La caduta degli “schei”
di Marco Ferrante
da Ideazione, marzo-aprile 2004
Nel 2000 il ritmo di crescita del Pil delle tre regioni del Nord-Est –
Friuli, Trentino e Veneto – come da tradizione era ancora superiore alla
media nazionale, 4,2 per cento contro 3,1 per cento. L’anno successivo
il ritmo nordestino è sceso all’1,2, quello nazionale ha resistito un
po’ di più: 1,8 per cento. Nel 2002 il Nord-Est ha avuto crescita
negativa, -0,1 per cento (con una débâcle per i settori della moda, del
legno e dei mobili), l’Italia si è difesa con un risicato +0,4 per
cento. L’area mantiene livelli altissimi rispetto a indicatori che si
modificano più lentamente – per esempio nel 2002 il tasso di
disoccupazione era al 3,3 per cento contro il 9 per cento italiano – ma
ha avvertito un colpo molto duro sulle esportazioni. Lo scorso anno
crollate del 7,6 per cento contro il -4 per cento nazionale. Queste sono
alcune cifre di una crisi affacciata sull’attualità. «Ma – avverte Paolo
Feltrin, professore di Scienze dell’amministrazione all’Università di
Trieste – è la stessa crisi che investe il resto del paese, sotto certi
aspetti anche meno dura: qui si continua a chiedere forza lavoro e
l’occupazione continua a crescere. Direi che c’è stata una forte
frenata, ma le crisi del ’72-’73, del ’76-’77, dei primi anni Ottanta
(dall’82 all’84) o quella ultima tra il ’91 e il ’93 furono molto più
gravi in termini di caduta delle esportazioni, di rallentamento del Pil
e di diminuzione dell’occupazione, cioè tutti gli indicatori classici di
crisi. La mia sensazione è che se ne parli tanto, perché la chiacchiera
è al tempo stesso un antidoto e un sedativo». Sulla stessa linea un
altro nordestino, Renato Brunetta, veneziano, economista, il quale fa
una riflessione sui nordici mugugni: «Le lamentele un po’ sono cicliche,
un po’ sono giustificate. C’è sicuramente un momento di difficoltà
legato al ciclo economico, alla concorrenza asiatica, all’euro forte,
alle infrastrutture, ma ricordiamoci che qui ci si lamentava anche in
pieno boom degli anni Novanta. Io credo che la percezione preoccupata
del ciclo economico negativo faccia parte della cultura locale ed è
anche la molla per rimboccarsi le maniche. Gli imprenditori sono già al
lavoro per risolvere quello che non va. Il mugugno è come se fosse una
manifestazione di agonismo».
Prudente nei giudizi anche un altro osservatore, Daniele Marini, docente
di Sociologia del lavoro all’Università di Padova e direttore della
Fondazione Nord-Est, istituzione che studia i processi di quest’area.
Sostiene Marini: «Non è una situazione di crisi, ma siamo sul crinale.
Se non si trova in tempo una correzione, la situazione può diventare
difficile».
Naturalmente – forse perché la teoria del mugugno come proxy
dell’agonismo ha un suo fondamento – le cose cambiano quando a parlare
sono gli imprenditori. Alessandro Riello, presidente degli industriali
di Verona: «La situazione sta peggiorando – spiega – siamo in
difficoltà, c’è una crisi di esportazioni, c’è un problema con la
concorrenza asiatica che non riguarda solo la perdita di quote di
mercato, ma adesso anche l’approvvigionamento di materie prime: i prezzi
crescono perché c’è una grande richiesta che arriva proprio dalla Cina.
Nei metalli le quotazioni salgono: +60 per cento per l’acciaio, per
esempio. Ma sale anche il rame, lo stagno, l’alluminio, lo zinco. La
Cina sta rastrellando il rottame in tutto il mondo, e ha bloccato
l’esportazione di coke mettendo in difficoltà la produzione di acciaio
europea. E poi ci sono gli altri problemi, quelli più strettamente
legati al territorio: il rapporto mancato con le banche, il boom della
delocalizzazione, le infrastrutture, il deficit di politica». Del
deficit di politica parleremo più avanti, adesso concentriamoci su
un’altra questione: l’esistenza di problemi specifici legati al
territorio, comporta – come suggerisce una vulgata – che il modello
Nord-Est sia andato in crisi? La risposta che abbiamo raccolto tende a
un generale “no”. Per una semplicissima ragione: «il modello Nord-Est
non esiste», rispondono da queste parti.
Il modello inesistente
Riello: «Cominciamo col dire, appunto, che il modello veneto non c’è, né
si può dire che sia mai esistita una struttura sociale o industriale
riproducibile. È stato un modello casuale e spontaneo. Per esempio
casuale è stato il fatto di non avere avuto grandi imprese sotto il cui
ombrello sia cresciuta una piccola e media impresa. Qui c’è stato il
fiorire fluido, naturale di una imprenditorialità fatta da gente che ha
preso la valigia e se ne è andata in giro per il mondo».
Marini: «È un modello che è un non-modello. I veneti sono solo stati i
cinesi di venti o trent’anni fa: piccoli imprenditori che hanno
utilizzato mano d’opera famigliare a basso costo e ad altissima capacità
di lavoro. Il Nord-Est come fenomeno di crescita nasce negli anni
Sessanta; mentre come idea, come costruzione intellettuale arriva dieci
anni fa. E diventa modello che fa presa sull’immaginario per la
contemporanea esplosione di due fenomeni straordinari: sul piano
politico la fine della Democrazia cristiana e l’avvento della Lega; sul
piano economico, il crollo della grande impresa, la fine in Italia del
modello fordista; quando le grandi imprese sono entrate in crisi ci
siamo accorti che esisteva l’alternativa e che si era sviluppata nel
Nord-Est».
Però, ecco che chiacchierando con i nordestini si scopre che sebbene il
modello sia solo una costruzione ex post, un tentativo di mettere ordine
a cose già fatte, pure esistono dei tratti specifici, degli elementi
quasi caratteriali (e questi sì davvero irriproducibili) che
costituiscono la straordinaria identità dell’area. Maurizio Sacconi,
sottosegretario al Lavoro, trevigiano, descrive così il suo mondo: «Il
Nord-Est è un caso piuttosto raro in tutto il mondo occidentale di
trasformazione rapidissima e verticale di un sistema economico senza
traumi sociali. È stata la famiglia l’elemento che ha garantito la
continuità: insieme unità di base economica e sociale che ha funzionato
nel processo di industrializzazione, senza reprimere, senza cancellare
l’origine contadina, tanto da saper coniugare la nuova attività
industriale che nasceva in seno alla famiglia con un residuo di attività
agricola: il metalmezzadro è stata una figura tipica, e in parte lo è
ancora. Poi c’è stato l’elemento della cultura confessionale. Questa è
una zona profondamente cattolica, ma di una cattolicità sui generis,
inconsapevolmente innervata di cultura calvinista, che si manifesta, per
esempio, nel fortissimo attaccamento al lavoro della gente. Poi c’era
ancora un altro elemento, l’idea di comunità: qui c’è un alto tasso di
partecipazione al volontariato, per esempio. Tutti questi fattori –
persona, famiglia, comunità, peraltro negletti dal secolo durante il
quale la trasformazione avveniva – ne hanno fatto quasi un mondo a
parte, dove per esempio l’arricchimento è stato democratico, molto
diffuso, e ha investito tutti. Curioso anche il rapporto con l’estero,
la propensione all’internazionalizzazione, che è stata una delle
componenti decisive del boom nordestino. È dagli anni Sessanta che nasce
il rapporto con i paesi dell’Europa dell’Est. E nasce con la gita, con
la piccola trasferta giovanile, che poi si trasforma gradualmente nella
nascita prima di rapporti economici di scambio e infine diventa
delocalizzazione, insediamento».
La consapevolezza dell’energia che – crisi o non crisi – il Nord-Est
contiene è molto sviluppata. Racconta Daniele Marini: «Non bisogna
dimenticare che questo è stato il Mezzogiorno del Nord, terra di
emigrazione. Che cos’eravamo nell’immaginario collettivo degli italiani?
In Pane, amore e fantasia il carabiniere è veneto. Nella pubblicità
dell’olio Sasso negli anni di Carosello, c’è una donna di servizio di
colore, tipo mummy di Via col vento che però parla in dialetto veneto,
perché per tutti gli anni Sessanta e una parte del decennio successivo
le donne di servizio erano friulane».
Dunque il Nord-Est è affrancamento, ed è anche il massimo
dell’occidentalizzazione possibile, persino nei suoi aspetti peggiori,
naturalmente: per esempio il deterioriamento delle condizioni
dell’ambiente, la lunga teoria di capannoni e di insediamenti, la
trasformazione della campagna in una smisurata area dall’aspetto della
periferia metropolitana.
L’esprit di povertà
Che cosa è successo, che cosa ha determinato la preoccupazione di questi
mesi, la trasformazione di una difficoltà passeggera nell’ennesimo
fenomeno di tamtam massmediatico? Secondo Paolo Feltrin, la prima
questione riguarda le relazioni con i mercati dell’Est: «Non poteva
durare all’infinito – dice – il rapporto con i mercati apertisi nei
paesi ex comunisti. Mercati che diventano più affollati, dove i tassi di
crescita restano alti, ma gli spazi non sono più le praterie deserte di
dieci anni fa. La questione delle difficoltà di oggi va proiettata in
avanti: come si fa a rimanere competitivi in mercati che diventano
sempre più concorrenziali?».
Poi c’è il ritardo infrastrutturale che tutti denunciano: «Si vive in
una smisurata area metropolitana che però ha reti insufficienti, nei
trasporti (qui ci si muove solo in auto e i prodotti vengono veicolati
solo su gomma), nelle comunicazioni, nei servizi alle imprese», racconta
Diego Bottacin, sindaco di Mogliano Veneto, provincia di Treviso
(pienissimo Nord-Est), coordinatore regionale della Margherita. Poi c’è
la questione dimensionale, le imprese sono molto piccole, forse troppo
piccole, nove su dieci sono sotto i dieci dipendenti. Infine c’è la
questione generazionale, che molti considerano uno dei problemi più
seri. «Abbiamo famiglie imprenditoriali che hanno meno figli, ma più
istruiti che tendono a preferire le professioni liberali. O che comunque
hanno diverse scale di valori», dice Marini. Ancora più esplicito
Sacconi: «Oggi sta venendo meno per ragioni anagrafiche la generazione
imprenditoriale mossa dall’esprit di povertà. Chi ha vissuto con la vera
miseria, e qui era così il mondo, aveva un movente che la nuova
generazione non ha. Come sarà la nuova generazione? Come sarà sostituito
l’esprit di povertà?». Ancora più brutale chi snocciola i dati sulla
natalità. Negli anni Sessanta la media di natalità era 2,6 figli per
donna fertile. Oggi siamo a 1,1. Che cosa significa? Che la selezione
naturale della ragione d’impresa trova un ostacolo: se le seconde
generazioni sono tradizionalmente un problema per le imprese, lo sono a
maggior ragione quando i figli diminuiscono e ci sono minori probabilità
di trasmissione del movente, dell’energia, della fiamma creativa, la
vera causa di quella che molti considerano la primazia antropologica
dell’imprenditore, la forza brutale di chi è in grado di costruire da
zero. Anche se – non senza un pizzico di anticonformismo – il professor
Feltrin ammonisce dall’adesione allo schema del trapasso generazionale
come fattore di crisi. Dice: «Sono fasi cicliche che tutti i sistemi
sopportano. Per quanto riguarda il Nord-Est, sono quasi quarant’anni che
da queste parti si fanno questi discorsi, “perché lavoro, famiglia e
comunità non sono più quelli di una volta”. Io credo che non abbia molto
senso. La verità è che il capitale sociale dentro un sistema economico
si esaurisce, si trasforma, si presenta sempre in modo nuovo».
Il capitale sociale si trasforma. Secondo gli operatori anche il
volontariato sta cambiando da queste parti. Per il momento è solo
l’accenno di una intenzione percepita, perché le cifre dicono che il
valore della solidarietà è ancora saldo. Nel Nord-Est la densità di
organizzazioni di volontariato (si occupano prevalentemente di attività
socio-assistenziali) è più alta della media nazionale: ogni 10.000
abitanti 6,2 organizzazioni, contro il 4,6 della media. Ed è un fenomeno
che non va ascritto soltanto alla tradizione cattolica. Perché mentre in
Italia quasi un terzo delle organizzazioni di volontariato ha una
matrice confessionale (28,7 per cento nel 2001), nel cattolicissimo
Nord-Est solo un quinto delle organizzazioni si richiama a una matrice
organizzativa di tipo religioso.
«Ma – spiega Maurizio Bonotto, presidente regionale dell’Avis – le cose
cambiano. Per esempio il Veneto, dietro Lombardia ed Emilia resta la
terza regione d’Italia nella donazione di sangue, e contribuiamo al
fabbisogno di alcune regioni del Mezzogiorno, nonostante l’aumento del
nostro fabbisogno interno di sangue (segno quest’ultimo che la sanità
funziona). Il problema però è che adesso la disponibilità dei giovani è
un po’ in calo. Parlo della qualità dell’impegno, perché se i donatori
sono aumentati, è diminuita la disponibilità a fare i dirigenti. Forse
si comincia ad avvertire un pochino di egoismo, un po’ di chiusura nel
nostro guscio».
Reti e campioni di distretto
Luigi Meneghello, uno dei principali scrittori italiani, è essenza pura
di Nord-Est. In Bau-sète!, 1988, scrive: «Nei mesi che seguirono la
guerra, sentivo in modo acuto e confuso la necessità di un inventario.
[...] Ci voleva un inventario anche per sommi capi, e pareva facile
farlo, bastava elencare le cose essenziali nel loro ordine naturale».
Deve essere un tratto regionale, forse si lamentano, ma all’inventario
stanno già lavorando. Emergono due grandi linee di tendenza per
risolvere i problemi. Prima linea: lavoriamo sulle reti. Non solo in
termini di infrastrutture materiali, ma anche per quanto riguarda
tecnologia e formazione. Più rapporti tra impresa e università, più
scambio tra i singoli atenei che oggi pur così vicini, sono accusati di
vivere senza interazione reciproca, senza dialogare. Ma rete significa
anche potenziare i rapporti dentro al tessuto delle microimprese,
avvicinarle, spingerle a economizzare alcune categorie di costi,
potenziare la terziarizzazione ancora bassa. Altre idee, come propone
Brunetta per esempio: «la creazione di reti transfrontaliere per
utilities, luce, gas, acqua, infrastrutture». Seconda linea: «lavorare
sulla leva dimensionale – dice Feltrin – favorire la crescita di un
campione di distretto, una impresa più grande, una impresa di eccellenza
in grado di trascinare un distretto».
Poi c’è la questione della delocalizzazione. Qui ne parliamo di
sfuggita, meriterebbe maggiore approfondimento – il trasferimento delle
produzioni nell’Est europeo e adesso anche nell’estremo oriente – ma
quasi come avviso riportiamo il giudizio di Alessandro Riello che
sostiene: «Delocalizzare non mi sembra un’idea così geniale. Va
benissimo spostare verso altri paesi la nostra presenza, ma non possiamo
pensare di abbandonare la base di partenza, non è possibile immaginare
che un’area di queste dimensioni smetta all’improvviso di essere
manifatturiera per terziarizzarsi». Maurizio Sacconi mette all’ordine
del giorno un altro problema: la necessità di riconsiderare il modello
del capitalismo famigliare: «Bisogna riuscire a salvaguardare la
saldezza della matrice famigliare, ma rinforzarla con l’inserimento di
management e con la partecipazione finanziaria di terzi». Ma tutto
questo, avverte chi qui opera, è possibile solo se quest’area sarà
governata. «Per molti anni economia e società sono cresciute libere ed
effervescenti – dice Marini – oggi si sente il bisogno di politica». Una
necessità che sembra condivisa. Persino gli imprenditori ne parlano
apertamente. «Quando pensiamo al problema, per esempio,
dell’approvvigionamento di materie prime e scopriamo che parallelamente
al blocco delle esportazioni di coke cinese, noi abbiamo una siderurgia
di base europea che dipende dall’estero più di prima perché ha dovuto
chiudere impianti non a norma con le nuove regole dell’Unione, ci
rendiamo conto concretamente di che cosa sia il deficit di politica. Non
sono soltanto slogan…», dice Alessandro Riello.
«C’è un certo disorientamento nella società. Negli ultimi anni ha
prevalso un laissez-faire di stampo post-democristiano – racconta Diego
Bottacin – oggi è evidente che senza una guida sarà difficile rimetterci
in sesto».
25 giugno 2004 |