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		Aron vs. Sartre.La sinistra che preferisce perseverare nell'errore
 di Federico Punzi
 [22 mar 05]
 
 «Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron», era il motto dei 
		sessantottini francesi - intellettuali, studenti, politici. Ma come è 
		possibile che fosse preferibile sbagliare con il fiancheggiatore del 
		comunismo sovietico Sartre, piuttosto che avere ragione con il liberale 
		Aron? Domanda che si è posto, il 6 marzo scorso,
		
		Pierluigi Battista sul Corriere della Sera. 
		Se ancora oggi, gli intellettuali che preferirono sbagliare con Sartre 
		stentano ad ammettere di aver avuto torto, è perché «c'è una storia 
		esemplare che dimostra in modo paradigmatico come l'avere avuto torto 
		non produca alcuna conseguenza e l'aver avuto ragione in anticipo 
		addirittura penalizzi chi è stato dalla parte giusta troppo 
		precocemente». Incredibilmente, Aron, che «ha avuto ragione quando era 
		difficile e rischioso avere ragione non vede riconosciuta la sua 
		grandezza», mentre Sartre, che «ha avuto torto quando era comodo e 
		gratificante avere torto e ha riconosciuto le ragioni dell'altro solo 
		molto tardivamente, appare ancora circonfuso da un alone fascinoso e 
		seducente».
 
 La lezione di Aron
 
        Questioni 
		che rimandano all'attualità del pensiero di Raymond Aron, il tema di una
		
		lezione tenuta ieri alla Fondazione Ideazione dal 
		prof. Dino Cofrancesco. Nel leggere la realtà umana Aron 
		combinava teoria delle elites, analisi delle strutture economiche e 
		sociali e analisi delle strutture costituzionali. Aron dimostrò di aver 
		compreso pienamente gli eventi del '68 francese, dando alle stampe un 
		libro di analisi e articoli contemporanei agli eventi. Accanto a cause 
		contingenti, vi furono cause strutturali. Dal punto di vista del sistema 
		politico francese e della sua storia, Aron notò il problema della 
		ricorrente divisione delle elites, mai omogenee, prive una cultura 
		politica comune, l'assenza dei corpi intermedi nella società, e la 
		precaria legittimità dell'intero sistema. Il mondo politico e 
		intellettuale francese agiva «con l'atteggiamento di chi si aspetta», e 
		ritiene normale, che da un momento all'altro il mutamento dei governi 
		avvenga per l'azione di «sommosse di piazza». Istinti simili attraggono 
		ancora, qui da noi, qualche prof. girotondino.
 Dal punto di vista economico e sociale, Aron individuò nel processo di 
		modernizzazione la causa del «disagio» delle società moderne. Il 
		progresso tecnico non è portatore solo di benefici, ma anche di aspetti 
		di «incompatibilità tra la richiesta di dignità e partecipazione» e la 
		razionalità tecnica, provocando in generale una riduzione del «potere di 
		controllo» dell'uomo sui processi, fino alla consapevolezza 
		dell'economia come «destino delle società». La ineluttabile «fragilità» 
		insita nelle società moderne, concludeva Aron, è spiegabile con 
		l'elevato grado di «cooperazione volontaria», di «consenso», di cui 
		necessitano per funzionare, tanto che minoranze compatte ideologicamente 
		e ben organizzate possono paralizzare il sistema.
 
 Aron è un liberale, ma certo non alla Von Hayek. In lui era presente una 
		forte componente storicistica che manca in Hayek, e una «grande lezione 
		di realismo politico». E' possibile affermare che Croce sta a Einaudi 
		come Aron sta a Von Hayek. Dunque, tra Croce e Aron «affinità profonde», 
		rifiuto da parte di entrambi di qualsiasi filosofia della storia. Quella 
		di Aron è una «scommessa pascaliana sulla ragione», «un liberalismo alla 
		Costant», un illuminismo della ragionevolezza più che della Ragione come 
		Dea, che trova i suoi riferimenti in Tocqueville, Costant, Montesquieu, 
		Max Weber, con la sua preoccupazione per la distinzione tra fatti e 
		valori.
 
 Tra fatti e ideologia
 
        Dunque, se 
		la stella di Sartre non smette di brillare e nessuno legge più Aron è 
		perché nessun autore con la metodologia del dubbio ha successo presso, o 
		appassiona, chi cerca verità etico-politiche. Prevale «il profetismo 
		incendiario dei devoti delle "idee generali" sordi al richiamo dei "dati 
		di fatto"» (Battista), «il venditore di miti è inevitabilmente preferito 
		al maestro delle analisi sottili» (Panebianco). Aron era un pensatore 
		interessato ai fatti, mentre un certo ceto intellettuale, francese e 
		italiano, più in generale europeo e non anglosassone, tende a rimuovere 
		i fatti qualora essi ostacolino le sue teorie. Come scriveva Aron, 
		intellettuali «implacabili verso le debolezze delle democrazie ma 
		indulgenti nei confronti dei più grandi crimini, purché perpetrati in 
		nome delle buone dottrine».
 Nonostante le affinità storiche con la Francia, in Italia è mancato un 
		Aron. E' anzi singolare osservare come un intellettuale come Norberto 
		Bobbio abbia svolto sia la funzione di Aron sia quella di Sartre, ha 
		osservato il prof. Giovanni Belardelli, mentre nel panorama culturale 
		italiano di quegli anni venivano completamente ostracizzati autori come 
		Solzenicyn e Kundera.
 
 Il «continuismo»
 
        È 
		probabilmente il «continuismo», ha scritto Angelo Panebianco sul 
		Corriere della Sera, «ossia l'assenza di una seria riflessione critica 
		sulle proprie idee di un tempo, la causa principale del fatto che 
		un'ampia parte dell'intellighenzia di sinistra, in Francia come in 
		Italia, preferisca glissare sui mille torti di Sartre».
 Il «continuismo» come irrefrenabile volontà di salvaguardare quale 
		ricchezza collettiva - e non invece come un cumulo di errori - la storia 
		e la tradizione teorica e politica del comunismo spiega la necessità 
		delle tante "svolte" degli eredi del PCI dalla caduta del Muro, tutte di 
		mera facciata. Sempre nuovi impegni per il riformismo purché non 
		implicassero atti effettivi che, rompendo con l'area massimalista e 
		pacifista, mettessero in discussione il tabù dell'unità della sinistra 
		costruendo sulle sue ceneri.
 
 Quando sbagliare è vantaggioso
 
        «L'aver 
		avuto, non sporadicamente, ma sistematicamente torto, nella certezza che 
		mai verrà pagato un prezzo per gli innumerevoli errori commessi, 
		costituisce di necessità un potente incentivo alla tentazione di 
		commettere nuovi sbagli. Ma anche uno straordinario impedimento a 
		riconoscere con dolore e senza autoindulgenza giustificazionista i 
		motivi che hanno ispirato in passato la scelta di vivere dalla parte del 
		torto... Sbagliare è addirittura vantaggioso: non è una boutade, ma lo 
		spettacolo che dal Novecento prosegue indisturbato fino al nuovo 
		millennio»,
		
		conclude Panebianco. Anche Ernesto 
		Galli della Loggia, di recente sul Corriere della Sera, contava (dal 
		1948 al 1991), ben 14 errori, nelle analisi e nelle scelte politiche, 
		del PCI, spiegando cosa, a sinistra, «ha favorito e favorisce questa 
		duplice fenomenologia dell'abbaglio culturale prima e del rifiuto a 
		riconoscerlo poi».
 L'impunità, politica e culturale, garantita dall'egemonia esercitata da 
		decenni sui centri mediatici, accademici e culturali del Paese, ha avuto 
		sui vertici comunisti e il mondo intellettuale di riferimento un effetto 
		deresponsabilizzante che li ha portati a perseverare nell'errore, che è 
		connotato ormai irriducibile della sinistra italiana. Se la storia gli 
		dà torto, non importa, hanno conquistato la potenza di fuoco, culturale 
		e mediatica, per riscriverla a loro vantaggio. I "treccartari della 
		memoria", quelli che i fatti gli danno torto ma hanno il potere di 
		raccontarteli come vogliono.
 
 Sotto-sotto, il rifuto dei principi liberali
 
        La sicurezza 
		di non pagar pegno, dunque, protetti dalla propria egemonia culturale, 
		ma vi è un'altra ragione di fondo per cui anche dopo l'89, crollato il 
		comunismo sovietico, tutti quelli «che avevano avuto torto» con Sartre 
		hanno per lo più «fatto finta di niente». Va cercata, spiega Panebianco, 
		nel rifiuto della «superiorità, politica e morale insieme, delle idee 
		liberali... Le persone, per il liberalismo, sono individui dotati, fino 
		a prova contraria, di autonomia e di razionalità. Ma accettare questa 
		premessa disarmerebbe l'intellettuale che, interpretando il proprio 
		ruolo come un ruolo di denuncia e "disvelamento", di messa a nudo di 
		false coscienze e manipolazioni occulte ai danni dei più, può così 
		rivendicare solo per se stesso quell'autonomia di pensiero e quella 
		razionalità che nega a tutti gli altri».
 Dea Ragione e Verità in possesso di pochi iniziati intellettuali, e 
		quindi contesa politica vissuta come scontro tra Verità e Falsità, sono 
		nozioni che fanno a pugni con il liberalismo. «Non può essere liberale 
		chi crede a un legame forte tra la decisione politica e la Verità. Se 
		esistesse non avrebbero senso la democrazia e il liberalismo», afferma 
		il prof. Cofrancesco. Chi esercita il potere attribuitogli dalla 
		maggioranza non è in possesso della verità, ma solo della facoltà di 
		operare decisioni politiche, che con la verità nulla hanno a che fare. 
		Su questo principio si basano le tutele della minoranza, a cui deve 
		essere sempre consentito di divenire a sua volta maggioranza. La 
		sinistra sembra ancora ignorare che la libertà dell'individuo dai poteri 
		coercitivi dello Stato dovrebbe rappresentare la motivazione ideale e 
		l'obiettivo concreto di una forza di sinistra democratica.
 
 22 marzo 2005
 
        
        f.punzi@radioradicale.it 
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        Federico Punzi è il titolare del blog 
		
        
        JimMomo 
          
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