L'allegro libertario
di Murray N. Rothbard
da Ideazione, maggio-giugno 2004
È tipico della Kultur americana non essere riuscita a capire H. L.
Mencken. E fu tipico di H. L. Mencken non preoccuparsene affatto, al
contrario, poiché ciò non faceva che confermare il suo giudizio sui
propri connazionali. Gli americani fanno fatica a concepire una fusione
di vivacità di spirito e attaccamento ai principi: o sei un umorista che
in maniera pungente o garbata mette in ridicolo le debolezze di
un’epoca, o sei un pensatore serio e austero. Pochi arrivano a
comprendere che un uomo di grande spirito possa essere, per certi versi,
ancor più attaccato alle idee e ai principi positivi; quasi sempre, lo
si etichetta semplicemente come cinico e nichilista. Questo fu, ed è
tuttora, il destino di H. L. Menchen, che però non si sarebbe aspettato
niente di diverso.
Oggigiorno qualsiasi individualista e libertario ha davanti a sé un duro
compito. In un mondo segnato, se non dominato, dalla follia, l’inganno e
la tirannide, egli può scegliere, se è dotato di capacità riflessive,
fra tre possibili linee di azione: 1) può ritirarsi dal mondo sociale e
politico per dedicarsi alle sue occupazioni o, come fece il primo socio
di Mencken, George Jean Nathan, rifugiarsi in un mondo di contemplazione
puramente estetica; 2) può cercare di migliorare il mondo, o quantomeno
formulare e diffondere le sue opinioni avendo in mente quella suprema
speranza; oppure, 3) può decidere di stare nel mondo divertendosi
immensamente allo spettacolo della sua follia. Colui che intraprende la
terza strada deve avere una personalità particolare e un particolare
giudizio del mondo. Deve essere innanzitutto un individualista con una
serena e inesauribile fiducia in se stesso, un “anticonformista” estremo
che non si vergogni né tremi all’idea di andare contro il giudizio del
branco. In secondo luogo, deve essere un amante della vita e dello
spettacolo che essa offre, un individualista con un grande attaccamento
per la libertà e l’eccellenza individuale che tuttavia può – in virtù
del medesimo attaccamento alla verità e alla libertà – apprezzare e
satireggiare una società che ha voltato le spalle a quanto di meglio
possa raggiungere. Deve essere, infine, profondamente pessimista sulla
possibilità di cambiare e riformare le idee e le azioni della grande
maggioranza dei suoi simili; deve credere che il boobus Americanus sia
destinato a restare boobus Americanus per sempre. Sommiamo insieme
queste caratteristiche, e non siamo molto lontani dallo spiegare la
strada intrapresa da Henry Louis Mencken.
Mencken aveva, ovviamente, anche altre qualità: un gusto sconfinato, un
umorismo brillante, una conoscenza dotta e sensibile di molti campi del
sapere, un entusiasmo per gli eventi salienti del mondo di ogni giorno
che faceva di lui un giornalista nato. Nonostante questa sua passione
onnivora per le discipline intellettuali, non era tagliato per elaborare
rigorosi sistemi di pensiero – ma in fin dei conti, quanti lo sono?
Individualista sereno e fiducioso, dedito alla competenza e
all’eccellenza e profondamente attaccato alla libertà – pur essendo
convinto che la maggior parte dei suoi simili fosse ridotta male – Henry
Louis Mencken si ritagliò un ruolo unico nella storia americana:
lanciandosi allegramente nella mischia, stroncava la falsità e
l’ottusità da cui si vedeva circondato, scoppiava i palloni della
pomposità, puliva le stalle di Augia dall’ipocrisia, l’assurdità e i
cliché, «gettava», come egli stesso affermò una volta, «il gatto morto
nel tempio» per mostrare agli sconcertati veneratori del vacuo che non
sarebbe morto fulminato. E nell’assolvere a questo compito, raramente
intrapreso in qualsivoglia epoca – e svolto esclusivamente per il suo
divertimento – egli esercitò un’immensa forza liberatoria sulle menti
più brillanti di un’intera generazione.
Una delle cose che più piacevano a Mencken e alle quali riusciva a non
mancare quasi mai, erano le assemblee presidenziali. Qui, in maniche di
camicia, tracannando birra, si tuffava tra la folla rauca e brulicante,
nell’allegria, la vacuità e l’eccitazione del grande processo politico
americano, prendendo parte al divertimento pur vedendone tutta
l’assurdità. Dopodiché scriveva ciò a cui aveva assistito, stroncando la
falsità, l’ipocrisia e la totale insensatezza dei governanti in azione.
Chiunque si immergesse realmente in Mencken non poteva più essere lo
stesso; non poteva conservare la fiducia negli “statisti” o nel processo
politico democratico; non poteva più credere ciecamente a ogni sorta di
impostura politica, sociale o ideologica, e neppure tornare a ignorare
il nonsenso dilagante.
La minoranza della minoranza
La forza liberatoria di Mencken non si esercitava ovviamente sulla
massa, bensì sui rari e isolati individui intelligenti in grado di
apprezzare il suo messaggio ed esserne influenzati; insomma, come il suo
vecchio amico e collega libertario Albert Jay Nock, Mencken scriveva per
(e affrancava) la “minoranza” in grado di capire. Se lo stile esprime
l’uomo, l’impatto deflagrante della scrittura di Mencken non fu l’ultimo
degli atti liberatori da lui compiuti. Studioso della lingua inglese – o
meglio americana – aveva un amore per il linguaggio, la precisione e la
chiarezza della parola, e un attaccamento al proprio mestiere, di cui
pochi scrittori hanno dato prova. Il celebre critico e saggista Joseph
Wood Krutch non utilizzò un’iperbole quando definì Mencken «il più
grande prosatore del Ventesimo secolo»; anche questo aspetto, tuttavia,
è stato misconosciuto, essendo gli americani generalmente incapaci di
prendere sul serio uno scrittore brillante.
La tragedia – per noi, non per Mencken – è che neanche la “minoranza”
capiva; la maggior parte dei suoi presunti sostenitori cadeva nello
stesso errore che facevano tutti gli altri ritenendo che umorismo e
serietà di intenti non potessero andare di pari passo; abbagliati
dall’arguzia dello scrittore, essi non coglievano i valori positivi che
sarebbero dovuti emergere in maniera evidente dalla sua opera. E così
quelli che si unirono allegramente a Mencken nel mettere in ridicolo la
bigotteria, il proibizionismo e la “lega anti-saloon”, i puritani e la
moralizzazione degli anni Venti, lo abbandonarono in seguito per
appoggiare la rafforzata moralizzazione e i più esaltati puritani degli
anni Trenta. Quelli che avevano dileggiato i rimedi miracolosi della
politica degli anni Venti approvarono con prontezza e coraggio le ben
più perniciose ricette delle politiche del New Deal. Quegli stessi
menckeniani che avevano visto con chiarezza l’assurdità del
coinvolgimento americano nella prima guerra mondiale, senza alcuna
esitazione né traccia di umorismo battevano chiassosamente la grancassa
per l’ugualmente o ancor più insensato intervento nella seconda.
L’incapacità dimostrata dai sedicenti seguaci di Mencken di comprendere
il suo “messaggio” (concetto che egli avrebbe aborrito), lungi dal
rattristarlo, non fece che confermare il suo giudizio sulla diffusione
della “booboisie”, che, tuttavia, era una calamità per il paese.
Se Mencken non era un nichilista, quali erano allora i valori positivi
in cui credeva? Mencken aveva un’enorme dedizione per il suo mestiere di
redattore, giornalista e linguista, che si rifletteva a sua volta in un
profondo individualismo e nella conseguente passione per l’eccellenza
individuale e la libertà personale. Amava molto la musica. Nutriva un
interesse, forse eccessivo, per la scienza, il metodo scientifico e
l’ortodossia medica; l’interesse per la scienza aprì la strada a un tipo
di determinismo meccanicistico che contribuì senz’altro a forgiare il
suo pessimismo sulla possibilità di cambiare le idee e l’agire degli
uomini.
L’individualismo diffuso che caratterizzava la Weltanshauung di Mencken
conferiva una coerenza – misconosciuta – alle sue opinioni,
sistematizzando le sue scorrerie frammentarie e superficiali in numerosi
campi. Prendiamo ad esempio un ambito all’apparenza “non politico” come
quello della musica folk. Non è un caso che, nel nostro secolo, sia la
sinistra socialista che la destra nazionalista – entrambe nemiche
dell’individualismo – abbiano fatto di questo genere “popolare” una
sorta di feticcio. L’ineguagliabile recensione del libro Poetic Origins
and the Ballad, scritto da Louise Pound, offrì a Mencken l’occasione di
entrare nel vivo dell’argomento: «Il libro della dottoressa Pound
demolisce completamente la teoria su cui si basano i nove decimi delle
discussioni pedagogiche sulla ballata e le sue origini. Secondo tale
teoria, le ballate a noi tutti note […] sarebbero prodotte non già da
singoli autori, ma da orde di minnesinger riuniti insieme […] in
sintesi, i primi compositori di ballate si unirono dapprima in una goffa
danza, poi intonarono un motivetto e infine ci aggiunsero le parole. È
difficile immaginare qualcosa di più insensato, eppure intere torme di
professori considerano questa dottrina pressoché sacra e la inculcano
ogni anno nella testa di innumerevoli dottorandi. La dottoressa Pound
dimostra […] che le ballate non avevano affatto tale origine, ma erano
scritte, al contrario, da singoli poeti di talento […] e che la maggior
parte di esse non videro la luce in volgari banchetti organizzati nel
parco del paese, bensì in eventi alla moda e persino intellettuali come
le feste della birra tenute nei saloni dei castelli.
Il concetto secondo cui qualsiasi opera d’arte rispettabile può avere
un’origine collettiva è completamente insensato. La gente comune,
nell’insieme, non è capace di un impulso estetico coerente, come non lo
è di coraggio, onestà o onore. Le cattedrali medioevali non furono
progettate e costruite da intere comunità bensì da singoli individui; e
l’unico contributo fornito dalle comunità era il lavoro duro, eseguito
malvolentieri e in modo spesso scadente. Lo stesso vale per le canzoni
folk, il mito folk, le ballate folk. […] La canzone popolare tedesca […]
è stata generalmente ricondotta a un misterioso talento innato dei
contadini tedeschi, ma gli studi hanno rivelato che alcuni dei brani
considerati particolarmente rappresentativi dello spirito folk furono
scritti in realtà dal direttore musicale dell’Università di Tubingen, il
professor Friedrich Silcher […].
Lo stesso ragionamento si applica alle ballate inglesi. La dottoressa
Pound mostra come alcune tra le più famose, nelle loro forme originarie,
siano dense di frasi e concetti che ai contadini inglesi dell’epoca
elisabettiana sarebbero risultati incomprensibili quanto la teoria di
Ehrlich sull’immunità; sarebbe del tutto assurdo, insomma, immaginare
che a comporle sia stata una banda di zotici urlanti impegnati a
galoppare attorno al Maypole o solennemente riuniti in un Eisteddfod o
in una Allgemeinesagerfest. [La studiosa] spiega inoltre l’attuale
processo compositivo della ballata, ovvero come una canzone di Paul
Dresser o Stephen Foster sia presa a prestito dal popolo e poi
gradualmente svilita».
Il mito di Mencken come nichilista dissacratore ha pervaso la critica
letteraria; fu quindi con sorpresa e ammirazione che il celebre critico
Samuel Putnam lesse la grande raccolta di composizioni brevi, scelte e
curate dallo stesso Mencken, intitolata The Mencken Chrestomathy. In una
acuta recensione, Putnam scrisse che Mencken era evidentemente un
“anarchico tory”, definizione che riassume egregiamente la visione del
mondo da lui sostenuta per tutta la vita.
Mencken era spinto dalla passione per la libertà individuale. Una volta
dichiarò solennemente al suo buon amico Hamilton Owens: «Io credo in una
sola cosa: la libertà umana. L’uomo può sperare di conquistare una
parvenza di dignità solo se agli uomini superiori viene data la libertà
assoluta di pensare e dire ciò che vogliono. Sono contrario a qualsiasi
uomo e organizzazione cerchi di limitare o negare quella libertà […] [e]
l’uomo superiore può essere certo della libertà solo se essa viene
concessa a tutti gli uomini». In un’altra occasione, Mencken affermò di
credere nella libertà individuale assoluta «fino al limite
dell’insostenibile, e anche oltre». In Addendum on Aims, mai dato alle
stampe, si espresse nei seguenti termini: «Sono un libertario estremo e
credo nella libertà di parola assoluta. […] Sono contrario a
imprigionare gli uomini per le loro opinioni o, in quanto a ciò, per
qualsiasi altro motivo». E in una lettera a uno dei suoi biografi,
Ernest Boyd, Mencken scrisse: «Per quanto mi riguarda, credo in una sola
cosa: la libertà. Ma non credo abbastanza nella pari libertà da volerla
imporre a chiunque. Insomma, non sono affatto un riformatore, per quanto
possa sbraitare contro questo malessere o quella grande sciagura. Nel
mio sbraitare c’è in genere molto più diletto che indignazione».
La Chrestomathy contiene alcune brillanti osservazioni su quella che
Mencken definiva “l’intima natura” del governo: «Qualsiasi governo,
nella sua essenza, è una cospirazione contro l’uomo superiore; il suo
obiettivo costante è quello di opprimerlo e paralizzarlo. Se è un
governo aristocratico, cerca di proteggere l’uomo che è superiore solo
per la legge dall’uomo che è superiore nei fatti; se è un governo
democratico, allora cerca di proteggere l’uomo che è inferiore sotto
ogni aspetto da entrambi. Una delle sue funzioni primarie è quella di
irreggimentare gli uomini con la forza, di renderli più simili e più
reciprocamente dipendenti possibile, cercando di rintracciare e
combattere qualsiasi elemento di originalità tra di essi. In un’idea
originale vede solo un cambiamento potenziale, e quindi una violazione
delle sue prerogative. L’uomo più pericoloso, per qualsiasi governo, è
quello che è in grado di pensare con la propria testa, senza tener conto
delle superstizioni e dei tabù dominanti. Quasi inevitabilmente, costui
giunge alla conclusione che il governo sotto il quale vive è sleale,
insensato e intollerabile e pertanto, se è un sognatore, cerca di
cambiarlo. E anche se non è personalmente un sognatore, è proclive a
diffondere il malcontento tra coloro che lo sono […]».
«L’uomo comune, nonostante i suoi errori, vede quantomeno con chiarezza
che il governo è qualcosa che sta al di fuori di lui e della maggioranza
dei suoi simili – un potere distinto, separato e spesso ostile, che solo
in parte controlla e da cui può essere gravemente danneggiato. Nei
momenti romantici, può considerarlo un padre benevolo o persino una
sorta di jinn o di divinità, ma non lo sente mai come una parte di sé.
Nei momenti difficili si rivolge a esso affinché compia miracoli a suo
beneficio; altre volte lo vede come un nemico con cui deve lottare
costantemente. Non è forse significativo che derubare il governo sia
considerato ovunque meno grave che derubare un individuo? […]».
«Dietro tutto questo, credo, si nasconde la profonda consapevolezza del
fondamentale antagonismo tra il governo e il popolo che esso guida. Il
governo non è visto come un comitato di cittadini scelti per gestire gli
affari comuni di tutta la popolazione, bensì come una corporazione
distinta e autonoma, interessata soprattutto a sfruttare la popolazione
a vantaggio dei propri membri. Rubare al governo è quindi un atto quasi
privo di infamia [...]. Quando un privato cittadino viene derubato, un
individuo meritevole viene privato dei frutti del suo lavoro e
risparmio; quando il governo viene derubato, il peggio che possa
accadere è che certi furfanti e perdigiorno abbiano meno soldi da
maneggiare rispetto a prima. Il concetto che abbiano guadagnato quel
denaro non viene mai preso in considerazione: ai più intelligenti
apparirebbe grottesco. Essi sono semplici mascalzoni che, per
circostanze di legge, hanno un diritto per certi versi dubbio a una
quota dei guadagni dei loro simili. Quando quella quota viene diminuita
dall’impresa privata, l’attività è, complessivamente, di gran lunga più
meritevole».
«Questo clan
è pressoché esente da punizioni. Le sue peggiori estorsioni, anche
laddove siano compiute esplicitamente a vantaggio privato, non
comportano pene certe secondo le nostre leggi. Da quando è nata la
Repubblica, meno di una dozzina dei suoi membri sono stati messi in
stato di accusa, e solo qualche oscuro sottoposto è stato condannato al
carcere. Il numero di uomini rinchiusi ad Atlanta e Leavenworth per aver
protestato contro le estorsioni del governo è sempre dieci volte
maggiore del numero di funzionari governativi condannati per aver
oppresso i contribuenti a loro profitto. […] Nel mondo non ci sono più
cittadini, ma solo sudditi che lavorano ogni santo giorno per i padroni
e sono destinati a morire per loro in servizio. […] In un futuro
luminoso, tra un’era geologica o due, essi arriveranno al limite della
sopportazione […]».
Mencken aveva scarsa fiducia nella capacità delle rivoluzioni di attuare
un sovvertimento nell’interesse della libertà: «Le rivoluzioni politiche
realizzano raramente qualcosa di realmente valido; il loro effetto
indiscusso è semplicemente quello di buttare fuori una banda di ladri e
metterne dentro un’altra. Dopo una rivoluzione, naturalmente, i
rivoluzionari vittoriosi cercano sempre di convincere gli scettici di
aver compiuto grandi cose, e di solito impiccano chiunque lo neghi. Ma
questo non conferma di certo la loro tesi». Questa combinazione di
dottrina libertaria e scarsa fiducia nella possibilità di realizzarla fu
sintetizzata da Mencken nei seguenti termini: «Il governo ideale di
tutti gli uomini pensanti […] è quello che lascia in pace l’individuo, è
un governo che quasi non è un governo. Questo ideale, credo, si
realizzerà nel mondo venti o trenta secoli dopo che io sarò uscito di
scena e avrò assunto le mie funzioni pubbliche all’Inferno».
Benessere pubblico e interessi privati
Mencken vedeva con chiarezza la fallacia insita nel credere che i
funzionari governativi fossero motivati unicamente dal benessere
pubblico: «Raramente, per non dire mai, costoro sono davvero animati da
qualcosa di razionalmente descrivibile come spirito pubblico; in loro
non vi è più spirito pubblico di quanto non ve ne sia in tanti ladri di
appartamenti o passeggiatrici. Il primo, ultimo e costante obiettivo che
si prefiggono è quello di promuovere il loro interesse privato e a
questo fine – e a questo fine soltanto – esercitano i vasti poteri che
detengono. […] Qualsiasi cosa cerchino – sicurezza, maggiore agiatezza,
più denaro o più potere – deve provenire dal patrimonio comune, il che
diminuisce la quota di tutti gli altri. Dare lavoro a un nuovo impiegato
riduce il salario di ogni salariato del paese. […] Dare più potere a un
impiegato toglie qualcosa alla libertà di tutti noi […]».
Mencken continua a commentare la natura del governo cercando di porre un
freno alle sue intrusioni: «Provoca forse un riso amaro il fatto che il
Bill of Rights sia stato fiduciosamente ideato per proibire per sempre
due dei reati preferiti da tutti i governi noti: la confisca della
proprietà privata senza adeguato compenso e l’invasione della libertà
dei cittadini senza giusta causa. […] Provoca un riso ancor più amaro il
fatto che l’attuazione di queste proibizioni sia stata messa in mano ai
tribunali, ovvero in mano agli avvocati, ovvero in mano a uomini
istruiti appositamente per individuare le giustificazioni legali ad atti
antisociali, disonorevoli e disonesti».
Una delle principali forze che impedisce di tenere sotto controllo la
tirannide governativa – sottolinea Mencken – è la credulità delle masse:
«Lo Stato non è solo forza. Esso dipende tanto dalla credulità dell’uomo
quanto dalla sua docilità. Il suo scopo non è semplicemente quello di
farlo obbedire, ma anche quello di farlo obbedire volentieri». Qualche
volta il governo è utile? Ecco la risposta di Mencken: «Quanto lo è un
dottore. Ma cosa accadrebbe se il caro collega rivendicasse il diritto,
ogni volta che fosse chiamato a curare un mal di pancia o un fischio
nelle orecchie, di razziare l’argento di famiglia, utilizzare gli
spazzolini da denti dei suoi membri e applicare il droit de seigneur
sulla cameriera?».
Né, del resto, Mencken preferiva alla burocrazia civile la casta dei
militari: «La casta dei militari non ebbe origine da un gruppo di
patrioti, bensì da un manipolo di banditi. I primi capi dei banditi
finirono col diventare re. Il militare di professione ha mantenuto in
parte il carattere del bandito. Egli può battersi in maniera coraggiosa
e altruista, ma lo fanno anche i galli da combattimento. Può non essere
in cerca di ricompense materiali, ma lo stesso vale per i cani da
caccia. Il suo atteggiamento mentale è sciocco e antisociale. Fu un sano
istinto dei padri fondatori quello di subordinare i militari
all’autorità civile. A onor del vero, l’autorità civile si compone in
larga parte di mascalzoni politici, ma almeno loro si distinguono dai
militari per l’atteggiamento e gli obiettivi».
Nessuno era in grado di rivaleggiare con Mencken in quelli che lui
definiva “voli utopistici” – esilaranti e imponenti progetti per la
riforma libertaria del governo o della società in genere. Così, in un
articolo scritto nel 1924, ovvero prima – precisava – «che il New Deal
affliggesse il paese con una quantità di nuovi norme amministrative e
impiegati supertirannici», Mencken proponeva una penetrante riforma del
nostro sistema di diritto amministrativo. Lo scrittore esordisce dicendo
che «nelle immorali monarchie del continente europeo, ora fortunatamente
abolite per volontà di Dio, c’era, nei giorni del peccato, un modo
intelligente ed efficace di trattare i funzionari delinquenti». Essi
erano sottoposti, continua, non solo al codice penale ordinario, ma
anche a organi giudiziari speciali per «reati […] peculiari ai loro
uffici». La Prussia, ad esempio, aveva un tribunale in cui qualsiasi
cittadino era libero di denunciare un funzionario. C’erano diversi modi
per punire un funzionario colpevole: si poteva costringerlo a risarcire
un cittadino perseguitato ingiustamente, rimuoverlo dalla carica e/o
mandarlo in prigione. «Se in quella remota epoca di dispotismo un
giudice prussiano, sopraffatto da un attacco di passione kaiserliche,
avesse compiuto uno qualsiasi degli atti autoritari e irrazionali che i
nostri giudici, federali e statali, compiono quasi ogni giorno, un
cittadino leso avrebbe potuto convocarlo davanti al tribunale
amministrativo e ottenere da lui ingenti risarcimenti […]». La legge,
inoltre, «stabiliva esplicitamente che i funzionari responsabili
dovessero essere puniti non con più clemenza, bensì con più severità dei
trasgressori ordinari o subordinati. Se un poliziotto corrotto prendeva
sei mesi, un capo di polizia corrotto veniva condannato a due anni. Per
di più, questi statuti venivano applicati con brutalità prussiana; e le
prigioni erano costantemente piene di funzionari erranti».
Mencken
aggiunge di non voler – «ovviamente» – applicare il sistema prussiano
agli Stati Uniti: «In effetti, il sistema prussiano si sarebbe
probabilmente rivelato inefficace nella Repubblica, se non altro perché
comportava la creazione di una banda di impiegati preposta a giudicarne
e punirne un’altra. La cosa funzionò alla perfezione in Prussia prima
che il paese fosse civilizzato dalla forza delle armi, dato che, come
tutti sanno, i funzionari prussiani erano educati nella ferocia fin
dall’infanzia e ritenevano ogni persona incriminata, che si trattasse di
un collega o meno, colpevole ipso facto; essi rifiutavano il pensiero
della possibile innocenza di un prigioniero in quanto si ripercuoteva
negativamente sulla Polizei e, per deduzione, sul Trono, sull’idea di
monarchia e su Dio. In America, invece […], il giudice e il detenuto
sarebbero spesso colleghi democratici o repubblicani, e quindi entrambi
interessati a proteggere il loro partito dallo scandalo e i suoi membri
dalla perdita del posto di lavoro».
«Quel che serve», concludeva lo scrittore, «è un sistema che a) non
affidi il suo funzionamento alla buona volontà degli impiegati e b) che
assegni punizioni rapide, certe ed efficaci, nonché perfettamente
commisurate al reato». La ricetta proposta da Mencken prevede che «ogni
[cittadino] […] che esaminando gli atti di un impiegato l’abbia trovato
colpevole, possa punirlo istantaneamente e sul posto, in qualsiasi
maniera gli sembri appropriata e conveniente; e che, nel caso in cui la
punizione implichi lesioni fisiche all’impiegato, la conseguente
inchiesta del gran jury o del coroner debba limitarsi strettamente a
stabilire se l’impiegato meritasse ciò che ha ricevuto. In altre parole,
propongo che non vi sia malum in se se un cittadino prende a pugni, a
calci o a mazzate, frusta, taglia, ferisce, pesta, storpia, brucia,
bastona sulla pianta dei piedi, scuoia o persino lincia un impiegato, e
che vi sia malum prohibitum solo nella misura in cui la punizione supera
ciò che l’impiegato meritava. L’entità di tale eccesso, qualora vi
fosse, potrà essere determinata in maniera idonea, come ora avviene per
altri reati, da un petit jury. […] Se quest’ultimo decide che
l’impiegato merita la punizione inflittagli, il cittadino che l’ha
applicata è assolto con onore; se invece stabilisce che la punizione era
eccessiva, il cittadino sarà giudicato colpevole di aggressione, grave
mutilazione, omicidio o altro, in proporzione alla differenza tra ciò
che l’impiegato meritava e ciò che ha avuto, e la punizione per
quell’eccesso seguirà il normale corso […]».
«I vantaggi di questo sistema, credo, sono troppo evidenti per essere
oggetto di discussione. In un colpo solo, esso rimuove tutti gli
impedimenti legali che ora rendono la punizione di un impiegato sleale
un processo impossibile. […] Mettiamo che oggi un cittadino giunga alla
conclusione che un certo giudice è un asino, la sua preparazione
giuridica carente, il suo senso della giustizia atrofizzato e la
conduzione dei suoi casi tirannica e contro ogni decenza. Per come
stanno attualmente le cose, non c’è niente che si possa fare. […] Né
servirebbe a nulla denunciarlo pubblicamente e sollecitare tutti i
cittadini a votare contro di lui quando si presentasse per essere
rieletto perché il suo mandato potrebbe durare ancora dieci o quindici
anni, e se pure scadesse domani e lui venisse sconfitto, vi sarebbero
buone probabilità che il suo successore sia altrettanto pessimo se non
addirittura peggiore».
«Immaginiamo invece che qualsiasi cittadino sia libero di avvicinarlo in
pubblica udienza e tirargli il naso. O anche, nei casi più gravi, di
tagliargli le orecchie, buttarlo fuori dalla finestra o dargli
un’accettata in testa. Quanto sarebbe più immensamente scrupoloso nei
suoi compiti! Con quanta diligenza si applicherebbe allo studio del
diritto! Quanto sarebbe attento ai diritti dei contendenti che ha di
fronte!»11.
Mai la preoccupazione di Mencken per la difficile situazione
dell’America e per la virtuale immunità concessa ai suoi despoti, venne
espressa con l’umorismo e l’amara ironia presente nell’articolo “The
Nature of Liberty”, scritto nei primi anni Venti ma tutt’altro che
datato. Il tema è quello della polizia contro il singolo cittadino.
Mencken esordisce ironicamente: «Ogni volta che un dipendente del corpo
di polizia, nell’adempimento dei suoi giusti e grandiosi poteri sotto la
legge americana, produce in un cittadino in sua custodia una frattura
composta della nuca, con conseguente emorragia, shock, coma e morte,
giunge una flebile protesta in falsetto da parte di specialisti della
libertà umana». «È forse privo di significato», continua Mencken, «che
questa protesta non sia mai supportata dalla grande massa degli uomini
liberi americani, lasciando da parte gli eredi e i creditori della
vittima? Credo di no». Perché la gente normale sa che i poliziotti sono
dotati di manganelli «per rompere il cranio ai recalcitranti,
democratici e repubblicani».
Lo sviluppo della società capitalista
Risulta quindi evidente, continua a ironizzare Mencken, che questa
minoranza di intellettuali preoccupati delle libertà civili e dei
diritti individuali ai danni della polizia, è composta di sovversivi e
antiamericani: «Gli specialisti sopraccitati sono gli stessi fanatici
che riempiono l’aria di singhiozzi ogni volta che il ministro delle
Poste americano vieta la corrispondenza di un periodico perché non gli
piacciono le sue idee, che un povero russo viene deportato per aver
letto Karl Marx, che un funzionario preposto a far applicare la legge
sul proibizionismo uccide un contrabbandiere che rifiuta di pagargli la
mazzetta, che gli agenti del ministero della Giustizia gettano un
italiano fuori della finestra, o che il Ku Klux Klan o la Legione
americana cospargono di catrame e poi ricoprono di piume un predicatore
evangelico socialista. Insomma, sono radicali, e se uno scortica una
persona con un forcone per loro è un bolscevico. Quegli uomini
disprezzano le istituzioni americane e sono nemici dell’idealismo a
stelle e strisce […]».
«Ciò che più li tormenta è […] che […] conoscendo a fondo […] i principi
teorici espressi nel Bill of Rights, essi sono fermamente convinti che
quei principi siano identici alle norme del diritto e della giustizia e
debbano essere applicati alla lettera, senza il minimo riguardo per le
circostante e l’opportunità».
Essi non capivano, aggiunge Mencken, che il Bill of Rights
originariamente «adottato dai padri della Repubblica […] era semplice,
rozzo, idealistico, vagamente fantasioso e metafisico. Specificava i
diritti di un cittadino, ma non diceva nulla sui suoi doveri. Da allora,
gli ordinati processi della scienza legislativa e gli strumenti ancor
più incredibili e raffinati dell’arte giuridica lo hanno modificato,
facendolo diventare molto più flessibile e sensato. Da un lato, il
cittadino conserva il grande privilegio di essere membro della più
splendida nazione libera che sia mai esistita sulla Terra. Dall’altro,
le sue brame e appetiti naturali sono tenuti mirabilmente sotto
controllo da leggi avvedute e decisioni sagaci, che lo fanno vivere
nell’ordine e nel decoro. […] Una volta poliziotto, è protetto dalle
armi legislative e giudiziarie relative alle prerogative peculiari che
si accompagnano alla sua alta carica, tra cui in particolare il diritto
di sbattere in galera i laici a suo piacimento, di sfruttarli e
aggredirli, di sottoporli al terzo grado, e di vincere la loro
resistenza dandogli una sonora lezione. Chiunque sia all’oscuro di ciò
ignora i principi basilari della giurisprudenza americana, esposti
innumerevoli volte dai tribunali di prima istanza e ratificati in
termini elevati dalla Suprema Corte degli Stati Uniti».
I devoti servigi resi da Mencken alle libertà civili e il suo opporsi
alla censura in qualità di redattore dell’American Mercury sono troppo
noti per tornare a parlarne in questa sede. Meno conosciuta è invece la
sua penetrante analisi del mito di Justice Holmes come grande libertario
civile nelle sue opinioni discordanti. «È impossibile immaginare che […]
[le sue idee] possano promuovere la libertà», osservava acutamente
Mencken. Considerarlo un sostenitore dei diritti dell’uomo era
fuorviante: al contrario, «egli non era che un difensore dei
legislatori. Qui sta in effetti la chiave di tutta la sua
giurisprudenza. [Secondo Holmes], gli organismi legislativi dovevano
essere liberi di sperimentare quasi ad libitum, i tribunali non dovevano
interromperli finché non avessero superato gli estremi limiti della
ragione, e tutto doveva essere sacrificato alla loro autonomia,
compreso, a quanto pare, il Bill of Rights. Se questo è il liberalismo,
posso dire soltanto che è cambiato rispetto a quando ero giovane».
Mencken non aveva un particolare interesse per i temi economici, ma
vedeva con chiarezza che il capitalismo, conseguenza della libertà
individuale nella sfera economica, costituiva il sistema economico più
razionale e produttivo. Egli osteggiava accanitamente il New Deal in
quanto anticapitalista e antilibertario. Del capitalismo, Mencken
scrisse: «Gli dobbiamo quasi tutto ciò che oggi va generalmente sotto il
nome di civiltà. Lo straordinario progresso che il mondo ha conosciuto
dopo il Medioevo non è dovuto al mero dispendio di energie umane e
neppure alla capacità di volare propria del genio umano, giacché gli
uomini hanno lavorato duro sin dai tempi più remoti e alcuni di loro
erano dotati di una intelligenza superiore. No, esso è dovuto
all’accumulo di capitale. Quell’accumulo […] ha fornito le macchine che
gradualmente hanno diminuito il lavoro ingrato e liberato lo spirito del
lavoratore, in precedenza quasi indistinguibile da un mulo».
L’inefficienza della burocrazia
Il suo vecchio amico, Hamilton Owens, descrive la rabbia violenta
provata da Mencken quando Roosevelt tolse l’America dal sistema
monetario aureo. «Continuava a ripetere con tutta la veemenza di cui era
capace che si trattava di una rapina bella e buona. Diceva di voler
denunciare personalmente la cosa». In un carteggio con il famoso
socialista Upton Sinclair, che evidentemente gli aveva riproposto i
soliti luoghi comuni sulla presunta inefficienza degli uffici postali,
dei vigili del fuoco, della sanità pubblica, eccetera, Mencken, anziché
mettere le mani avanti e mediare, come fa la maggior parte dei
conservatori quando si trova di fronte a simili sfide, ribatté: «Non mi
è difficile rispondere alle sue domande. Il governo è restio a
consegnarle la mia rivista. Ha cercato di mandare all’aria la mia
attività [The American Mercury] e non ci è riuscito solo per un pelo. Fa
pagare eccessivamente cari i vaglia postali e ne perde troppi. Una
società di cinesi beoti saprebbe fare meglio. I suoi dispositivi per
spegnere gli incendi sono intollerabilmente costosi e inefficienti. A
dire il vero, non accade spesso che riesca a spegnerli: si estinguono da
soli. […] L’esercito non aveva nulla a che vedere con la scoperta della
causa della febbre gialla. I suoi burocrati perseguitavano le persone
che svolgevano il lavoro. Avrebbero potuto farlo molto più rapidamente
se non fossero stati nell’esercito. Ci sono voluti anni di impegno per
indurre il governo a combattere le zanzare, e oggi lo fa in maniera
pessima».
E, in una significativa ma dimenticata recensione di The Confession of a
Capitalist, scritto dall’individualista Sir Ernest Benn, Mencken affermò
che l’autore «dedica gran parte del libro a dimostrare ciò che la
maggior parte degli americani considera assiomatico: ovvero che il
sistema capitalista, nonostante i suoi difetti, funziona meglio di
qualsiasi altro sistema finora ideato dall’uomo. Nello spazio che gli
resta mostra come il governo sia inevitabilmente sprecone e dissipatore,
e come nulla di ciò che fa venga mai realizzato con l’efficienza e
l’oculatezza che utilizzerebbe un’impresa privata. Non vedo nulla da
obiettare in questo».
E subito dopo aggiunge: «Anche le funzioni di governo preferite – come
riscuotere tasse o eseguire impiccagioni – sarebbero svolte in modo più
efficiente se fossero affidate alla Ford». Il grande individualista
Albert Jay Nock ha scritto che, nonostante l’avessero generalmente
considerato un “radicale” acceso negli anni Venti e un accanito
“reazionario” negli anni Trenta, la sua filosofia politica era rimasta,
nel corso di questi decenni, praticamente immutata. Lo stesso può dirsi
dell’amico Mencken, che a sua volta restò sempre un individualista e un
libertario. Negli anni Venti, Mencken si scagliò contro le tariffe
doganali e gli altri privilegi speciali accordati ai gruppi economici
favoriti, criticò le leggi e gli editti contro la libertà di parola e
altre libertà personali, ma si accanì soprattutto contro la mostruosa
tirannide del proibizionismo. Negli anni Trenta, diresse i suoi attacchi
più feroci contro la più grave minaccia alla libertà dell’epoca: il New
Deal. Nel credere che fosse passato da sinistra a destra, gli ex
menckeniani degli anni Venti e i nuovi conservatori degli anni Trenta
mostravano di non capire Mencken né i principi di libertà. Il suo
presunto anticapitalismo era in realtà un’avversione estetica e
culturale per la maggior parte degli imprenditori economici (i
“Babbitts”) in quanto individui – avversione che essi avevano per la
gente comune – “gli uomini-massa” – impegnata in altre occupazioni.
L’antipatia di Mencken per i gusti culturali di singoli capitalisti non
va tuttavia confusa – ed egli non incorse mai in questo errore – con
l’opposizione al capitalismo in quanto tale».
Ripercorrendo, già nel 1934, quelle due fasi storiche, Mencken scriveva
a un amico: «Se credessi realmente di aver lasciato una traccia sulla
mia epoca, mi getterei nell’oceano più vicino. Non lo dico tanto per
dire. Mi baso sul fatto che gli americani mi sembrano più pazzi oggi di
quando iniziai a scrivere. Neanche i peggiori rotariani idearono mai
nulla di così insensato come alcune invenzioni del Brain Trust. Erano
dei pazzi innocui, alla ricerca di un surrogato del cristianesimo che
gli stava sfuggendo di mano. Ma i Brain Trusters, quantomeno in larga
parte, sono dei pazzi esaltati, e ci porteranno alla rovina se non
verranno soppressi al più presto».
La coerenza delle opinioni è, in effetti, uno degli aspetti più notevoli
di Mencken. Come scrisse scherzosamente a un amico quando aveva
sessant’anni: «Su tutti gli argomenti possibili, dall’aviazione all’uso
dello xilofono, ho idee fisse e invariabili. Non cambiano da quando
avevo quattro o cinque anni». Nell’affascinante, maturo, intenso e
brillante libro dedicato alla sua infanzia, Happy Days, Mencken ricorda
di aver acquisito le sue opinioni “reazionarie” sulle ginocchia del
padre: «Il suo sistema morale, per come posso ricostruirlo dopo tanti
anni, doveva essere stato prevalentemente cinese. L’umanità, dal suo
punto di vista, si divideva in due grandi razze: quelli che pagavano i
conti e quelli che non lo facevano. I primi erano virtuosi, nonostante
tutte le prove del contrario, mentre i secondi erano inguaribili
mascalzoni».
«Di tutti gli altri atti illeciti e infrazioni, aveva una visione molto
tollerante. Credeva che in democrazia la corruzione politica fosse
inevitabile, e sosteneva persino, sulla base della propria esperienza,
che avesse i suoi vantaggi. Uno dei suoi aneddoti preferiti raccontava
di una grande insegna oscillante appesa fuori del suo ufficio, in Paca
Street. Nel 1885, quando l’edificio venne costruito, egli attaccò
l’insegna, chiamò il consigliere distrettuale e gli diede venti dollari,
a saldo completo di qualsiasi pagamento di permessi e privilegi, diritti
di servitù e altri costi e canoni del genere. In cambio del denaro
intascato, il consigliere avrebbe dovuto allontanare qualsiasi
poliziotto, ispettore edile o funzionario che avesse un interesse
legittimo nella questione o cercasse di intromettersi per trarne un
utile personale. Essendo – secondo i suoi principi – un uomo d’onore,
egli mantenne il patto, e l’insegna sbatacchiò e scricchiolò nel vento
per dieci anni. Ma poi, nel 1895, Baltimora fu scossa da un’ondata di
riforme, il consigliere non fu rieletto e gli idealisti del comune
comunicarono che mantenere l’insegna sarebbe costato 62,75 dollari
l’anno: essa venne tolta il giorno successivo».
«Per mio padre, era la prova che le riforme sono essenzialmente una
cospirazione messa in atto da ciarlatani per estorcere denaro ai
contribuenti. Ho assorbito da lui questa idea e la ritengo tuttora
valida. Ho anche adottato la sua teoria secondo cui è meglio non
investigare troppo sulla condotta privata - tranne, ovviamente, quando
si prenda a bastonate un creditore».
Individualismo e dittatura democratica
La solidità dell’individualismo di Henry Louis Mencken si misura anche
dalle numerose citazioni di libertari e oscuri anarchici presenti nel
suo New Dictionary of Quotations. Nella sezione sullo Stato, la maggior
parte delle citazioni è contro quest’ultimo, mentre le restanti sono
così esageratamente a favore – ad esempio: «Il partito
nazionalsocialista è lo Stato - Adolf Hitler» – da creare un effetto di
forte ironia. Le citazioni contro lo Stato, poi, sono tratte in larga
parte da fonti individualiste o anarchiche: Emerson, Max Stirner,
Thoreau, Bakunin, William Graham Sumner, Kropotkin, Tolstoj e Benjamin
R. Tucker. Se Mencken non avesse avuto grande simpatia per questi
autori, non avrebbe potuto conoscerne così a fondo gli scritti né
colmare le sezioni di loro citazioni. Il capitolo sulla libertà di
parola è, a sua volta, denso di frasi in favore di quest’ultima, tratte
non solo da Macaulay, Jefferson, James Mill e vari giudici, ma anche
dall’individualista inglese quasi anarchico Auberon Herbert». Il ben
noto disprezzo di Mencken per la democrazia derivava in larga parte dal
suo fondamentale attaccamento alla libertà individuale e dalla
convinzione che la maggior parte delle persone – la maggioranza
democratica – è generalmente incline a sopprimere la libertà
dell’individuo anziché a difenderla. Mencken sintetizzò la sua opinione
sulla natura della democrazia, l’uomo comune e lo Stato nella seguente
definizione: «La democrazia è l’adorazione degli sciacalli da parte dei
somari».
Altre definizioni menckeniane: «La democrazia è la teoria secondo cui la
gente comune sa cosa vuole e merita di ottenerlo fino in fondo». «Se x è
la popolazione degli Stati Uniti e y il grado di imbecillità
dell’americano medio, la democrazia è la teoria secondo cui x
moltiplicato per y fa meno di y». Tutti gli assiomi sulla democrazia «si
riducono a colossali paradossi, molti dei quali equivalenti a vere e
proprie contraddizioni in termini. La plebe è capace di governare tutti
noi, ma deve essere a sua volta rigorosamente controllata. Esiste un
governo, non di uomini, ma di leggi – ma sono gli uomini a sedere in
Parlamento per decidere cos’è e cosa può essere la legge». Sull’innata
tendenza della democrazia a sopprimere la libertà, Mencken scrisse in
una lettera privata: «È vano appellarsi a un intrinseco amore per la
libertà di parola. Il popolo non conosce una simile passione. Solo
l’aristocrazia è sempre tollerante. Le masse sono invariabilmente
arroganti, sospettose, inferocite e tiranniche. La principale obiezione
alla democrazia è che in effetti ostacola il progresso penalizzando
l’innovazione e l’anticonformismo».
L’ateismo di Mencken è altrettanto noto, ma la sua ferocia era riservata
a quei gruppi religiosi che persistevano nell’imporre i propri codici
morali al resto della popolazione. Il proibizionismo ne era, all’epoca,
l’esempio più lampante, e per questo Mencken si scagliava essenzialmente
contro metodisti e battisti. Non aveva invece particolare antipatia per
i cattolici romani (soprattutto le sezioni non irlandesi): «I cattolici
non sono proibizionisti e hanno più umorismo dei metodisti», avrebbe
affermato una volta Mencken, che a quanto pare era in rapporti
amichevoli con diversi membri del clero cattolico.
Il nesso, nel pensiero di Mencken, tra costrizione religiosa della
morale, democrazia, uomo comune e tirannide sull’individuo, emerge
chiaramente in uno dei suoi articoli più spassosi, in cui attacca
ferocemente il contadino americano: «Gli stessi ciarlatani che arrivano
a Washington promettendo di aumentare i suoi [del contadino] guadagni e
compensare le sue perdite, dedicano tutto il resto del tempo a far
gravare su noialtri leggi oppressive e idiote, tutte pensate per le
aziende agricole. Là dove le mucche muggiscono tutta la notte, il
boccale di Peruna è nascosto dietro la stufa e si comincia a fare il
bagno, come a Biarritz, con l’equinozio di inverno, si trova il
serbatoio di tutte le leggi insensate che rendono l’America un
pagliaccio tra le grandi nazioni. Sono stati i metodisti di campagna,
praticanti di una teologia degradata quasi al livello di vuduismo, a
inventare il proibizionismo e […] a imporlo a noialtri, a danno dei
nostri conti in banca, della nostra dignità e delle nostre viscere.
Quella, e tutte le altre folli disposizioni del genere, celavano né più
né meno che l’odio congenito e incurabile del bifolco per il cittadino –
la sua rabbia scimmiesca contro chiunque, ai suoi occhi, si diverta più
di lui».
La convinzione di Mencken sull’avversione dell’uomo comune per la
libertà emerge anche nel suo modo di considerare la seguente,
sconcertante questione: come ha fatto la stragrande maggioranza dei
coscritti ad adattarsi così prontamente alla schiavitù della vita
militare? «Tranne una esigua minoranza, provenivano tutti da ambienti
molto meno accoglienti di un campo militare. […] D’un colpo venivano
liberati dall’ossessionante timore della sussistenza, sciagura di tutti
i giovani poveri e ignoranti, nonché da qualsiasi bisogno di
sperimentare e prendere decisioni. Erano nutriti e vestiti a spese dello
Stato […] e si potevano dedicare a sport e altri divertimenti che nei
loro luoghi di origine gli erano preclusi. La loro vita, insomma, non
era molto diversa da quella dei detenuti di una prigione modello, ma con
[…] la speranza costante di un rilascio imminente – non come
“sorvegliati speciali”, ma come eroi. […] Non solo qualcun altro diceva
loro cosa indossare, dove dormire, quando alzarsi e quando andare a
letto, cosa mangiare e quando; ma tutte queste comodità gli venivano
fornite in quantità e senza nessuna spesa. Insomma, erano sgravati di
colpo da qualsiasi responsabilità».
«Il soldato medio trovava nell’esercito […] la possibilità di condurre
una vita notevolmente più libera, con molti dei privilegi di un
libertino matricolato. […] Compiere un piccolo furto era uno dei
vantaggi di un salvatore dell’umanità; essere rozzo e brutale, un segno
del suo spirito combattivo. Egli poteva inoltre aspettarsi onore e
rispetto per il resto della vita, con una lunga lista di privilegi
speciali. In ogni comunità americana, per quanto piccola, ci sono
notabili locali la cui importanza dipende unicamente dall’aver
partecipato a qualche guerra. […] La loro intelligenza è dimostrata dal
tipo di idee che sostengono. Essi sono essenzialmente acerrimi nemici
della libertà dell’individuo e su di loro grava la responsabilità di
alcune delle peggiori forme di corruzione della politica. Il più avido
di tutti i politici è il veterano di guerra».
Mencken era in effetti un arci-“isolazionista”, strenuamente contrario
all’ingresso degli Stati Uniti sia nella prima che nella seconda guerra
mondiale. Più volte dichiarò la sua opposizione all’intervento americano
nei due conflitti, precisando tuttavia che se l’America doveva proprio
schierarsi, avrebbe dovuto farlo con la parte opposta. Nell’aprile 1942,
scrisse scherzosamente a un amico: «L’estate che viene promette di
offrire ai cristiani il migliore spettacolo mai visto sulla Terra dopo
le crociate. Aspetto con ansia quel momento. Spero solo che se i
giapponesi conquistano la California non ti facciano del male». E al
vecchio amico Harry Elmer Barnes, Mencken scrisse nel settembre 1943:
«Sono fatto così: o dico tutto o sto zitto. In questa guerra, come
nell’ultima, mi sembra più razionale tenere per me ciò che ho da dire
finché non sarà possibile dirlo liberamente».
«È meglio essere liberi che schiavi»
La reazione di Mencken al lancio della bomba atomica fu
comprensibilmente dura. Due anni dopo l’evento, scrisse a Julian Boyd:
«La bomba atomica – l’ho predicato a lungo – è la più grande invenzione
che Geova abbia realizzato dopo la lebbra. Essa ha senz’altro conferito
grande gloria ai fisici cristiani di questo paese. Immaginate se a
lanciarla su una città piena di donne e bambini fosse stato un onesto
cannibale».
Mencken era particolarmente preoccupato dalla quasi assoluta
soppressione delle libertà civili che la partecipazione alla guerra
inevitabilmente comporta, e vedeva nella conduzione del primo conflitto
mondiale la perfetta concretizzazione della sua visione cinica della
democrazia, dello Stato, dell’intervento straniero e dell’uomo della
strada. In una delle sue più divertenti “pagliacciate”, proponeva di
decorare generosamente gli eroi del “fronte domestico” della prima
guerra mondiale: «Propongo una variante della medaglia per servizio
meritevole ai civili […] che distingua i vari favori resi alla
democrazia […] per il rettore che ha proibito l’insegnamento della
lingua del nemico nella sua dotta accademia, ha lanciato le opere di
Goethe fuori della biblioteca universitaria, ha radiato tutti i
professori che non volevano sostenere Woodrow per il primo posto vacante
nella Trinità, ha parlato alla National Security League e tenuto
duecento discorsi nei cinema. Per questo colosso della lealtà, qualsiasi
americano puro non può volere meno della Gran Croce dell’Ordine, un
trofeo d’oro in vetro colorato, una bandoliera con i colori nazionali,
un cappello a cilindro viola con una spilla di lato, il diritto di
parola al Congresso e una pensione di 10.000 dollari l’anno […]».
«Palmer e Burleson se ne vanno per una legge speciale. Se i semplici
rettori, come Nicholas Murray Butler, sono degni della Gran Croce,
allora Palmer merita di essere rotolato nell’oro dalla testa ai piedi e
levigato fino ad abbagliare l’universo […]».
Non vi è abbastanza spazio per discutere altri rilevanti contributi di
Mencken – la sua analisi di Veblen, Wilson e Theodore Roosevelt, i suoi
libri (i primi che siano mai stati scritti) su Nietzche o George Bernard
Show, ecc. È sufficiente dire che l’America ha un disperato bisogno di
un altro Mencken e che l’allettante saggio di menckeniate proposte
dovrebbe stimolare il lettore a immergersi nella densa e copiosa
produzione di questo autore. In conclusione, riportiamo il nobile e
commovente Credo che egli scrisse per la rubrica “What I Believe” di una
prestigiosa rivista: «Credo che la scoperta di un fatto, per quanto
insignificante, non possa mai essere interamente inutile per la razza e
che nessuna falsità sbandierata, per quanto virtuosa negli intenti,
possa essere altro che cattiva». «Credo che qualsiasi governo sia
dannoso in quanto deve necessariamente fare la guerra alla libertà, e
che la democrazia sia negativa quanto qualsiasi altra forma di governo
[…]». «Credo nella completa libertà di pensiero e di parola, per il più
debole e il più potente degli uomini, e nella totale libertà di
condotta, purché compatibile con la vita in una società organizzata».
«Credo nella capacità dell’uomo di conquistare il suo mondo e di
scoprire di cosa è fatto e come è governato. Credo nella realtà del
progresso». «Ma dopotutto l’intera faccenda potrebbe essere espressa in
parole molto semplici. Credo sia meglio dire la verità che mentire.
Credo sia meglio essere liberi che schiavi. E credo sia meglio sapere
che ignorare».
18 agosto 2004
Questo
articolo è apparso per la prima volta su New Individualist Review, vol.
2, estate 1962, pp. 15-27.
Traduzione dall’inglese di Marcella Mancini
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