L'allegro libertario
di Murray N. Rothbard
da Ideazione, maggio-giugno 2004

È tipico della Kultur americana non essere riuscita a capire H. L. Mencken. E fu tipico di H. L. Mencken non preoccuparsene affatto, al contrario, poiché ciò non faceva che confermare il suo giudizio sui propri connazionali. Gli americani fanno fatica a concepire una fusione di vivacità di spirito e attaccamento ai principi: o sei un umorista che in maniera pungente o garbata mette in ridicolo le debolezze di un’epoca, o sei un pensatore serio e austero. Pochi arrivano a comprendere che un uomo di grande spirito possa essere, per certi versi, ancor più attaccato alle idee e ai principi positivi; quasi sempre, lo si etichetta semplicemente come cinico e nichilista. Questo fu, ed è tuttora, il destino di H. L. Menchen, che però non si sarebbe aspettato niente di diverso.

Oggigiorno qualsiasi individualista e libertario ha davanti a sé un duro compito. In un mondo segnato, se non dominato, dalla follia, l’inganno e la tirannide, egli può scegliere, se è dotato di capacità riflessive, fra tre possibili linee di azione: 1) può ritirarsi dal mondo sociale e politico per dedicarsi alle sue occupazioni o, come fece il primo socio di Mencken, George Jean Nathan, rifugiarsi in un mondo di contemplazione puramente estetica; 2) può cercare di migliorare il mondo, o quantomeno formulare e diffondere le sue opinioni avendo in mente quella suprema speranza; oppure, 3) può decidere di stare nel mondo divertendosi immensamente allo spettacolo della sua follia. Colui che intraprende la terza strada deve avere una personalità particolare e un particolare giudizio del mondo. Deve essere innanzitutto un individualista con una serena e inesauribile fiducia in se stesso, un “anticonformista” estremo che non si vergogni né tremi all’idea di andare contro il giudizio del branco. In secondo luogo, deve essere un amante della vita e dello spettacolo che essa offre, un individualista con un grande attaccamento per la libertà e l’eccellenza individuale che tuttavia può – in virtù del medesimo attaccamento alla verità e alla libertà – apprezzare e satireggiare una società che ha voltato le spalle a quanto di meglio possa raggiungere. Deve essere, infine, profondamente pessimista sulla possibilità di cambiare e riformare le idee e le azioni della grande maggioranza dei suoi simili; deve credere che il boobus Americanus sia destinato a restare boobus Americanus per sempre. Sommiamo insieme queste caratteristiche, e non siamo molto lontani dallo spiegare la strada intrapresa da Henry Louis Mencken.

Mencken aveva, ovviamente, anche altre qualità: un gusto sconfinato, un umorismo brillante, una conoscenza dotta e sensibile di molti campi del sapere, un entusiasmo per gli eventi salienti del mondo di ogni giorno che faceva di lui un giornalista nato. Nonostante questa sua passione onnivora per le discipline intellettuali, non era tagliato per elaborare rigorosi sistemi di pensiero – ma in fin dei conti, quanti lo sono?

Individualista sereno e fiducioso, dedito alla competenza e all’eccellenza e profondamente attaccato alla libertà – pur essendo convinto che la maggior parte dei suoi simili fosse ridotta male – Henry Louis Mencken si ritagliò un ruolo unico nella storia americana: lanciandosi allegramente nella mischia, stroncava la falsità e l’ottusità da cui si vedeva circondato, scoppiava i palloni della pomposità, puliva le stalle di Augia dall’ipocrisia, l’assurdità e i cliché, «gettava», come egli stesso affermò una volta, «il gatto morto nel tempio» per mostrare agli sconcertati veneratori del vacuo che non sarebbe morto fulminato. E nell’assolvere a questo compito, raramente intrapreso in qualsivoglia epoca – e svolto esclusivamente per il suo divertimento – egli esercitò un’immensa forza liberatoria sulle menti più brillanti di un’intera generazione.

Una delle cose che più piacevano a Mencken e alle quali riusciva a non mancare quasi mai, erano le assemblee presidenziali. Qui, in maniche di camicia, tracannando birra, si tuffava tra la folla rauca e brulicante, nell’allegria, la vacuità e l’eccitazione del grande processo politico americano, prendendo parte al divertimento pur vedendone tutta l’assurdità. Dopodiché scriveva ciò a cui aveva assistito, stroncando la falsità, l’ipocrisia e la totale insensatezza dei governanti in azione. Chiunque si immergesse realmente in Mencken non poteva più essere lo stesso; non poteva conservare la fiducia negli “statisti” o nel processo politico democratico; non poteva più credere ciecamente a ogni sorta di impostura politica, sociale o ideologica, e neppure tornare a ignorare il nonsenso dilagante.

La minoranza della minoranza

La forza liberatoria di Mencken non si esercitava ovviamente sulla massa, bensì sui rari e isolati individui intelligenti in grado di apprezzare il suo messaggio ed esserne influenzati; insomma, come il suo vecchio amico e collega libertario Albert Jay Nock, Mencken scriveva per (e affrancava) la “minoranza” in grado di capire. Se lo stile esprime l’uomo, l’impatto deflagrante della scrittura di Mencken non fu l’ultimo degli atti liberatori da lui compiuti. Studioso della lingua inglese – o meglio americana – aveva un amore per il linguaggio, la precisione e la chiarezza della parola, e un attaccamento al proprio mestiere, di cui pochi scrittori hanno dato prova. Il celebre critico e saggista Joseph Wood Krutch non utilizzò un’iperbole quando definì Mencken «il più grande prosatore del Ventesimo secolo»; anche questo aspetto, tuttavia, è stato misconosciuto, essendo gli americani generalmente incapaci di prendere sul serio uno scrittore brillante.

La tragedia – per noi, non per Mencken – è che neanche la “minoranza” capiva; la maggior parte dei suoi presunti sostenitori cadeva nello stesso errore che facevano tutti gli altri ritenendo che umorismo e serietà di intenti non potessero andare di pari passo; abbagliati dall’arguzia dello scrittore, essi non coglievano i valori positivi che sarebbero dovuti emergere in maniera evidente dalla sua opera. E così quelli che si unirono allegramente a Mencken nel mettere in ridicolo la bigotteria, il proibizionismo e la “lega anti-saloon”, i puritani e la moralizzazione degli anni Venti, lo abbandonarono in seguito per appoggiare la rafforzata moralizzazione e i più esaltati puritani degli anni Trenta. Quelli che avevano dileggiato i rimedi miracolosi della politica degli anni Venti approvarono con prontezza e coraggio le ben più perniciose ricette delle politiche del New Deal. Quegli stessi menckeniani che avevano visto con chiarezza l’assurdità del coinvolgimento americano nella prima guerra mondiale, senza alcuna esitazione né traccia di umorismo battevano chiassosamente la grancassa per l’ugualmente o ancor più insensato intervento nella seconda. L’incapacità dimostrata dai sedicenti seguaci di Mencken di comprendere il suo “messaggio” (concetto che egli avrebbe aborrito), lungi dal rattristarlo, non fece che confermare il suo giudizio sulla diffusione della “booboisie”, che, tuttavia, era una calamità per il paese.

Se Mencken non era un nichilista, quali erano allora i valori positivi in cui credeva? Mencken aveva un’enorme dedizione per il suo mestiere di redattore, giornalista e linguista, che si rifletteva a sua volta in un profondo individualismo e nella conseguente passione per l’eccellenza individuale e la libertà personale. Amava molto la musica. Nutriva un interesse, forse eccessivo, per la scienza, il metodo scientifico e l’ortodossia medica; l’interesse per la scienza aprì la strada a un tipo di determinismo meccanicistico che contribuì senz’altro a forgiare il suo pessimismo sulla possibilità di cambiare le idee e l’agire degli uomini.

L’individualismo diffuso che caratterizzava la Weltanshauung di Mencken conferiva una coerenza – misconosciuta – alle sue opinioni, sistematizzando le sue scorrerie frammentarie e superficiali in numerosi campi. Prendiamo ad esempio un ambito all’apparenza “non politico” come quello della musica folk. Non è un caso che, nel nostro secolo, sia la sinistra socialista che la destra nazionalista – entrambe nemiche dell’individualismo – abbiano fatto di questo genere “popolare” una sorta di feticcio. L’ineguagliabile recensione del libro Poetic Origins and the Ballad, scritto da Louise Pound, offrì a Mencken l’occasione di entrare nel vivo dell’argomento: «Il libro della dottoressa Pound demolisce completamente la teoria su cui si basano i nove decimi delle discussioni pedagogiche sulla ballata e le sue origini. Secondo tale teoria, le ballate a noi tutti note […] sarebbero prodotte non già da singoli autori, ma da orde di minnesinger riuniti insieme […] in sintesi, i primi compositori di ballate si unirono dapprima in una goffa danza, poi intonarono un motivetto e infine ci aggiunsero le parole. È difficile immaginare qualcosa di più insensato, eppure intere torme di professori considerano questa dottrina pressoché sacra e la inculcano ogni anno nella testa di innumerevoli dottorandi. La dottoressa Pound dimostra […] che le ballate non avevano affatto tale origine, ma erano scritte, al contrario, da singoli poeti di talento […] e che la maggior parte di esse non videro la luce in volgari banchetti organizzati nel parco del paese, bensì in eventi alla moda e persino intellettuali come le feste della birra tenute nei saloni dei castelli.

Il concetto secondo cui qualsiasi opera d’arte rispettabile può avere un’origine collettiva è completamente insensato. La gente comune, nell’insieme, non è capace di un impulso estetico coerente, come non lo è di coraggio, onestà o onore. Le cattedrali medioevali non furono progettate e costruite da intere comunità bensì da singoli individui; e l’unico contributo fornito dalle comunità era il lavoro duro, eseguito malvolentieri e in modo spesso scadente. Lo stesso vale per le canzoni folk, il mito folk, le ballate folk. […] La canzone popolare tedesca […] è stata generalmente ricondotta a un misterioso talento innato dei contadini tedeschi, ma gli studi hanno rivelato che alcuni dei brani considerati particolarmente rappresentativi dello spirito folk furono scritti in realtà dal direttore musicale dell’Università di Tubingen, il professor Friedrich Silcher […].

Lo stesso ragionamento si applica alle ballate inglesi. La dottoressa Pound mostra come alcune tra le più famose, nelle loro forme originarie, siano dense di frasi e concetti che ai contadini inglesi dell’epoca elisabettiana sarebbero risultati incomprensibili quanto la teoria di Ehrlich sull’immunità; sarebbe del tutto assurdo, insomma, immaginare che a comporle sia stata una banda di zotici urlanti impegnati a galoppare attorno al Maypole o solennemente riuniti in un Eisteddfod o in una Allgemeinesagerfest. [La studiosa] spiega inoltre l’attuale processo compositivo della ballata, ovvero come una canzone di Paul Dresser o Stephen Foster sia presa a prestito dal popolo e poi gradualmente svilita».

Il mito di Mencken come nichilista dissacratore ha pervaso la critica letteraria; fu quindi con sorpresa e ammirazione che il celebre critico Samuel Putnam lesse la grande raccolta di composizioni brevi, scelte e curate dallo stesso Mencken, intitolata The Mencken Chrestomathy. In una acuta recensione, Putnam scrisse che Mencken era evidentemente un “anarchico tory”, definizione che riassume egregiamente la visione del mondo da lui sostenuta per tutta la vita.

Mencken era spinto dalla passione per la libertà individuale. Una volta dichiarò solennemente al suo buon amico Hamilton Owens: «Io credo in una sola cosa: la libertà umana. L’uomo può sperare di conquistare una parvenza di dignità solo se agli uomini superiori viene data la libertà assoluta di pensare e dire ciò che vogliono. Sono contrario a qualsiasi uomo e organizzazione cerchi di limitare o negare quella libertà […] [e] l’uomo superiore può essere certo della libertà solo se essa viene concessa a tutti gli uomini». In un’altra occasione, Mencken affermò di credere nella libertà individuale assoluta «fino al limite dell’insostenibile, e anche oltre». In Addendum on Aims, mai dato alle stampe, si espresse nei seguenti termini: «Sono un libertario estremo e credo nella libertà di parola assoluta. […] Sono contrario a imprigionare gli uomini per le loro opinioni o, in quanto a ciò, per qualsiasi altro motivo». E in una lettera a uno dei suoi biografi, Ernest Boyd, Mencken scrisse: «Per quanto mi riguarda, credo in una sola cosa: la libertà. Ma non credo abbastanza nella pari libertà da volerla imporre a chiunque. Insomma, non sono affatto un riformatore, per quanto possa sbraitare contro questo malessere o quella grande sciagura. Nel mio sbraitare c’è in genere molto più diletto che indignazione».

La Chrestomathy contiene alcune brillanti osservazioni su quella che Mencken definiva “l’intima natura” del governo: «Qualsiasi governo, nella sua essenza, è una cospirazione contro l’uomo superiore; il suo obiettivo costante è quello di opprimerlo e paralizzarlo. Se è un governo aristocratico, cerca di proteggere l’uomo che è superiore solo per la legge dall’uomo che è superiore nei fatti; se è un governo democratico, allora cerca di proteggere l’uomo che è inferiore sotto ogni aspetto da entrambi. Una delle sue funzioni primarie è quella di irreggimentare gli uomini con la forza, di renderli più simili e più reciprocamente dipendenti possibile, cercando di rintracciare e combattere qualsiasi elemento di originalità tra di essi. In un’idea originale vede solo un cambiamento potenziale, e quindi una violazione delle sue prerogative. L’uomo più pericoloso, per qualsiasi governo, è quello che è in grado di pensare con la propria testa, senza tener conto delle superstizioni e dei tabù dominanti. Quasi inevitabilmente, costui giunge alla conclusione che il governo sotto il quale vive è sleale, insensato e intollerabile e pertanto, se è un sognatore, cerca di cambiarlo. E anche se non è personalmente un sognatore, è proclive a diffondere il malcontento tra coloro che lo sono […]».

«L’uomo comune, nonostante i suoi errori, vede quantomeno con chiarezza che il governo è qualcosa che sta al di fuori di lui e della maggioranza dei suoi simili – un potere distinto, separato e spesso ostile, che solo in parte controlla e da cui può essere gravemente danneggiato. Nei momenti romantici, può considerarlo un padre benevolo o persino una sorta di jinn o di divinità, ma non lo sente mai come una parte di sé. Nei momenti difficili si rivolge a esso affinché compia miracoli a suo beneficio; altre volte lo vede come un nemico con cui deve lottare costantemente. Non è forse significativo che derubare il governo sia considerato ovunque meno grave che derubare un individuo? […]».

«Dietro tutto questo, credo, si nasconde la profonda consapevolezza del fondamentale antagonismo tra il governo e il popolo che esso guida. Il governo non è visto come un comitato di cittadini scelti per gestire gli affari comuni di tutta la popolazione, bensì come una corporazione distinta e autonoma, interessata soprattutto a sfruttare la popolazione a vantaggio dei propri membri. Rubare al governo è quindi un atto quasi privo di infamia [...]. Quando un privato cittadino viene derubato, un individuo meritevole viene privato dei frutti del suo lavoro e risparmio; quando il governo viene derubato, il peggio che possa accadere è che certi furfanti e perdigiorno abbiano meno soldi da maneggiare rispetto a prima. Il concetto che abbiano guadagnato quel denaro non viene mai preso in considerazione: ai più intelligenti apparirebbe grottesco. Essi sono semplici mascalzoni che, per circostanze di legge, hanno un diritto per certi versi dubbio a una quota dei guadagni dei loro simili. Quando quella quota viene diminuita dall’impresa privata, l’attività è, complessivamente, di gran lunga più meritevole».

«Questo clan è pressoché esente da punizioni. Le sue peggiori estorsioni, anche laddove siano compiute esplicitamente a vantaggio privato, non comportano pene certe secondo le nostre leggi. Da quando è nata la Repubblica, meno di una dozzina dei suoi membri sono stati messi in stato di accusa, e solo qualche oscuro sottoposto è stato condannato al carcere. Il numero di uomini rinchiusi ad Atlanta e Leavenworth per aver protestato contro le estorsioni del governo è sempre dieci volte maggiore del numero di funzionari governativi condannati per aver oppresso i contribuenti a loro profitto. […] Nel mondo non ci sono più cittadini, ma solo sudditi che lavorano ogni santo giorno per i padroni e sono destinati a morire per loro in servizio. […] In un futuro luminoso, tra un’era geologica o due, essi arriveranno al limite della sopportazione […]».

Mencken aveva scarsa fiducia nella capacità delle rivoluzioni di attuare un sovvertimento nell’interesse della libertà: «Le rivoluzioni politiche realizzano raramente qualcosa di realmente valido; il loro effetto indiscusso è semplicemente quello di buttare fuori una banda di ladri e metterne dentro un’altra. Dopo una rivoluzione, naturalmente, i rivoluzionari vittoriosi cercano sempre di convincere gli scettici di aver compiuto grandi cose, e di solito impiccano chiunque lo neghi. Ma questo non conferma di certo la loro tesi». Questa combinazione di dottrina libertaria e scarsa fiducia nella possibilità di realizzarla fu sintetizzata da Mencken nei seguenti termini: «Il governo ideale di tutti gli uomini pensanti […] è quello che lascia in pace l’individuo, è un governo che quasi non è un governo. Questo ideale, credo, si realizzerà nel mondo venti o trenta secoli dopo che io sarò uscito di scena e avrò assunto le mie funzioni pubbliche all’Inferno».

Benessere pubblico e interessi privati

Mencken vedeva con chiarezza la fallacia insita nel credere che i funzionari governativi fossero motivati unicamente dal benessere pubblico: «Raramente, per non dire mai, costoro sono davvero animati da qualcosa di razionalmente descrivibile come spirito pubblico; in loro non vi è più spirito pubblico di quanto non ve ne sia in tanti ladri di appartamenti o passeggiatrici. Il primo, ultimo e costante obiettivo che si prefiggono è quello di promuovere il loro interesse privato e a questo fine – e a questo fine soltanto – esercitano i vasti poteri che detengono. […] Qualsiasi cosa cerchino – sicurezza, maggiore agiatezza, più denaro o più potere – deve provenire dal patrimonio comune, il che diminuisce la quota di tutti gli altri. Dare lavoro a un nuovo impiegato riduce il salario di ogni salariato del paese. […] Dare più potere a un impiegato toglie qualcosa alla libertà di tutti noi […]».

Mencken continua a commentare la natura del governo cercando di porre un freno alle sue intrusioni: «Provoca forse un riso amaro il fatto che il Bill of Rights sia stato fiduciosamente ideato per proibire per sempre due dei reati preferiti da tutti i governi noti: la confisca della proprietà privata senza adeguato compenso e l’invasione della libertà dei cittadini senza giusta causa. […] Provoca un riso ancor più amaro il fatto che l’attuazione di queste proibizioni sia stata messa in mano ai tribunali, ovvero in mano agli avvocati, ovvero in mano a uomini istruiti appositamente per individuare le giustificazioni legali ad atti antisociali, disonorevoli e disonesti».

Una delle principali forze che impedisce di tenere sotto controllo la tirannide governativa – sottolinea Mencken – è la credulità delle masse: «Lo Stato non è solo forza. Esso dipende tanto dalla credulità dell’uomo quanto dalla sua docilità. Il suo scopo non è semplicemente quello di farlo obbedire, ma anche quello di farlo obbedire volentieri». Qualche volta il governo è utile? Ecco la risposta di Mencken: «Quanto lo è un dottore. Ma cosa accadrebbe se il caro collega rivendicasse il diritto, ogni volta che fosse chiamato a curare un mal di pancia o un fischio nelle orecchie, di razziare l’argento di famiglia, utilizzare gli spazzolini da denti dei suoi membri e applicare il droit de seigneur sulla cameriera?».

Né, del resto, Mencken preferiva alla burocrazia civile la casta dei militari: «La casta dei militari non ebbe origine da un gruppo di patrioti, bensì da un manipolo di banditi. I primi capi dei banditi finirono col diventare re. Il militare di professione ha mantenuto in parte il carattere del bandito. Egli può battersi in maniera coraggiosa e altruista, ma lo fanno anche i galli da combattimento. Può non essere in cerca di ricompense materiali, ma lo stesso vale per i cani da caccia. Il suo atteggiamento mentale è sciocco e antisociale. Fu un sano istinto dei padri fondatori quello di subordinare i militari all’autorità civile. A onor del vero, l’autorità civile si compone in larga parte di mascalzoni politici, ma almeno loro si distinguono dai militari per l’atteggiamento e gli obiettivi».

Nessuno era in grado di rivaleggiare con Mencken in quelli che lui definiva “voli utopistici” – esilaranti e imponenti progetti per la riforma libertaria del governo o della società in genere. Così, in un articolo scritto nel 1924, ovvero prima – precisava – «che il New Deal affliggesse il paese con una quantità di nuovi norme amministrative e impiegati supertirannici», Mencken proponeva una penetrante riforma del nostro sistema di diritto amministrativo. Lo scrittore esordisce dicendo che «nelle immorali monarchie del continente europeo, ora fortunatamente abolite per volontà di Dio, c’era, nei giorni del peccato, un modo intelligente ed efficace di trattare i funzionari delinquenti». Essi erano sottoposti, continua, non solo al codice penale ordinario, ma anche a organi giudiziari speciali per «reati […] peculiari ai loro uffici». La Prussia, ad esempio, aveva un tribunale in cui qualsiasi cittadino era libero di denunciare un funzionario. C’erano diversi modi per punire un funzionario colpevole: si poteva costringerlo a risarcire un cittadino perseguitato ingiustamente, rimuoverlo dalla carica e/o mandarlo in prigione. «Se in quella remota epoca di dispotismo un giudice prussiano, sopraffatto da un attacco di passione kaiserliche, avesse compiuto uno qualsiasi degli atti autoritari e irrazionali che i nostri giudici, federali e statali, compiono quasi ogni giorno, un cittadino leso avrebbe potuto convocarlo davanti al tribunale amministrativo e ottenere da lui ingenti risarcimenti […]». La legge, inoltre, «stabiliva esplicitamente che i funzionari responsabili dovessero essere puniti non con più clemenza, bensì con più severità dei trasgressori ordinari o subordinati. Se un poliziotto corrotto prendeva sei mesi, un capo di polizia corrotto veniva condannato a due anni. Per di più, questi statuti venivano applicati con brutalità prussiana; e le prigioni erano costantemente piene di funzionari erranti».

Mencken aggiunge di non voler – «ovviamente» – applicare il sistema prussiano agli Stati Uniti: «In effetti, il sistema prussiano si sarebbe probabilmente rivelato inefficace nella Repubblica, se non altro perché comportava la creazione di una banda di impiegati preposta a giudicarne e punirne un’altra. La cosa funzionò alla perfezione in Prussia prima che il paese fosse civilizzato dalla forza delle armi, dato che, come tutti sanno, i funzionari prussiani erano educati nella ferocia fin dall’infanzia e ritenevano ogni persona incriminata, che si trattasse di un collega o meno, colpevole ipso facto; essi rifiutavano il pensiero della possibile innocenza di un prigioniero in quanto si ripercuoteva negativamente sulla Polizei e, per deduzione, sul Trono, sull’idea di monarchia e su Dio. In America, invece […], il giudice e il detenuto sarebbero spesso colleghi democratici o repubblicani, e quindi entrambi interessati a proteggere il loro partito dallo scandalo e i suoi membri dalla perdita del posto di lavoro».

«Quel che serve», concludeva lo scrittore, «è un sistema che a) non affidi il suo funzionamento alla buona volontà degli impiegati e b) che assegni punizioni rapide, certe ed efficaci, nonché perfettamente commisurate al reato». La ricetta proposta da Mencken prevede che «ogni [cittadino] […] che esaminando gli atti di un impiegato l’abbia trovato colpevole, possa punirlo istantaneamente e sul posto, in qualsiasi maniera gli sembri appropriata e conveniente; e che, nel caso in cui la punizione implichi lesioni fisiche all’impiegato, la conseguente inchiesta del gran jury o del coroner debba limitarsi strettamente a stabilire se l’impiegato meritasse ciò che ha ricevuto. In altre parole, propongo che non vi sia malum in se se un cittadino prende a pugni, a calci o a mazzate, frusta, taglia, ferisce, pesta, storpia, brucia, bastona sulla pianta dei piedi, scuoia o persino lincia un impiegato, e che vi sia malum prohibitum solo nella misura in cui la punizione supera ciò che l’impiegato meritava. L’entità di tale eccesso, qualora vi fosse, potrà essere determinata in maniera idonea, come ora avviene per altri reati, da un petit jury. […] Se quest’ultimo decide che l’impiegato merita la punizione inflittagli, il cittadino che l’ha applicata è assolto con onore; se invece stabilisce che la punizione era eccessiva, il cittadino sarà giudicato colpevole di aggressione, grave mutilazione, omicidio o altro, in proporzione alla differenza tra ciò che l’impiegato meritava e ciò che ha avuto, e la punizione per quell’eccesso seguirà il normale corso […]».

«I vantaggi di questo sistema, credo, sono troppo evidenti per essere oggetto di discussione. In un colpo solo, esso rimuove tutti gli impedimenti legali che ora rendono la punizione di un impiegato sleale un processo impossibile. […] Mettiamo che oggi un cittadino giunga alla conclusione che un certo giudice è un asino, la sua preparazione giuridica carente, il suo senso della giustizia atrofizzato e la conduzione dei suoi casi tirannica e contro ogni decenza. Per come stanno attualmente le cose, non c’è niente che si possa fare. […] Né servirebbe a nulla denunciarlo pubblicamente e sollecitare tutti i cittadini a votare contro di lui quando si presentasse per essere rieletto perché il suo mandato potrebbe durare ancora dieci o quindici anni, e se pure scadesse domani e lui venisse sconfitto, vi sarebbero buone probabilità che il suo successore sia altrettanto pessimo se non addirittura peggiore».

«Immaginiamo invece che qualsiasi cittadino sia libero di avvicinarlo in pubblica udienza e tirargli il naso. O anche, nei casi più gravi, di tagliargli le orecchie, buttarlo fuori dalla finestra o dargli un’accettata in testa. Quanto sarebbe più immensamente scrupoloso nei suoi compiti! Con quanta diligenza si applicherebbe allo studio del diritto! Quanto sarebbe attento ai diritti dei contendenti che ha di fronte!»11.
Mai la preoccupazione di Mencken per la difficile situazione dell’America e per la virtuale immunità concessa ai suoi despoti, venne espressa con l’umorismo e l’amara ironia presente nell’articolo “The Nature of Liberty”, scritto nei primi anni Venti ma tutt’altro che datato. Il tema è quello della polizia contro il singolo cittadino. Mencken esordisce ironicamente: «Ogni volta che un dipendente del corpo di polizia, nell’adempimento dei suoi giusti e grandiosi poteri sotto la legge americana, produce in un cittadino in sua custodia una frattura composta della nuca, con conseguente emorragia, shock, coma e morte, giunge una flebile protesta in falsetto da parte di specialisti della libertà umana». «È forse privo di significato», continua Mencken, «che questa protesta non sia mai supportata dalla grande massa degli uomini liberi americani, lasciando da parte gli eredi e i creditori della vittima? Credo di no». Perché la gente normale sa che i poliziotti sono dotati di manganelli «per rompere il cranio ai recalcitranti, democratici e repubblicani».

Lo sviluppo della società capitalista

Risulta quindi evidente, continua a ironizzare Mencken, che questa minoranza di intellettuali preoccupati delle libertà civili e dei diritti individuali ai danni della polizia, è composta di sovversivi e antiamericani: «Gli specialisti sopraccitati sono gli stessi fanatici che riempiono l’aria di singhiozzi ogni volta che il ministro delle Poste americano vieta la corrispondenza di un periodico perché non gli piacciono le sue idee, che un povero russo viene deportato per aver letto Karl Marx, che un funzionario preposto a far applicare la legge sul proibizionismo uccide un contrabbandiere che rifiuta di pagargli la mazzetta, che gli agenti del ministero della Giustizia gettano un italiano fuori della finestra, o che il Ku Klux Klan o la Legione americana cospargono di catrame e poi ricoprono di piume un predicatore evangelico socialista. Insomma, sono radicali, e se uno scortica una persona con un forcone per loro è un bolscevico. Quegli uomini disprezzano le istituzioni americane e sono nemici dell’idealismo a stelle e strisce […]».

«Ciò che più li tormenta è […] che […] conoscendo a fondo […] i principi teorici espressi nel Bill of Rights, essi sono fermamente convinti che quei principi siano identici alle norme del diritto e della giustizia e debbano essere applicati alla lettera, senza il minimo riguardo per le circostante e l’opportunità».

Essi non capivano, aggiunge Mencken, che il Bill of Rights originariamente «adottato dai padri della Repubblica […] era semplice, rozzo, idealistico, vagamente fantasioso e metafisico. Specificava i diritti di un cittadino, ma non diceva nulla sui suoi doveri. Da allora, gli ordinati processi della scienza legislativa e gli strumenti ancor più incredibili e raffinati dell’arte giuridica lo hanno modificato, facendolo diventare molto più flessibile e sensato. Da un lato, il cittadino conserva il grande privilegio di essere membro della più splendida nazione libera che sia mai esistita sulla Terra. Dall’altro, le sue brame e appetiti naturali sono tenuti mirabilmente sotto controllo da leggi avvedute e decisioni sagaci, che lo fanno vivere nell’ordine e nel decoro. […] Una volta poliziotto, è protetto dalle armi legislative e giudiziarie relative alle prerogative peculiari che si accompagnano alla sua alta carica, tra cui in particolare il diritto di sbattere in galera i laici a suo piacimento, di sfruttarli e aggredirli, di sottoporli al terzo grado, e di vincere la loro resistenza dandogli una sonora lezione. Chiunque sia all’oscuro di ciò ignora i principi basilari della giurisprudenza americana, esposti innumerevoli volte dai tribunali di prima istanza e ratificati in termini elevati dalla Suprema Corte degli Stati Uniti».

I devoti servigi resi da Mencken alle libertà civili e il suo opporsi alla censura in qualità di redattore dell’American Mercury sono troppo noti per tornare a parlarne in questa sede. Meno conosciuta è invece la sua penetrante analisi del mito di Justice Holmes come grande libertario civile nelle sue opinioni discordanti. «È impossibile immaginare che […] [le sue idee] possano promuovere la libertà», osservava acutamente Mencken. Considerarlo un sostenitore dei diritti dell’uomo era fuorviante: al contrario, «egli non era che un difensore dei legislatori. Qui sta in effetti la chiave di tutta la sua giurisprudenza. [Secondo Holmes], gli organismi legislativi dovevano essere liberi di sperimentare quasi ad libitum, i tribunali non dovevano interromperli finché non avessero superato gli estremi limiti della ragione, e tutto doveva essere sacrificato alla loro autonomia, compreso, a quanto pare, il Bill of Rights. Se questo è il liberalismo, posso dire soltanto che è cambiato rispetto a quando ero giovane».

Mencken non aveva un particolare interesse per i temi economici, ma vedeva con chiarezza che il capitalismo, conseguenza della libertà individuale nella sfera economica, costituiva il sistema economico più razionale e produttivo. Egli osteggiava accanitamente il New Deal in quanto anticapitalista e antilibertario. Del capitalismo, Mencken scrisse: «Gli dobbiamo quasi tutto ciò che oggi va generalmente sotto il nome di civiltà. Lo straordinario progresso che il mondo ha conosciuto dopo il Medioevo non è dovuto al mero dispendio di energie umane e neppure alla capacità di volare propria del genio umano, giacché gli uomini hanno lavorato duro sin dai tempi più remoti e alcuni di loro erano dotati di una intelligenza superiore. No, esso è dovuto all’accumulo di capitale. Quell’accumulo […] ha fornito le macchine che gradualmente hanno diminuito il lavoro ingrato e liberato lo spirito del lavoratore, in precedenza quasi indistinguibile da un mulo».

L’inefficienza della burocrazia

Il suo vecchio amico, Hamilton Owens, descrive la rabbia violenta provata da Mencken quando Roosevelt tolse l’America dal sistema monetario aureo. «Continuava a ripetere con tutta la veemenza di cui era capace che si trattava di una rapina bella e buona. Diceva di voler denunciare personalmente la cosa». In un carteggio con il famoso socialista Upton Sinclair, che evidentemente gli aveva riproposto i soliti luoghi comuni sulla presunta inefficienza degli uffici postali, dei vigili del fuoco, della sanità pubblica, eccetera, Mencken, anziché mettere le mani avanti e mediare, come fa la maggior parte dei conservatori quando si trova di fronte a simili sfide, ribatté: «Non mi è difficile rispondere alle sue domande. Il governo è restio a consegnarle la mia rivista. Ha cercato di mandare all’aria la mia attività [The American Mercury] e non ci è riuscito solo per un pelo. Fa pagare eccessivamente cari i vaglia postali e ne perde troppi. Una società di cinesi beoti saprebbe fare meglio. I suoi dispositivi per spegnere gli incendi sono intollerabilmente costosi e inefficienti. A dire il vero, non accade spesso che riesca a spegnerli: si estinguono da soli. […] L’esercito non aveva nulla a che vedere con la scoperta della causa della febbre gialla. I suoi burocrati perseguitavano le persone che svolgevano il lavoro. Avrebbero potuto farlo molto più rapidamente se non fossero stati nell’esercito. Ci sono voluti anni di impegno per indurre il governo a combattere le zanzare, e oggi lo fa in maniera pessima».

E, in una significativa ma dimenticata recensione di The Confession of a Capitalist, scritto dall’individualista Sir Ernest Benn, Mencken affermò che l’autore «dedica gran parte del libro a dimostrare ciò che la maggior parte degli americani considera assiomatico: ovvero che il sistema capitalista, nonostante i suoi difetti, funziona meglio di qualsiasi altro sistema finora ideato dall’uomo. Nello spazio che gli resta mostra come il governo sia inevitabilmente sprecone e dissipatore, e come nulla di ciò che fa venga mai realizzato con l’efficienza e l’oculatezza che utilizzerebbe un’impresa privata. Non vedo nulla da obiettare in questo».

E subito dopo aggiunge: «Anche le funzioni di governo preferite – come riscuotere tasse o eseguire impiccagioni – sarebbero svolte in modo più efficiente se fossero affidate alla Ford». Il grande individualista Albert Jay Nock ha scritto che, nonostante l’avessero generalmente considerato un “radicale” acceso negli anni Venti e un accanito “reazionario” negli anni Trenta, la sua filosofia politica era rimasta, nel corso di questi decenni, praticamente immutata. Lo stesso può dirsi dell’amico Mencken, che a sua volta restò sempre un individualista e un libertario. Negli anni Venti, Mencken si scagliò contro le tariffe doganali e gli altri privilegi speciali accordati ai gruppi economici favoriti, criticò le leggi e gli editti contro la libertà di parola e altre libertà personali, ma si accanì soprattutto contro la mostruosa tirannide del proibizionismo. Negli anni Trenta, diresse i suoi attacchi più feroci contro la più grave minaccia alla libertà dell’epoca: il New Deal. Nel credere che fosse passato da sinistra a destra, gli ex menckeniani degli anni Venti e i nuovi conservatori degli anni Trenta mostravano di non capire Mencken né i principi di libertà. Il suo presunto anticapitalismo era in realtà un’avversione estetica e culturale per la maggior parte degli imprenditori economici (i “Babbitts”) in quanto individui – avversione che essi avevano per la gente comune – “gli uomini-massa” – impegnata in altre occupazioni. L’antipatia di Mencken per i gusti culturali di singoli capitalisti non va tuttavia confusa – ed egli non incorse mai in questo errore – con l’opposizione al capitalismo in quanto tale».

Ripercorrendo, già nel 1934, quelle due fasi storiche, Mencken scriveva a un amico: «Se credessi realmente di aver lasciato una traccia sulla mia epoca, mi getterei nell’oceano più vicino. Non lo dico tanto per dire. Mi baso sul fatto che gli americani mi sembrano più pazzi oggi di quando iniziai a scrivere. Neanche i peggiori rotariani idearono mai nulla di così insensato come alcune invenzioni del Brain Trust. Erano dei pazzi innocui, alla ricerca di un surrogato del cristianesimo che gli stava sfuggendo di mano. Ma i Brain Trusters, quantomeno in larga parte, sono dei pazzi esaltati, e ci porteranno alla rovina se non verranno soppressi al più presto».

La coerenza delle opinioni è, in effetti, uno degli aspetti più notevoli di Mencken. Come scrisse scherzosamente a un amico quando aveva sessant’anni: «Su tutti gli argomenti possibili, dall’aviazione all’uso dello xilofono, ho idee fisse e invariabili. Non cambiano da quando avevo quattro o cinque anni». Nell’affascinante, maturo, intenso e brillante libro dedicato alla sua infanzia, Happy Days, Mencken ricorda di aver acquisito le sue opinioni “reazionarie” sulle ginocchia del padre: «Il suo sistema morale, per come posso ricostruirlo dopo tanti anni, doveva essere stato prevalentemente cinese. L’umanità, dal suo punto di vista, si divideva in due grandi razze: quelli che pagavano i conti e quelli che non lo facevano. I primi erano virtuosi, nonostante tutte le prove del contrario, mentre i secondi erano inguaribili mascalzoni».

«Di tutti gli altri atti illeciti e infrazioni, aveva una visione molto tollerante. Credeva che in democrazia la corruzione politica fosse inevitabile, e sosteneva persino, sulla base della propria esperienza, che avesse i suoi vantaggi. Uno dei suoi aneddoti preferiti raccontava di una grande insegna oscillante appesa fuori del suo ufficio, in Paca Street. Nel 1885, quando l’edificio venne costruito, egli attaccò l’insegna, chiamò il consigliere distrettuale e gli diede venti dollari, a saldo completo di qualsiasi pagamento di permessi e privilegi, diritti di servitù e altri costi e canoni del genere. In cambio del denaro intascato, il consigliere avrebbe dovuto allontanare qualsiasi poliziotto, ispettore edile o funzionario che avesse un interesse legittimo nella questione o cercasse di intromettersi per trarne un utile personale. Essendo – secondo i suoi principi – un uomo d’onore, egli mantenne il patto, e l’insegna sbatacchiò e scricchiolò nel vento per dieci anni. Ma poi, nel 1895, Baltimora fu scossa da un’ondata di riforme, il consigliere non fu rieletto e gli idealisti del comune comunicarono che mantenere l’insegna sarebbe costato 62,75 dollari l’anno: essa venne tolta il giorno successivo».

«Per mio padre, era la prova che le riforme sono essenzialmente una cospirazione messa in atto da ciarlatani per estorcere denaro ai contribuenti. Ho assorbito da lui questa idea e la ritengo tuttora valida. Ho anche adottato la sua teoria secondo cui è meglio non investigare troppo sulla condotta privata - tranne, ovviamente, quando si prenda a bastonate un creditore».

Individualismo e dittatura democratica

La solidità dell’individualismo di Henry Louis Mencken si misura anche dalle numerose citazioni di libertari e oscuri anarchici presenti nel suo New Dictionary of Quotations. Nella sezione sullo Stato, la maggior parte delle citazioni è contro quest’ultimo, mentre le restanti sono così esageratamente a favore – ad esempio: «Il partito nazionalsocialista è lo Stato - Adolf Hitler» – da creare un effetto di forte ironia. Le citazioni contro lo Stato, poi, sono tratte in larga parte da fonti individualiste o anarchiche: Emerson, Max Stirner, Thoreau, Bakunin, William Graham Sumner, Kropotkin, Tolstoj e Benjamin R. Tucker. Se Mencken non avesse avuto grande simpatia per questi autori, non avrebbe potuto conoscerne così a fondo gli scritti né colmare le sezioni di loro citazioni. Il capitolo sulla libertà di parola è, a sua volta, denso di frasi in favore di quest’ultima, tratte non solo da Macaulay, Jefferson, James Mill e vari giudici, ma anche dall’individualista inglese quasi anarchico Auberon Herbert». Il ben noto disprezzo di Mencken per la democrazia derivava in larga parte dal suo fondamentale attaccamento alla libertà individuale e dalla convinzione che la maggior parte delle persone – la maggioranza democratica – è generalmente incline a sopprimere la libertà dell’individuo anziché a difenderla. Mencken sintetizzò la sua opinione sulla natura della democrazia, l’uomo comune e lo Stato nella seguente definizione: «La democrazia è l’adorazione degli sciacalli da parte dei somari».

Altre definizioni menckeniane: «La democrazia è la teoria secondo cui la gente comune sa cosa vuole e merita di ottenerlo fino in fondo». «Se x è la popolazione degli Stati Uniti e y il grado di imbecillità dell’americano medio, la democrazia è la teoria secondo cui x moltiplicato per y fa meno di y». Tutti gli assiomi sulla democrazia «si riducono a colossali paradossi, molti dei quali equivalenti a vere e proprie contraddizioni in termini. La plebe è capace di governare tutti noi, ma deve essere a sua volta rigorosamente controllata. Esiste un governo, non di uomini, ma di leggi – ma sono gli uomini a sedere in Parlamento per decidere cos’è e cosa può essere la legge». Sull’innata tendenza della democrazia a sopprimere la libertà, Mencken scrisse in una lettera privata: «È vano appellarsi a un intrinseco amore per la libertà di parola. Il popolo non conosce una simile passione. Solo l’aristocrazia è sempre tollerante. Le masse sono invariabilmente arroganti, sospettose, inferocite e tiranniche. La principale obiezione alla democrazia è che in effetti ostacola il progresso penalizzando l’innovazione e l’anticonformismo».

L’ateismo di Mencken è altrettanto noto, ma la sua ferocia era riservata a quei gruppi religiosi che persistevano nell’imporre i propri codici morali al resto della popolazione. Il proibizionismo ne era, all’epoca, l’esempio più lampante, e per questo Mencken si scagliava essenzialmente contro metodisti e battisti. Non aveva invece particolare antipatia per i cattolici romani (soprattutto le sezioni non irlandesi): «I cattolici non sono proibizionisti e hanno più umorismo dei metodisti», avrebbe affermato una volta Mencken, che a quanto pare era in rapporti amichevoli con diversi membri del clero cattolico.

Il nesso, nel pensiero di Mencken, tra costrizione religiosa della morale, democrazia, uomo comune e tirannide sull’individuo, emerge chiaramente in uno dei suoi articoli più spassosi, in cui attacca ferocemente il contadino americano: «Gli stessi ciarlatani che arrivano a Washington promettendo di aumentare i suoi [del contadino] guadagni e compensare le sue perdite, dedicano tutto il resto del tempo a far gravare su noialtri leggi oppressive e idiote, tutte pensate per le aziende agricole. Là dove le mucche muggiscono tutta la notte, il boccale di Peruna è nascosto dietro la stufa e si comincia a fare il bagno, come a Biarritz, con l’equinozio di inverno, si trova il serbatoio di tutte le leggi insensate che rendono l’America un pagliaccio tra le grandi nazioni. Sono stati i metodisti di campagna, praticanti di una teologia degradata quasi al livello di vuduismo, a inventare il proibizionismo e […] a imporlo a noialtri, a danno dei nostri conti in banca, della nostra dignità e delle nostre viscere. Quella, e tutte le altre folli disposizioni del genere, celavano né più né meno che l’odio congenito e incurabile del bifolco per il cittadino – la sua rabbia scimmiesca contro chiunque, ai suoi occhi, si diverta più di lui».

La convinzione di Mencken sull’avversione dell’uomo comune per la libertà emerge anche nel suo modo di considerare la seguente, sconcertante questione: come ha fatto la stragrande maggioranza dei coscritti ad adattarsi così prontamente alla schiavitù della vita militare? «Tranne una esigua minoranza, provenivano tutti da ambienti molto meno accoglienti di un campo militare. […] D’un colpo venivano liberati dall’ossessionante timore della sussistenza, sciagura di tutti i giovani poveri e ignoranti, nonché da qualsiasi bisogno di sperimentare e prendere decisioni. Erano nutriti e vestiti a spese dello Stato […] e si potevano dedicare a sport e altri divertimenti che nei loro luoghi di origine gli erano preclusi. La loro vita, insomma, non era molto diversa da quella dei detenuti di una prigione modello, ma con […] la speranza costante di un rilascio imminente – non come “sorvegliati speciali”, ma come eroi. […] Non solo qualcun altro diceva loro cosa indossare, dove dormire, quando alzarsi e quando andare a letto, cosa mangiare e quando; ma tutte queste comodità gli venivano fornite in quantità e senza nessuna spesa. Insomma, erano sgravati di colpo da qualsiasi responsabilità».

«Il soldato medio trovava nell’esercito […] la possibilità di condurre una vita notevolmente più libera, con molti dei privilegi di un libertino matricolato. […] Compiere un piccolo furto era uno dei vantaggi di un salvatore dell’umanità; essere rozzo e brutale, un segno del suo spirito combattivo. Egli poteva inoltre aspettarsi onore e rispetto per il resto della vita, con una lunga lista di privilegi speciali. In ogni comunità americana, per quanto piccola, ci sono notabili locali la cui importanza dipende unicamente dall’aver partecipato a qualche guerra. […] La loro intelligenza è dimostrata dal tipo di idee che sostengono. Essi sono essenzialmente acerrimi nemici della libertà dell’individuo e su di loro grava la responsabilità di alcune delle peggiori forme di corruzione della politica. Il più avido di tutti i politici è il veterano di guerra».

Mencken era in effetti un arci-“isolazionista”, strenuamente contrario all’ingresso degli Stati Uniti sia nella prima che nella seconda guerra mondiale. Più volte dichiarò la sua opposizione all’intervento americano nei due conflitti, precisando tuttavia che se l’America doveva proprio schierarsi, avrebbe dovuto farlo con la parte opposta. Nell’aprile 1942, scrisse scherzosamente a un amico: «L’estate che viene promette di offrire ai cristiani il migliore spettacolo mai visto sulla Terra dopo le crociate. Aspetto con ansia quel momento. Spero solo che se i giapponesi conquistano la California non ti facciano del male». E al vecchio amico Harry Elmer Barnes, Mencken scrisse nel settembre 1943: «Sono fatto così: o dico tutto o sto zitto. In questa guerra, come nell’ultima, mi sembra più razionale tenere per me ciò che ho da dire finché non sarà possibile dirlo liberamente».

«È meglio essere liberi che schiavi»

La reazione di Mencken al lancio della bomba atomica fu comprensibilmente dura. Due anni dopo l’evento, scrisse a Julian Boyd:
«La bomba atomica – l’ho predicato a lungo – è la più grande invenzione che Geova abbia realizzato dopo la lebbra. Essa ha senz’altro conferito grande gloria ai fisici cristiani di questo paese. Immaginate se a lanciarla su una città piena di donne e bambini fosse stato un onesto cannibale».

Mencken era particolarmente preoccupato dalla quasi assoluta soppressione delle libertà civili che la partecipazione alla guerra inevitabilmente comporta, e vedeva nella conduzione del primo conflitto mondiale la perfetta concretizzazione della sua visione cinica della democrazia, dello Stato, dell’intervento straniero e dell’uomo della strada. In una delle sue più divertenti “pagliacciate”, proponeva di decorare generosamente gli eroi del “fronte domestico” della prima guerra mondiale: «Propongo una variante della medaglia per servizio meritevole ai civili […] che distingua i vari favori resi alla democrazia […] per il rettore che ha proibito l’insegnamento della lingua del nemico nella sua dotta accademia, ha lanciato le opere di Goethe fuori della biblioteca universitaria, ha radiato tutti i professori che non volevano sostenere Woodrow per il primo posto vacante nella Trinità, ha parlato alla National Security League e tenuto duecento discorsi nei cinema. Per questo colosso della lealtà, qualsiasi americano puro non può volere meno della Gran Croce dell’Ordine, un trofeo d’oro in vetro colorato, una bandoliera con i colori nazionali, un cappello a cilindro viola con una spilla di lato, il diritto di parola al Congresso e una pensione di 10.000 dollari l’anno […]». «Palmer e Burleson se ne vanno per una legge speciale. Se i semplici rettori, come Nicholas Murray Butler, sono degni della Gran Croce, allora Palmer merita di essere rotolato nell’oro dalla testa ai piedi e levigato fino ad abbagliare l’universo […]».

Non vi è abbastanza spazio per discutere altri rilevanti contributi di Mencken – la sua analisi di Veblen, Wilson e Theodore Roosevelt, i suoi libri (i primi che siano mai stati scritti) su Nietzche o George Bernard Show, ecc. È sufficiente dire che l’America ha un disperato bisogno di un altro Mencken e che l’allettante saggio di menckeniate proposte dovrebbe stimolare il lettore a immergersi nella densa e copiosa produzione di questo autore. In conclusione, riportiamo il nobile e commovente Credo che egli scrisse per la rubrica “What I Believe” di una prestigiosa rivista: «Credo che la scoperta di un fatto, per quanto insignificante, non possa mai essere interamente inutile per la razza e che nessuna falsità sbandierata, per quanto virtuosa negli intenti, possa essere altro che cattiva». «Credo che qualsiasi governo sia dannoso in quanto deve necessariamente fare la guerra alla libertà, e che la democrazia sia negativa quanto qualsiasi altra forma di governo […]». «Credo nella completa libertà di pensiero e di parola, per il più debole e il più potente degli uomini, e nella totale libertà di condotta, purché compatibile con la vita in una società organizzata».
«Credo nella capacità dell’uomo di conquistare il suo mondo e di scoprire di cosa è fatto e come è governato. Credo nella realtà del progresso». «Ma dopotutto l’intera faccenda potrebbe essere espressa in parole molto semplici. Credo sia meglio dire la verità che mentire. Credo sia meglio essere liberi che schiavi. E credo sia meglio sapere che ignorare».

18 agosto 2004

Questo articolo è apparso per la prima volta su New Individualist Review, vol. 2, estate 1962, pp. 15-27.

Traduzione dall’inglese di Marcella Mancini
 

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