South Park. Un manuale politico.
Capitolo 1. Libertarian o conservatori?

di Andrea Mancia
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
[16 dic 04]

«Se non lo avete ancora fatto, vi supplico di guardare South Park». Secondo Michael Cust, articolista canadese di LewRockwell.com (Rockwell è il fondatore e presidente del Ludwig von Mises Institute), il cartoon creato da Trey Parker e Matt Stone è il più clamoroso successo libertarian nel mondo della cultura pop «da quando, negli anni Settanta, la band canadese Rush riempiva le onde radio». «In South Park non ci sono vacche sacre», spiega Cust: «lo stesso Dio è rappresentato come un piccolo incrocio, peloso e verdastro, tra uno scoiattolo e un rettile». Perché mai, si chiede retoricamente il giornalista, «dovrei allora supplicare i lettori di LewRockwell.com, in maggior parte culturalmente conservatori, di assimilare questa forma infantile di libertinismo? La risposta è semplice e diretta: a differenza di altri programmi televisivi che è possibile definire libertarian, come Star Wars, i Simpsons e Dukes of Hazzard, South Park non richiede grandi sforzi interpretativi. L’obiettivo politico dello show è manifesto». Proprio come il suo humour, infatti, le radici libertarian di South Park sono dirette e prive di qualsiasi bizantinismo.

Trey Parker, la “mente” di South Park, è registrato nelle liste elettorali del partito libertarian. La rivelazione è arrivata, a sorpresa, il 4 aprile del 2001, quando Parker e Stone stavano per lanciare “That’s my Bush”, una sit-com spassosissima ma di breve durata sulla vita privata del presidente alla Casa Bianca (il protagonista sarebbe stato Al Gore, in caso di vittoria democratica alle presidenziali del 2000). Il Los Angeles Times, forse alla ricerca di qualche dichiarazione anti-Bush, aveva provocato Parker sul terreno della politica. Quello che i cronisti del sinistrorso quotidiano californiano non si aspettavano, però, è che Parker si rivelasse un libertarian “duro e puro”, integerrimo sostenitore del libero mercato e senza ombra di dubbio più sdegnato dall’ipocrisia della sinistra americana che dal bigottismo della destra religiosa, che pure South Park ha attaccato a ripetizione e senza timori reverenziali. «I hate conservatives, but i really fucking hate liberals» (odio i conservatori, ma odio davvero fottutamente i liberal), ha dichiarato Parker a chi gli chiedeva delucidazioni sui contenuti politici del suo show. E in quella F-word, in quel rafforzativo “proibito” che resta uno dei tabù dell’America puritana, c’è tutto lo spirito politico di South Park, tutta la sua forza eversiva dopo decenni di entertainment progressista e lascivamente incline al buonismo.

Nel dicembre 2001, Parker e Stone vengono invitati a Los Angeles dalla People for American Way, una lobby filo-democratica che da più di vent’anni combatte la destra religiosa e che un anno prima, nel contestato recount in Florida, si era distinta per le sue posizioni estremiste. Il suo fondatore, Norman Lear, è uno degli “inventori” della sit-com statunitense: il geniale produttore di “All in the Family” (da noi Arcibaldo), sulle cui ceneri sono nati gli spin-off dei Jeffersons, Sanford and Son e Maude. Se come creatore di televisione Lear è il massimo, almeno nei primi anni Settanta, come attivista politico si è invece distinto per le sue posizioni di sinistra radicale, maturate dopo lo shock della vittoria di Ronald Reagan alle presidenziali del 1980. Nato in Connecticut ma adottato da Hollywood, vive naturalmente a Beverly Hills, proprio dove Trey e Stone sono chiamati a ritirare il premio “Defenders of Democracy” durante l’annuale cena di fundraising dell’associazione. Premiati insieme a loro, il vecchio ed immortale rocker Neil Young e Kevin Smith, il regista di Clerks e Dogma (fra gli altri). è Young, per primo, a scandalizzare la sofisticata platea liberal difendendo le misure anti-terrorismo di Bush avversate con forza dalla Pfaw. Ma le sopracciglia alzate del gotha progressista californiano sono soltanto l’inizio di una serata memorabile. Smith si dice sconcertato per l’altisonanza del premio quando ci sono soldati americani che stanno morendo in Afghanistan, e lo ribattezza seduta stante «Defenders of my own ass» (difensore del mio stesso culo). Infine Parker, chiamato sul palco per ritirare il premio, si presenta con uno sgargiante vestito a stelle e strisce e si congratula con l’organizzazione per aver voluto premiare lui e Stone malgrado il loro essere «orgogliosamente repubblicani». La platea trattiene il sospiro, quasi aspettasse la fine della battuta. Qualche risatina nervosa inizia a serpeggiare. Ma Parker rimane lì, in piedi, a fissare la folla per qualche secondo. Poi se ne va. Ma soltanto dopo aver aggiunto, senza apparente ironia: «comunque è tutto vero».

Libertarian o repubblicani, Trey e Parker si distinguono comunque per la loro capacità innata di demolire a suon di risate i falsi miti e i luoghi comuni della sinistra liberal. Lo show televisivo segue le avventure di quattro sboccati ragazzini che vivono in una piccola città del Colorado rurale, South Park appunto. Come nei Simpsons di Matt Groening, il cartone animato di Parker e Stone si serve di un intero cast di abitanti della cittadina (sindaco e poliziotto compresi) per dare vita ad una esilarante serie di comportamenti grotteschi che il più delle volte sono soltanto il pretesto per un esercizio di analisi sociale e politica. Analisi sempre stimolante e spesso controcorrente. A differenza che nei Simpsons, però, lo humour di South Park non si ferma, esitante, ai confini del politically correct. Al contrario, si crogiola nella comicità offensiva e dissacrante tipica della fascia d’età tra i 16 e i 30 anni, target demografico primario a cui si rivolge lo show. Battute a sfondo sessuale, grande attenzione per la “cacca” e i suoi derivati, nessun rispetto per i gay o gli handicappati, diffuso utilizzo degli stereotipi razzisti su orientali, neri ed ebrei, pesanti parodie religiose che non risparmiano cattolici, protestanti, mormoni, musulmani e buddisti.

La destra americana si accorge di South Park

Nel luglio del 2002, un altro insospettabile sostegno a South Park arriva dal sito filo-repubblicano Tech Central Station (“Where Free Markets Meet Technology”), con un articolo di Stephen W. Stanton dal titolo “South Park Republicans” che provocherà un putiferio nell’ala “non-conservatrice” del Grand Old Party. La tesi di Stanton è interessante: «Provate ad immaginarvi un tipico repubblicano. Forse vedete l’immagine di George Bush, John Ashcroft, Ronald Reagan, o addirittura quella di Alex P. Keaton (il protagonista reaganiano di “Family Ties”, in Italia “Casa Keaton”, interpretato da Michael J. Fox negli anni Ottanta; NdR). Fondamentalmente, molte persone credono che i repubblicani siano un mucchio di noiosi (e spesso ricchi) uomini bianchi. Ma i tempi stanno cambiando. [...] Se i repubblicani sono così diversi dall’America mainstream, allora chi li ha votati? I repubblicani hanno più deputati e governatori di qualsiasi altro partito, oltre al controllo della Casa Bianca. Non ci sono abbastanza Alex P. Keaton per ottenere risultati del genere. I ricchi e noiosi ragazzi bianchi sono soltanto una piccola minoranza dell’intero elettorato. Eppure i candidati repubblicani continuano a ricevere milioni di voti durante le elezioni. Come è possibile?». Per il commentatore di Tech Central Station, la risposta a questo interrogativo può essere trovata nei “South Park Republicans”, un nome che da solo basta a sottolineare i contrasti esistenti all’interno del partito fondato da Abraham Lincoln. «Lo show – dice Stanton – è largamente condannato da alcuni moralisti, inclusi alcuni esponenti della destra religiosa. Eppure, malgrado il suo linguaggio volgare e il suo humour di bassa lega, riesce a comunicare con forza la posizione repubblicana su molti problemi: dalla legislazione sui crimini razziali all’ambientalismo radicale». Per Stanton, i South Park Republicans sono veri repubblicani, anche se non assomigliano a Pat Robertson. «Credono nella libertà e non nel conformismo. Possono guardare i Sopranos anche se sono italiani e vivono nel New Jersey. Possono apprezzare i culetti solidi di Britney Spears o Brad Pitt senza preoccuparsi troppo della decadenza morale della nazione. Credono fermamente nella libertà, nella responsabilità personale, nel governo limitato e nel libero mercato. In ogni caso, non vivono seguendo i dogmi del politically correct».

Stanton cita gli esempi di Arnold Schwarzenegger (non ancora governatore della California) e Bruce Willis, oltre a quello del rapper nero LL Cool J, che qualche settimana prima aveva appoggiato la rielezione del governatore repubblicano di New York, George Pataki. Stanton tocca un tema serio, quello della coesistenza tra l’ala libertarian e la destra religiosa all’interno del partito repubblicano, e per farlo utilizza la comicità dissacrante dello show televisivo di Trey e Parker, proprio come qualche settimana prima aveva fatto Andrew Sullivan, giornalista inglese trapiantato negli Stati Uniti, repubblicano (almeno fino a qualche mese fa), tenace sostenitore della guerra in Iraq e gay dichiarato, che aveva definito South Park come «il miglior antidoto possibile contro la cultura del politically correct». E come aveva brillantemente anticipato più di un anno prima un economista della Georgia, Pat Mizak, che su CNSnews.com aveva segnalato «l’intrinseco conservatorismo» di South Park e di un altro splendido cartoon statunitense: “King of the Hill” di Mike Judge.

Gli articoli di Stanton e Sullivan scatenano una tempesta digitale nei blog e nei forum della destra a stelle e strisce. Fino a quando la polemica sbarca sulle prestigiose pagine del City Journal (il miglior magazine d’America, secondo l’editorialista del Wall Street Journal, Peggy Noonan). Nel suo articolo “We’re Not Losing the Culture Wars Anymore” (Non stiamo più perdendo la guerra della cultura), Brian C. Anderson afferma che il decennale monopolio della sinistra nella cultura americana «si sta avviando verso una conclusione sorprendentemente rapida». Per Anderson, l’inizio della fine risale a 15 anni fa, con il debutto dei talk-show radiofonici condotti da Rush Limbaugh. Ma sono tre, secondo l’editorialista del City Journal, gli “eventi sismici” che hanno reso possibile la rimonta culturale della destra ai danni dell’establishment liberal: Fox News, Internet e... South Park. Il ragionamento complessivo di Anderson meriterebbe un approfondimento, ma per ora limitiamoci ad osservare come South Park venga preso come punto di riferimento per tutta una serie di show televisivi, trasmessi soprattutto via cavo, che si prendono gioco della vulgata progressista più tradizionale. Con “The Raw Feed” di Dennis Miller e “Tough Crowd” di Colin Quinn, la cable-tv riesce finalmente ad equilibrare i sinistri sbandamenti di “Whoopi” e “West Wing” caratteristici dei grandi network come Nbc, Cbs e Abc. E' soltanto con South Park, però, che arriva il salto di qualità. Ma è giustificato tutto questo fervore degli opinionisti conservatori e libertarian? O si tratta di un’allucinazione collettiva? Gli spettatori affezionati della serie non possono avere dubbi.

>>> [Capitolo 2. Morte al politically correct]

16 dicembre 2004

mancia@ideazione.com

 

 

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South Park.
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Capitolo 2. Morte
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