Mencken, l’altro americano
di Alberto Mingardi
da Ideazione, maggio-giugno 2004

Nel fiume di retorica filoamericana da cui siamo sommersi da qualche tempo, bolsa come ogni altra retorica, depurata di qualsiasi cosa non sia un luogo comune zuccheroso e banale, affumicata ben bene sul fornello del politically correct, s’affastellano visioni contradditorie, regna la confusione delle lingue nel sovrapporsi delle immagini e delle parole d’ordine. Dici «America», e dovrebbe bastare: verità di per sé evidenti, la vita, la libertà, the pursuit of happiness. Sono pochi, pochissimi, però, ad ammettere che la questione è più complessa, che il sogno si è sfilacciato, che vecchie speranze si sono inesorabilmente incrinate.
Scriveva Alberto Pasolini Zanelli all’inizio degli anni Novanta: «Il diritto di fare, di scegliere, di avere, fondamento di una società liberale, viene dilatato e stravolto nel diritto di gioire, di “sentirsi bene”. Chi cambia lavoro, carriera, città, marito non afferma solo la libertà di tentare: pretende anche la sicurezza di riuscire almeno altrettanto bene, di trovarsi meglio che nel posto di prima, nel job di prima, col coniuge di prima. Altrimenti fa causa: al coniuge, al capoufficio, al proprietario del negozio o dello stabile, allo Stato, al medico. A chiunque si possa sospettare di aver sottratto a qualcuno qualcosa che nella vita reale può esser o meno ma che nella ideologia del vittimismo è diventato un diritto: quello di essere bravo come gli altri, bello, simpatico e sano come gli altri. Si fa causa ai genitori che ci hanno lasciato una eredità genetica cattiva o debole, alla società che ci ha permesso di nascere, a chi ha venduto la pera che ci è rimasta sullo stomaco, alla ditta o alla persona che ha messo sul mercato quel genere di pera... I “diversi” non formulano più la richiesta sacrosanta di essere lasciati in pace o farsi i fatti propri in privato: pretendono che il loro “stile di vita” non sia soltanto tollerato ma lodato, esaltato». Il trend, si direbbe, non è una novità assoluta, un fulmine a ciel sereno sul palcoscenico della storia. Si tratta, piuttosto, del recente consolidarsi di una tendenza più antica, dell’esplosione più recente e fiorita di un’impostazione ideologica, di un modo d’essere, che trova anche Oltreatlantico cittadinanza e rispetto. Accostarsi ad H. L. Mencken (1880-1956) significa in qualche modo avvicinarsi a un uomo che, armato della lama affilatissima della sua ironia e senza mai tentare la posa ieratica del maître à penser, ha combattuto con preveggenza l’intreccio asfissiante di statalismo e perbenismo.

Non certo pensatore sistematico, ma polemista, critico sociale acutissimo refrattario ad indossare i paraocchi della sociologia, distante per istinto e formazione dalle lusinghe dei potenti, Mencken è il «joyous libertarian» che descrive Murray Rothbard, nel saggio bellissimo ospitato in questo numero di Ideazione. Egli fu, più precisamente, l’esponente più in vista di quella “Old Right” pre-bellica i cui istinti e sentimenti sarebbero stati rivoltati prima dal conservatorismo anticomunista, sostenitore di uno Stato muscolare (per quanto a tempo determinato) per spezzare la cortina di ferro e poi, con tutti i crismi di un ripudio in pompa magna, dal neo-conservatorismo oggi imperante. Mencken, assieme ad Albert J. Nock e Frank Chodorov, era l’esponente di punta di un movimento d’impronta radicalmente antistatalista suscitato, da un lato, dall’orrore della prima guerra mondiale e, dall’altro, dall’agglutinamento di poteri del tutto inediti nel welfare state rooseveltiano.

Come ricorda Justin Raimondo, non è un movimento che nasca all’interno dei circoli e nei partiti “di destra”. «Fino agli anni Trenta, il non-interventismo era stato associato con la sinistra dello spettro politico». Una sinistra insofferente all’imperialismo, britannico e statunitense, impegnata a liquidare in fretta (e senza successo) le illusioni wilsoniane, radicalmente avversa al proibizionismo, guardacaso nato nell’alveo del partito repubblicano, insofferente verso i politici di professione. Una sinistra che aveva imparato la lezione dell’ultima guerra: «i governi e i politici sono la fonte ultima di tutte le guerre, e quindi di loro non ci si può fidare».

La tradizione del liberalismo e la critica alla democrazia

Il fenomeno che avrebbe portato questi atteggiamenti a diventare il nerbo della cosiddetta “vecchia destra” è del tutto analogo a quello già descritto da Herbert Spencer in un saggio su “The New Torysm” che, pubblicato originariamente sulla Contemporary Review, avrebbe poi costituito il primo capitolo di Man versus the State. Non a caso, nella prefazione all’edizione Caxton di quel libro (ristampata nella più recente versione Liberty Fund), Albert J. Nock ne sottolinea anche il carattere d’anticipazione per gli stessi Stati Uniti e ammette che, con l’affermarsi del New Deal, la singolare profezia si è già avverata: i liberals hanno abbandonato l’afflato verso un’espansione della sfera delle libertà individuali, tipica dei loro predecessori.

Sotto l’influenza dei Whig, ricorda Spencer, caddero le leggi che interferivano con la libertà di movimento degli artigiani, si lasciò libertà di culto ai dissidenti, si spinsero persino i conservatori a lasciare libertà ai cattolici di professare la propria fede. Si proibì la vendita dei neri e la loro detenzione in schiavitù. Il monopolio della compagnia delle Indie orientali fu smantellato, e si aprirono i circuiti degli scambi, si spezzarono le catene della stampa.

La gloriosa tradizione del liberalismo inglese viene rivendicata da Spencer, che pure già intuisce nel governo di Gladstone, non insensibile alle sirene dell’imperialismo, e in un certo qual modo precursore di alcune politiche “sociali” (nel campo dell’istruzione, ad esempio) un momento d’impasse e declino. Il grande filosofo inglese, com’è sua cifra, non riconduce l’opposizione fra Whig e Tory allo sterile gioco della geografia parlamentare, ma rintraccia negli uni, i conservatori, il partito della guerra e della militarizzazione, che discende da una nostalgia della società militare, dell’irregimentazione, del tribalismo originario ch’è lo stato larvale della vita associata. I liberali, di contro, s’avvicinano ad essere il partito dell’industrialismo, del contratto, del volontarismo, della società complessa basata sull’intrigo sottile della cooperazione. Ma anche queste classificazioni, intuisce Spencer, sono passeggere, perché la politique politicienne rimescola le carte e scompagina persino le operazioni più minuziose di consapevole etichettamento.

Un fatto importante è affermato da Spencer quando sottolinea che «la libertà di cui gode un cittadino dev’essere misurata non sulla natura del meccanismo governativo sotto il quale vive, sia esso rappresentativo o altro, ma dalla relativa scarsità dei vincoli che esso gli impone». Non a caso il quarto, e più potente, capitolo di Man Versus the State è consacrato da Spencer a “The Great Political Superstition”, ieri il diritto divino dei re, oggi l’ancor più assurdo diritto divino dei parlamenti.

Si può ipotizzare, e probabilmente non si sbaglia, che la giravolta decisiva nell’evoluzione del senso e della missione del “liberalismo” sia da rintracciare nella fascinazione per la democrazia, nell’annacquamento della libertà nella rappresentanza. È in quest’orizzonte che va inquadrata la produzione degli autori della “Old Right”, stoica resistenza a un “riflusso” che vedeva smarrirsi ogni entusiasmo residuale negli ideali gloriosi del liberalismo classico. Da un lato, la militarizzazione della vita sociale lasciata in eredità dalla guerra mondiale. Dall’altro, la crisi del Ventinove e la “risposta” rappresentata dal New Deal. Fra quest’incudine e questo martello si sviluppa un pensiero di retroguardia, conservatore di un ordine già archiviato e sepolto, impotente innanzi all’incalzare dello statalismo.

H. L. Mencken è stato molte cose nella sua vita. Come ha scritto Gore Vidal nella prefazione a un libro del 1991, «dopo la politica, il giornalismo è sempre stato la carriera preferita da parte di persone di seconda scelta, ambizione ma pigre». Il formidabile romanziere segnala due “eccezioni americane”, curiosamente l’una la nemesi dell’altra: Franklin D. Roosevelt, fra i politici, ed H. L. Mencken, fra i giornalisti. Figlio di un produttore di sigari, Mencken insegue la vocazione del cronista e l’agguanta soltanto a diciannove anni, con la scomparsa del padre che lo esonera dall’obbligo di seguirne le orme. Mencken racconta di aver bussato alla porta del Morning Herald di Baltimora il lunedì dopo la sepoltura, anche se il biografo Terry Teachout azzarda che possa essere stato assalito da umanissimi sensi di colpa e di vergogna, godere la propria libertà per la morte del genitore. Fatto sta che il ragazzo trova la propria strada, sale a larghi balzi la cima, espugna la roccaforte del giornale locale in men che non si dica, e a venticinque anni ha già mansioni da editor, conquistate sul campo. Scrivendo a William Saroyan nel 1936, Mencken dirà: «Ho compreso quanto dice circa la sua aspirazione a dirigere un giornale. Per questo le invio con questa lettera una rivoltella a sei colpi. Li carichi e spari ciascuno di essi nella sua testa. Mi ringrazierà quando sarà finito all’inferno e avrà appreso da altri direttori quanto terribile sia stato il loro lavoro sulla terra».

Questo lavoro terribile attrae Mencken tanto irresistibilmente da dirigere due periodici destinati a fare la storia: con George Jean Nathan, prende ad occuparsi della nuova reincarnazione di The Smart Set nel 1914, e così farà fino al 1923. The Smart Set diventa una rivista letteraria d’importanza capitale, che contribuisce a disegnare il volto nuovo della narrativa americana, a lanciare scrittori, a stroncarne altri. «Oggi a Mencken viene riconosciuto, e a ragione, d’essere stato il leader delle forze per il realismo che hanno trionfato negli anni Venti», scrive William H. Nolte nell’introduzione a una raccolta di saggi letterari menckeniani.

Un genio al di là delle ideologie

Prima ancora, sempre con Nathan, Mencken aveva fondato una serie di riviste pulp, la cui vendita consentì ad entrambi se non di diventare ricchi, di mettersi al riparo dalla sfortuna per un certo tempo. Nondimeno, Mencken si distaccò sempre più dalla critica letteraria: come scrisse al poeta Louis Untermeyer nel 1919, «viviamo, non in un’epoca letteraria, ma in un’epoca selvaggiamente politica». E gl’interessi di Mencken si orientano sempre più in quella direzione nonostante il primo, grande libro – dopo prove minori come i suoi saggi su George Bernard Shaw e Nietzsche – sia The American Language, un lavoro di grandissimo successo in cui l’autore compila con precisione certosina, e senza mai abbandonare le armi dell’ironia, un vocabolario delle peculiarità e delle differenze dell’americano rispetto all’inglese. Un libro nato, in certa misura, come tributo all’ispiratore, al mito di Mencken, Samuel Clemens, in arte Mark Twain, il primo a scrivere in una lingua «davvero americana». Degli stessi anni sono scritti molto accesi, nei quali Mencken non fa mistero né della propria anglofobia da una parte, né della simpatia per i tedeschi, la loro cultura, e la Germania, inclusa la Germania in guerra. Come ha giustamente notato Terry Teachout nella sua ricca ed elegante biografia, che pure non sempre rende giustizia all’oggetto dei suoi studi, Mencken, nonostante abbia scritto relativamente poco su di lui, riteneva Woodrow Wilson «un manigoldo senza pari».
L’«arcangelo Woodrow» Wilson, da più di un punto di vista, è tutto quello che Mencken non poteva che disprezzare: a cominciare dall’allucinazione wilsoniana di «esportare la democrazia».

La svolta, però, quella che porterà Mencken a diventare davvero una leggenda, un uomo di lettere che ebbe senz’altro popolarità superiore in vita rispetto allo stesso Twain, o ad Hemingway, fu l’avventura di The American Mercury – da cui, dopo un anno, il cofondatore Nathan si distaccherà – una rivista cioè dedicata più espressamente alla vita in America, che con Mencken significa alla demolizione delle sue ipocrisie, a mettere alla sbarra gli istinti puritani. Poco dopo sarebbe avvenuto, a Daytona, il processo in cui William Jennings Bryan (un democratico vecchio stampo, ch’era uscito dal governo di Wilson per opposizione all’ingresso nella prima guerra mondiale) avrebbe tentato di far condannare un professore di biologia per aver fatto uso di un libro di testo d’orientamento “darwiniano”. Pane per i denti di “HLM”, che non solo seguì il processo, animato da sincera passione, ma poi scrisse un sorprendente In Memoria: W.J.B. con cui chiudeva i conti con Bryan, morto alla fine del procedimento legale, pietra miliare nel genere letterario dei coccodrilli senza lacrime e senza pietà. La difesa del darwinismo era, in Mencken, in parte suscitata dall’odio per religione e superstizione (che lo porterà a scrivere un Trattato sugli dei, tradotto anche in italiano, difficilmente digeribile da chi non sia un ateo militante), in parte riflesso di motivi ed influenze prettamente politiche, non ultima quella di Herbert Spencer – che in quegli anni restava ancora il faro di quanti, nel mondo anglosassone, non ritenevano desueti gli ideali di pace e libertà di mercato. Nel 1933, Mencken abbandona anche il Mercury, che viene lasciato nelle mani dell’editore Alfred Knopf (il quale lo vende) e poi del giovanissimo Henry Hazlitt, destinato a diventare un grande divulgatore dell’economia. I Trenta e i Quaranta sono anni d’opposizione con meno mezzi sorrisi e più sangue amaro, ma del resto era stato Mencken a vedere per la stampa un ruolo da “opposizione permanente” a qualsiasi tipo di governo. «Io sono il mio partito», dirà, e lo fu con determinazione e slancio, senza mai pensare che la politica sia un concorso di bellezza, che ciò che è giusto e ciò che è sbagliato si possa misurare sul metro del consenso.

A posteriori, come quasi tutti coloro che avversarono l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, Mencken venne accusato di antisemitismo (trovando anche nella sua prosa, mai tenera verso nessun gruppo sociale organizzato, qualche appiglio). Ciononostante, scrivendo a Upton Sinclair nel 1936 egli fece questa considerazione preveggente: «Io sono contro la violazione dei diritti civili da parte di Hitler e Mussolini quanto lo sei tu, e lo sai bene. Ma sono anche contro gli omicidi, espropri ed altri oltraggi all’ingrosso che sono accaduti in Russia. […] Tu protesti, e con giustizia, ogni volta che Hitler imprigiona un suo oppositore, ma dimentichi che Stalin e compagnia ne hanno imprigionati e uccisi migliaia di più».

L’opposizione adamantina al New Deal, e poi alla sua eredità, fu quel che contraddistinse la predicazione di Mencken fino alla fine, cioè fino al 1949, quando fu colpito da un’emorragia cerebrale che gli rese difficile parlare e impossibile scrivere. Sarebbe morto nel 1956, la sua stella forse eclissata, ma i suoi libri costantemente ristampati, la sua voce ancora forte. Fare l’elenco dei suoi saggi direbbe poco al lettore di oggi, e soprattutto al lettore italiano. La lunga serie dei Prejudices, l’autobiografia in quattro volumi (l’ultimo pubblicato postumo, nel 1993), l’impressionante A New Dictionary of Quotations del 1942, opera unica nel suo genere, mastodontica raccolta di citazioni (solamente altrui, purtroppo) amorevolmente classificate per argomento. E poi la Mencken Chrestomathy, raccolta dei suoi “pezzi” migliori scelti da lui medesimo, inclusa un’abbondante serie di sententiae (dalle quali abbiamo pescato).
In questo Feuilleton di Ideazione, traduciamo alcuni dei molti aforismi menckeniani, quelli che lo restituiscono a tutti come un genio, al di là persino dell’ideologia. Per altri, Mencken è un compagno di strada non solo per come scriveva, ma anche per quello che scriveva. C’è in lui ben di più del talento sarcastico dell’aforista, della capacità sintetica del distillatore di massime da biscotto della fortuna, del prosatore fine e del polemista arrabbiato. Certo non un pensatore sistematico, Mencken è stato un individualista all’ennesima, un libertario come giustamente gli riconosce Rothbard, un liberale a muso duro quando i liberali autentici non avrebbero potuto che ringhiare. Per Mencken, al sistema capitalistico «dobbiamo pressoché ogni cosa che oggi passi sotto il nome di civiltà».

Viceversa, egli non avrebbe potuto essere più scettico sulla natura dello Stato, più acuto nello smascherarne le superstizioni, né più duro verso la “democratizzazione” della società. Previde e dissacrò le prime avvisaglie della correttezza politica, distrusse il puritanesimo che leggeva come anticamera e riflesso della democrazia.

«Il governo ideale di tutti gli uomini riflessivi, da Aristotele in poi, è quello che lascia l’individuo da solo – un governo che si distanzia per poco o nulla dal non essere un governo». «In ogni epoca i sostenitori della teoria politica dominante tentano di darle dignità identificandola con qualsiasi contemporaneo desiderio dell’uomo capiti sia il più potente. Negli anni della monarchia, la monarchia veniva dipinta come uno strumento a difesa della fede. Nella nostra epoca presente di democrazia, la democrazia è rappresentata come l’unico guardiano sicuro della libertà. E il comunismo o super-comunismo di domani, suppongo, verrà venduto ai boccaloni come l’unica vera protezione di pace, giustizia e abbondanza. Tutti questi tentativi di uncinare causa ed effetto sono privi di senso. La monarchia era fondamentalmente non uno strumento a difesa della fede, ma un rivale ed un nemico della fede. La democrazia non promuove la libertà; essa diminuisce e distrugge la libertà. E il comunismo, come l’esempio della Russia già ci mostra, non è una fontana che emette a fiotti pace, giustizia ed abbondanza, ma una fogna in cui esse annegano».

I brevi testi di Mencken che pubblichiamo sono pagine intense e feroci, che poi significa: lucide, sulla democrazia, dove l’autore spiega benissimo da sé il suo pensiero. Questo Feulleiton non esaurisce certo il pensiero di Mencken, che come scrittore a contratto di pezzi d’occasione era più uomini in uno: il Mencken critico letterario, il Mencken ateo militante, il Mencken nichilista e nietzscheano, il Mencken politico. Quest’ultimo è forse il più attuale, riluce di rara preveggenza. Come questo passo che pare opportuno consegnare al lettore, analisi definitiva e penetrante della “statalizzazione” delle nostre vite: «Il cittadino di oggi, persino negli Stati più civilizzati, è non solo assicurato soltanto manchevolmente contro altri cittadini che aspirino a sfruttarlo o fargli del male […] egli viene inoltre sfruttato e gli viene fatto del male pressoché senza misura dal governo stesso – in altre parole, da quella stessa agenzia che professa di proteggerlo. […] Egli trova più difficile e costoso sopravvivere a causa di questo di quanto lo sia sopravvivere innanzi ad ogni altro nemico. […] Ma egli non può fuggire dall’esattore e dal poliziotto, in tutte le loro guise versatili e multiformi, più di quanto possa sfuggire al necroforo. Essi lo circondano costantemente, ogni giorno, in numeri sempre maggiori e con maschere e attitudini sempre più disarmanti. Essi invadono la sua libertà, offendono la sua dignità, e ogni anno si prendono e gli strappano violentemente una porzione sempre maggiore dei suoi beni temporali».

18 agosto 2004

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