L’alleanza strategica della destra
di Marco Respinti
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
Lo slogan che identificò la politica di George W. Bush durante la
campagna elettorale di quattro anni fa fu “Compassionate Conservatism”.
Oggi, nello scorcio finale della sfida per la Casa Bianca, il nuovo
slogan potrebbe invece essere “Fusionism”. Lo ravvisa con precisione,
per esempio, Kenneth Siber, nel suo The Fusionist Path, pubblicato sul
magazine telematico Tech Central Station, diretto a Washington da Nick
Schulz, che il commentatore non esita a definire un’incarnazione pratica
proprio del “fusionismo”. Fusionism, dunque. Anzi, Neo-Fusionism. Il
termine non è infatti certo nuovo. Diciamo che ha un bel po’ di anni:
nell’arena politica almeno quaranta suonati, nella storia delle idee
anche qualcuno di più. Di per sé non è bellissimo, questo
neologismo-cacologismo che tradotto in italiano è ancora più scostante,
ma tant’è. Del resto, nemmeno colui che ne è a buon diritto ritenuto il
padre e l’ideatore, Frank S. Meyer (1909-1972), lo ha mai apprezzato e
di per sé lo ha poco utilizzato. Nato dalla necessità giornalistica di
etichettare le idee, e di etichettarle in maniera concisa e mnemonica,
il Fusionism non è in realtà ciò che a prima vista potrebbe peraltro
sembrare: vale a dire una sorta d’insalata mista dove tutto sta a fianco
di tutto in una giustapposizione forzata di affermazioni e di loro
contrari e non è neanche un mero stratagemma elettoralistico che sfrutta
i compromessi dell’ultima ora alla vigilia di elezioni importanti. No, è
qualcosa di un tantino più nobile. E significativo. A partire dalla
pubblicazione di In Defense of Freedom: A Conservative Credo, del 1962,
in cui Meyer propose, in maniera compiuta, un’alleanza strategica fra le
diverse componenti della destra statunitense, che già in quegli albori
del “movimento” facevano sentire, e talora pesare, le proprie differenze
di sensibilità.
Per Meyer, era invece necessario che quelle diverse anime trovassero
modi e motivi d’intesa al fine di contrastare più efficacemente i propri
avversari politici. Nella visione meyeriana, però, questa “fusione” non
doveva limitarsi a formare un cartello ellettorale forte solamente di
una temporanea sospensione dei maggiori motivi di attrito e di
contrasto. Doveva invece cercare una unità profonda, e quindi duratura,
che fosse solo l’esito di uno sforzo di approfondimento – filosofico e
storico – delle proprie rispettive identità, in modo da risalire,
metaforicamente, al momento in cui, per motivi diversi, e non sempre
spregevoli, le diverse anime di quel mondo presero a dividersi e ad
allontanarsi. Al fondo e al centro di questa visione stava infatti il
riconoscimento di una grande cultura unitaria, capace di descrivere
l’ethos stesso dell’Occidente, via via aggredito da nemici esterni e
interni, ma capace di rendere ragione di sé e di generare un habitat
adatto all’uomo. A fronte del grande scontro con la modernità – ovvero
con il pensiero modernistico organizzato nell’evo moderno – segnatamente
a partire dalla rivoluzione di Francia, questa grande tradizione
occidentale aveva infatti preso a scomporsi e a smembrarsi in famiglie
diverse.
Il fusionismo meyeriano proponeva dunque un ripensamento intero della
storia della cultura occidentale che cercasse modi e tempi per una
riunificazione e per un ricompattamento. Solo così le istanze
tradizionaliste, liberali e cristiane potevano sperare di vincere lo
scontro con i nemici – scontro ben più che politico – ritornando a
rappresentare l’identità più autentica dell’ecumene occidentale. Ora, il
conservatorismo statunitense contemporaneo ha la propria data di nascita
(in vero una rinascita) nella metà del secolo Ventesimo. La sua prima
fase – dalla metà degli anni Cinquanta ai primi anni del decennio
successivo – configura la fondazione teoretica di quello che poi diverrà
il “movimento”, la seconda anche quella dell’azione politica. Le figure
che certamente fanno da cerniera fra questi due momenti sono Meyer e
Barry M. Goldwater (1909-1998), il primo articolando teoreticamente e il
secondo giocando come carta politica appunto il Fusionism.
Peraltro, l’analisi della storia culturale e politica del “movimento” –
che come tutte le ricostruzioni e le narrazioni storiche ha il vantaggio
di essere fatta a posteriori, quindi di poter contare su una capacità
prospettica decisiva per la comprensione autentica dei fatti – mostra
anzitutto che il fusionismo estisteva spesso già in re prima che Meyer
lo formulasse e che quindi la sua formulazione è a un certo livello solo
una opportuna razionalizzazione teoretica di un fatto. In ragione di
questa preminenza anche cronologica dei fatti rispetto all’elaborazione
teorica, si può sostenere, dunque, che il carattere del conservatorismo
statunitense è di suo sostanzialmente fusionista.
Che il conservatorismo statunitense sia fusionista, e che lo sia
addirittura stato prima della formulazione meyeriana, lo mostrano bene
certamente la sua storia, i dibattiti che si svolsero soprattutto
nell’epoca di fondazione teoretica, lo sviluppo del “movimento” e il suo
ingresso sul proscenio della politica attiva e talvolta anche partitica,
ma anche la dialettica delle critiche e l’animosità dei critici che
spesso di fatto, anche per via di contrapposizione, non fanno che
portare acqua al mulino della chiave di lettura fusionista del
conservatorismo statunitense, ancorché non sempre e solo nella sua
formulazione – o versione – meyeriana.
Meyer - Goldwater: dalla teoria alla politica
Ora, se Meyer è stato il teorico del fusionismo – meglio, il padre
putativo che ha battezzato e coltivato un fenomeno che anche
cronologicamente lo ha preceduto – Goldwater è l’uomo che, sul piano
politico, si è messo a disposizione del conservatorismo fusionista, cioè
anche del fusionismo nella formulazione meyeriana. Il fenomeno
“Goldwater 1964” assume allora anche le caratteristiche della discesa
nell’arena politica nazionale del conservatorismo fusionista,
soprattutto – ma non esclusivamente – nella sua formulazione meyeriana,
né la sconfitta elettorale di Goldwater nel 1964 ha segnato la fine
della ricerca fusionista. Fedele e al contempo innovativa rispetto alla
formulazione meyeriana del fusionismo è dunque stata l’ipotesi
conservatrice fusionista del quindicennio che lega la sconfitta
elettorale di Goldwater nel 1964 alla vittoria di Reagan nel 1980:
un’ipotesi definibile “neofusionista”, la cui crisi, proprio durante i
due mandati presidenziali di Reagan, ha quindi generato, fra l’altro,
anche l’ipotesi di un nuovo fusionismo, il quale una volta esauritosi
esso stesso ha lasciato sul terreno materiali per un nuovo neofusionismo
– è la storia degli anni Novanta del Novecento fino a oggi, secondo un
gioco di scatole cinesi e di cerchi concentrici che una volta in più
rafforzano la certezza della natura eminentemente fusionista del
conservatorismo statunitense, al di là dei successi concreti (in
politica e in altri campi) di questa o di quella sua specifica
formulazione, meyeriana, postmeyeriana, neomeyeriana o per nulla
meyeriana. Insomma, se la storia del conservatorismo statunitense, fra
elaborazione teoretica e azione politica, è storia di fusionismi (del
fusionismo in re e delle sue diverse formulazioni), è certamente
possibile riassumere i suoi parametri storici in una formula siffatta:
Goldwater è stato l’inventore di un “polo delle libertà” capace di
proporre un’alternativa politica al dominio delle sinistre negli Stati
Uniti.
La sconfitta di Goldwater quarant’anni fa costituì certamente una grave
battuta d’arresto per il fusionismo. Eppure, vista da un’angolatura
differente, quella sconfitta fu l’inizio anche di una vittoria. Sulle
ceneri del goldwaterismo iniziò infatti quello che solo decenni dopo si
sarebbe definito reaganismo. Proprio Reagan è riuscito, cioè, a mettere
assieme le diverse anime della destra statunitense in un’alleanza che se
non altro iniziava anche a spingersi oltre le esigenze meramente
tattiche onde tornare a porsi, una volta ancora, la domanda meyeriana
fondamentale di natura eminentemente pre-politica. Il nuovo fusionismo
reaganiano, però, vincitore sul piano strategico, non ha saputo nemmeno
esso vincere appieno sul versante culturale, e le differenze fra le
diverse anime della destra statunitense hanno presto ricominciato a
separarsi e a smembrarsi.
La nuova proposta di Bush
Oggi Bush jr., in vigilia di elezioni, torna a rispolverare quell’idea
più antica che vecchia, rivolgendosi in maniera diretta e tattica alla
destra nelle sue varie articolazioni: la cosiddetta Christian Right,
cattolici compresi; conservatorismo mainstream del “movimento”;
abboccamenti con il riottoso mondo libertarian (dalle ali più estreme
del Libertarianism giungono peraltro da sempre le critiche più dure al
Fusionism); e, ovvio, neoconservatori, caratterizzati da una fisionomia
politico-culturale tutta propria. In più corteggia l’americano medio –
disposto forse ad ascoltarlo, al di là delle fedeltà di partito,
soprattutto in virtù delle paure generate dallo scenario internazionale
– cercando una importante sovrapposizione fra esso e il conservatore.
D’acchito potrebbe apparire un salto nel vuoto, l’avvio a un suicidio
politico. Sconfitto alle urne nel 1964 e vittorioso con Reagan nel 1980,
ma incapace, di lì a poco, di andare oltre l’alleanza tattica, il
Fusionism parrebbe davvero l’altro nome del fallimento. Ma non è affatto
così.
Oltre che essere la realtà storica del conservatorismo statunitense, è
anche l’unica sua chance. Divisi si perde, uniti forse no. Certo,
assomiglia a un’impresa titanica il voler mettere d’accordo (uso
emblematicamente i due corni più distanti della destra Usa) neocon e
libertarian, però è l’unica via praticabile. Se è possibile per esempio
rigettare l’ottusa politica estera del Libertarianism senza perdere uno
iota della sua importante opera di profondo scavo culturale configurante
oramai un vero e proprio e salutare revisionismo, è possibile apprezzare
il decisionismo neocon senza sposarne le premesse teoretiche. Con una
formula, si può gradire la politica neocon rigettandone la cultura, così
come l’inverso si può fare nei confronti dei libertarian.
Certo, né neocon, né libertarian lo faranno mai: per questo è necessario
un uomo diverso, magari pure meno profondo sul piano culturale e meno
rapace su quello politico, che sappia non conciliare se proprio non si
riesce, ma coniugare. Fallire, significa non andare mai oltre, quando va
bene, un mero successo elettorale, magari pronti per la prossima
sconfitta. È poco probabile che dietro la scelta neo-fusionista di Bush
alla vigilia delle elezioni vi siano riflessioni articolate di questo
tipo, ma non è nemmeno necessario vi siano. Decisivo è che qualcuno
cominci di nuovo a riparlare di quel Fusionism che si è dato
prematuramente e ingiustamente per defunto.
23 ottobre 2004
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