Rivali della democrazia
di Henry Louis Mencken
da Ideazione, maggio-giugno 2004
La plebe ha i suoi adulatori e mercanti di bugie, il re ha i suoi
cortigiani. Ma c’è una differenza, e credo sia importante. Il
cortigiano, nelle peggiori condizioni, esegue le sue genuflessioni
davanti a uno che in teoria è un suo superiore, e senz’altro almeno un
suo pari. Non è costretto a umiliarsi di fronte a dei maiali con cui, di
norma, disdegnerebbe avere qualsiasi scambio. Non è obbligato a fingere
di essere peggiore di quanto non sia. Non ha bisogno di tapparsi il naso
per avvicinarsi al suo benefattore. Può quindi assumere l’incarico senza
aver inferto una ferita letale al suo onore, e anche in seguito non ha
bisogno di sacrificarlo oltre, ma può farlo tornare sano e vigoroso. Il
suo sovrano, nelle peggiori condizioni, ha per esso un certo rispetto ed
esita a forzarlo eccessivamente; la plebe, viceversa, non è sensibile a
questo aspetto e, anzi, non ne ha alcuna consapevolezza. Il sovrano del
cortigiano, in altre parole, è capace di essere a sua volta un uomo
d’onore. Quando, nel 1848 o giù di lì, Guglielmo I di Prussia si vide
offrire la corona imperiale da un sedicente parlamento composto di suoi
sudditi, rifiutò dicendo che avrebbe potuto accettarla solo se gli fosse
stata offerta da suoi pari, ovvero, dai principi sovrani del Reich. I
democratici del mondo intero trovarono questo atteggiamento sconcertante
e, dopo attenta riflessione, iniziarono a considerarlo sprezzante e
offensivo, ma non c’era da stupirsene: un democratico considera
sprezzante e offensivo qualsiasi atteggiamento si basi sui concetti di
onore, dignità e integrità.
Il politico democratico, di fronte a questi semplici fatti, cerca di
salvare il suo amor proprio in modo tipicamente umano, ovvero negandoli.
Tutti noi lo facciamo. Trasformiamo le nostre umiliazioni in rinunce, il
nostro egoismo in senso civico, il nostro essere maialesco in eroismo.
Nessun uomo, credo, ammette mai candidamente a se stesso di guadagnarsi
da vivere in modo disonorevole, neanche se prende a morsi la coda dei
cuccioli. Il politico democratico che si trova confrontato alla
disonestà e alla stupidità del suo capo, la plebe, cerca di convincere
se stesso e noialtri che essa trabocca di probità e saggezza. Da qui
trae origine la dottrina che, nonostante gli errori occasionali, nel
lungo periodo la democrazia arriva sempre a prendere le decisioni
giuste. È possibile – ma in base a quali prove, secondo quale
ragionamento e per quali motivi! Pensiamo alla lunga storia del
movimento antischiavista in America, un primato davvero incredibile di
fandonie, finzioni e imbecillità. Il concetto secondo cui la plebe è
saggia, temo, non va preso sul serio; furono i capi della plebe a
inventarlo per salvare la faccia. Ogniqualvolta la democrazia produce
per puro caso uno statista autentico, si scopre che costui procede
partendo dal presupposto che esso è falso e che è difficile, se non
impossibile, chiedere sostegno alla plebe e continuare a rispettare le
norme del vivere civile.
La migliore capacità di governo democratico, così come la migliore
capacità di governo non democratico, tende a salvaguardare l’onore dei
più alti funzionari dello Stato sollevandoli da quella degradante
necessità. Come qualsiasi alunno sa bene, quello era l’intento dei
Padri, espresso nell’articolo 2, sezione 1 e 2, della Costituzione. Al
giorno d’oggi è prassi comune, quando questa o quella carica diventa
pregna di intollerabile corruzione, renderla nominativa togliendo alla
plebe la facoltà di concederla. Naturalmente l’aspirante deve ancora
sollecitarla, perché in democrazia è molto raro che sia la carica a
sollecitare l’uomo, ma sollecitarla dal presidente, o anche dal
governatore dello Stato, viene considerato notevolmente meno umiliante e
degradante che sollecitarla dalla plebe. Il presidente può essere un
Coolidge, e il governatore un Blease o una Ma Ferguson, ma è almeno in
grado di capire l’inglese e non ha bisogno di essere messo di buon umore
dalle arti dei clown o di un evangelista battista.
In sintesi, l’obiezione fondamentale mossa al feudalesimo (perfetta
antitesi alla democrazia) era che esso imponeva atti e atteggiamenti
degradanti al vassallo; l’obiezione fondamentale mossa alla democrazia è
che, a parte rare eccezioni, essa impone atti e atteggiamenti degradanti
agli uomini responsabili del benessere e della dignità dello Stato. Se
il primo era costretto a rendere omaggio al feudatario, che aveva
tendenza a essere bruto e ignorante, i secondi sono costretti a rendere
omaggio ai loro elettori, che nella stragrande maggioranza dei casi sono
certamente tutte e due le cose.
***
Tra i
meriti della democrazia, uno è piuttosto ovvio: si tratta forse della
forma di governo più affascinante che sia mai stata ideata dall’uomo.
Non bisogna spingersi troppo lontano per comprenderne la ragione: essa
si basa infatti su affermazioni che sono tangibilmente false – e ciò che
è falso, come tutti sanno, è per la stragrande maggioranza degli uomini
sempre immensamente più bello e soddisfacente di ciò che è vero. La
verità ha un rigore che li mette in allarme e un’aria di definitività
che cozza con il loro incurabile romanticismo. Essi si volgono, in tutte
le grandi emergenze della vita, alle antiche promesse, visibilmente
false ma immensamente confortanti, e nessuna è più confortante di quella
secondo cui gli umili erediteranno la terra. Essa è alla base del
sistema religioso dominante, e alla base del sistema politico prevalente
del mondo moderno. La democrazia le conferisce una certa apparenza di
verità obiettiva e dimostrabile. L’uomo della plebe, nelle vesti del
cittadino, ha la sensazione di contare davvero molto per il mondo e di
essere veramente lui a guidarlo. Questo suo patetico intrupparsi dietro
mascalzoni e ciarlatani gli provoca un senso di grande e misteriosa
potenza – che poi è ciò che rende felici arcivescovi, brigadieri e altri
personaggi di prestigio. Ma lo convince anche che è saggio e che le sue
opinioni vengono prese sul serio dalle persone di rango più elevato –
che è ciò che rende felici i senatori, i cartomanti e i giovani
intellettuali americani. Infine, gli regala l’entusiastica
consapevolezza di aver portato a termine un nobile compito – che è ciò
che rende felici i boia e i mariti.
Tutte queste forme di felicità sono naturalmente illusorie e di breve
durata. Il democratico, che si lancia nel vuoto per sbattere le ali e
lodare il Signore, precipita sempre giù con un tonfo. Le cause del
disastro risiedono nella sua stupidità: egli non riesce mai a liberarsi
della ingenua illusione – così squisitamente cristiana! – che la
felicità si ottiene portandola via al prossimo. Ma le cause sono da
ricercare anche nella natura delle cose: una promessa, dopotutto, è solo
una promessa, anche quando è sostenuta dalla rivelazione divina, e le
probabilità che non si realizzi possono essere espresse con una
deprimente formula matematica. Qui emerge l’ironia insita in ogni
aspirazione umana: la ricerca della felicità finisce, come sempre, col
portare solo infelicità. Ciò equivale semplicemente ad affermare,
tuttavia, che il vero fascino della democrazia non si esercita sul
democratico ma sullo spettatore. Quello spettatore, mi pare, ha il
privilegio di assistere a uno show di prima qualità. Riuscite a
immaginare niente di più eroicamente assurdo? Che grottesche falsità!
Che parata di ovvie imbecillità! Che baraonda di inganni! Ma l’inganno è
davvero poco divertente? Allora smetto immediatamente i panni dello
psicologo. L’inganno di una democrazia, sostengo, è più divertente di
qualsiasi altro – anche più divertente, e di gran lunga, dell’inganno
della religione. Andate nelle vostre stanze di preghiera e pensate a una
qualunque delle invenzioni democratiche più caratteristiche. O a uno
qualsiasi dei tipici profeti democratici. Se non ne uscirete impalliditi
e paralizzati dalle risate, allora non riderete neanche nel Giorno del
Giudizio, quando i presbiteriani usciranno dalla tomba come pulcini
dalle uova, dalle loro scapole si svilupperanno ali ed essi si
lanceranno nello spazio interstellare con grida di giubilo.
Ho parlato poc’anzi della possibilità che la democrazia sia una malattia
con un decorso ben definito, come il morbillo. Forse, però, è anche
autodistruttiva. Non la si può osservare con oggettività senza restare
colpiti dalla curiosa sfiducia che nutre nei confronti di se stessa,
dalla sua apparentemente inestirpabile tendenza ad abbandonare la
propria filosofia al primo segnale di tensione. Non serve che io indichi
cosa invariabilmente accade negli Stati democratici quando la sicurezza
nazionale viene minacciata. In tali occasioni, tutti i grandi tribuni
della democrazia si trasformano, con un processo semplice come
respirare, in despoti capaci di una ferocia quasi favolosa. Né tale
processo ha luogo solo in periodi di allarme e terrore: esso si
verifica, al contrario, un giorno sì e uno no. La democrazia sembra
sempre incline a uccidere ciò che in teoria ama. Tutti i suoi assiomi si
riducono a colossali paradossi, molti dei quali equivalenti a vere e
proprie contraddizioni in termini. La plebe è capace di governare tutti
noi, ma deve essere a sua volta rigorosamente controllata. Esiste un
governo, non di uomini, ma di leggi – ma sono gli uomini a sedere in
Parlamento per decidere cos’è e cosa può essere la legge. La più alta
funzione del cittadino è servire lo Stato, ma la prima cosa di cui è
sospettato, quando cerca di assolvere a quella funzione, è di falsità e
disonore. Quel sospetto è generalmente sensato? Allora la farsa diventa
ancora più evidente.
Confesso, da parte mia, che tutto ciò mi delizia. La democrazia mi piace
moltissimo. È straordinariamente insensata, e quindi straordinariamente
divertente. Magnifica gli stupidi, i codardi, gli opportunisti, gli
impostori, i furfanti? Allora la sofferenza derivante dal vederli salire
in alto è bilanciata e annullata dalla gioia di vederli cadere in basso.
È eccessivamente inutile, prodiga, ingiusta? Così è qualsiasi altra
forma di governo: sono tutte nemiche delle persone oneste. La sua vera
natura è la furfanteria? Be’, sopportiamo quella furfanteria dal 1776 e
non siamo ancora morti. A lungo andare, può emergere che quella
furfanteria è un’inevitabile necessità del governo umano e della civiltà
stessa – che la civiltà, di fondo, non è altro che un colossale
imbroglio. Non so. Dirò soltanto che quando gli sciocchi procedono bene,
lo spettacolo è infinitamente esilarante. Può darsi tuttavia che io sia
malizioso: le mie simpatie, quando si tratta di sciocchi, tendono a
essere civettuole. Quello che non riesco a capire è come un uomo che
prova compassione per loro e soffre quando sono corrotti e messi in
ridicolo possa credere nella democrazia. Come può un uomo che è
autenticamente democratico essere un democratico?
18 agosto 2004
Da
"Notes on Democracy", 1926, pp. 206-212
Traduzione dall’inglese di Marcella Mancini
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