler limitare la democrazia e i diritti per combattere 
		meglio. Usando troppo il pugno di ferro, invece di rafforzarsi si 
		indebolisce. La lotta contro il terrorismo deve essere condotta con 
		l’espansione della democrazia, non con la sua soppressione”.
 
		
		13 marzo 2005
 stefano.magni@fastwebnet.it
 
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