Est-Ovest, la nuova “pace fredda”
di Carlo Jean
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005
Per secoli non solo la geopolitica, ma anche i confini degli Stati della
regione compresa fra l’Oder-Danubio e il Don hanno subìto numerosi
flussi e riflussi. Nel 1945, la Polonia si è spostata di 300 chilometri
verso ovest. Dal 1991, confina con sette nuovi Stati. Nessuno dei tre
con cui confinava prima esiste più. Il suo territorio, come quelli della
ex-Cecoslovacchia, dell’Ungheria e della Romania, non costituisce più la
zona cuscinetto fra l’Europa e la Russia. Ora tutta l’Europa ex-centrale
fa parte della Nato ed è – o sta per divenire – parte dell’Ue. Non va
più distinta da quella occidentale. Dopo gli allargamenti dell’Ue e
della Nato, l’Europa centrale è oggi costituita da Bielorussia, Moldavia
e Ucraina; quella orientale dalla Russia, che sembra orientata ad uscire
dalla sua “gabbia” eurasiatica. Essa la costringe ad essere impero,
anziché Stato-nazione democratico di tipo occidentale, integrabile a
lungo termine nell’Unione Europea.
Problemi geopolitici centrali sono quelli dei confini orientali e quelli
dei fini e assetti istituzionali ultimi dell’Unione Europea. Il recente
allargamento li ha ignorati. La crisi ucraina li ha già posti sul
tappeto. Si tratta di decidere: se l’Ue possa o debba ancora allargarsi;
se diverrà una confederazione, come era nel sogno dei “padri fondatori”
o una semplice area di libero scambio; oppure se si dividerà in un
centro – basato sulle cooperazioni strutturate – e diverse periferie
sempre meno integrate, specie in fatto di politica estera, di sicurezza
e di difesa. Altrettanto importante è la composizione dell’inevitabile
nucleo duro europeo. In caso di confini orientali aperti, sicuramente ne
dovrà far parte anche la Polonia. Essa ha aumentato la sua statura
nell’Unione con l’efficace opera di mediazione fatta a Kiev dal suo
presidente. Qualora non vi fossero ulteriori allargamenti, la Polonia –
insieme agli Stati baltici e alla Romania – rimarrà provincia di confine
dell’Unione. Nei due casi muteranno i rapporti fra l’Ue e la Russia. Se
i confini orientali dell’Unione rimarranno aperti e mobili, Mosca si
sentirà, se non minacciata, almeno umiliata dall’inevitabile perdita di
influenza in territori che considera propri. Data la debolezza militare
dell’Ue, si accrescerà poi l’importanza della garanzia strategica Usa.
Quindi, saranno inevitabili tensioni fra Mosca e Washington, già emerse
con accuse reciproche di interferenza non solo nell’Ucraina, ma anche
nel Caucaso e nell’Asia Centrale. Il contesto europeo è complicato anche
dal fatto che Parigi non si è ancora rassegnata a che l’Europa non si
può fare né “contro” né “senza” gli Usa. La sua paranoia multipolarista
la porta a ricercare l’alleanza fra l’asse franco-tedesco e la Russia.
Essa è percepita a Varsavia come una nuova Rapallo. è anche considerata
con fastidio a Mosca. Putin sa bene che gli unici veri alleati possibili
per la Russia sono gli Stati Uniti, non solo in Europa, ma anche in
Estremo Oriente.
Gli altri Stati europei sono imbarazzati per la crisi ucraina. I
principi dell’Unione la portano all’inclusione dei popoli che si sentono
europei e che abbiano raggiunto gli standard di Copenaghen. Non
potrebbero quindi chiudere la porta in faccia agli indipendentisti
ucraini. Ma se non la chiudessero, essi temono che ne soffriranno le
loro promettenti relazioni economiche con Mosca. Quindi, preferiscono
non far nulla, se non auspicare che la crisi ucraina non divenga
violenta. Ciò spiega la nuova imprevedibilità che aleggia sulla dinamica
geopolitica in atto nell’intera regione. Gli europei – con l’eccezione
della Polonia – mantengono un basso profilo. I democratici russi – quali
Yavlinsky e Nemtsov – sostengono gli indipendentisti ucraini. I realisti
politici americani alla Condoleezza Rice hanno trasformato in attendismo
il loro pragmatismo. Invece, i liberal americani, come Brzezinski, sono
più battaglieri e predicano il sostegno alla democratizzazione della
Bielorussia, dell’Ucraina e del Caucaso. Hanno posizioni simili a quelle
dei neoconservatori nei riguardi del mondo islamico. Beninteso,
escludono ogni impiego della forza. Insomma, lo spettacolo di un
Occidente, indeciso fra i propri interessi e i propri principi. Quasi
uno spettacolo di rovine, a stento mascherato a Kiev dall’accattivante
sorriso di Javier Solana, ministro degli Esteri di un’Unione senza
politica estera, se non quella di evitare guai a breve termine.
La Russia ha, dal canto suo, riconquistato una notevole capacità di
manovra con i successi economici degli ultimi anni e, soprattutto, con
la stabilizzazione interna. Il prestigio di Putin è elevato. I russi
chiedono ordine e disciplina. La Russia non dipende più dal sostegno
economico e finanziario dell’Occidente. L’ordine però ha comportato una
progressiva centralizzazione dell’immensa Federazione. Entrambi tali
aspetti hanno consentito a Putin, malgrado le difficoltà della Cecenia,
di rivolgere il proprio interesse all’estero vicino, dando maggiore
organicità alle azioni già intraprese dalle forze più “patriottiche” di
Mosca, rimaste “imperiali”. La Russia risente delle tragiche esperienze
storiche delle aggressioni subite da Ovest; è umiliata dalla perdita di
peso internazionale, nonostante la rivendicazione dello status di grande
potenza; è rimasta frustrata dall’allargamento dell’Ue e della Nato e
dalla presenza Usa nel Caucaso e nell’Asia centrale. è logico quindi che
sia sospettosa di ogni iniziativa occidentale, anche da parte di
organizzazioni non governative, come la Freedom House o il National
Endowment for Democracy, che hanno addestrato alla difesa non violenta e
alla disobbedienza civile gli studenti del Pora ucraino.
Il colpo di genio del presidente Putin consistette nell’appoggio agli
Stati Uniti nella guerra al terrorismo e nella cooperazione con
Washington in campo energetico. Ciò ha facilitato i suoi tentativi di
ripristino dell’influenza russa nell’estero vicino, dalla Lituania alla
Georgia. Nel caso delle elezioni ucraine, il presidente russo si è
spinto troppo avanti. Non penso però che abbia perso la sua libertà
d’azione. Può ancora ritirarsi, senza neppure subire grosse umiliazioni.
Il suo consenso interno è forte. Sa di poter attendere, dato che
l’Ucraina avrà sempre bisogno della Russia. Lo avrà per evitare un
conflitto interno e la secessione della forte minoranza russa, con la
perdita delle regioni orientali e meridionali, che sono poi le più
ricche. Lo avrà anche perché l’economia ucraina è fortemente integrata
con quella russa e il paese dipendente dal gas e dal petrolio
provenienti da Est.
D’altronde, né la Russia né l’Occidente – ammesso che riesca ad
esprimere una posizione unitaria – possono influenzare, se non
indirettamente, gli sviluppi della crisi ucraina. Putin sa che la
cooperazione della Russia è importante per gli Stati Uniti. Lo è sempre
stata. Guerra al terrorismo ed energia a parte, basta ricordare la
politica del Russia First dell’Amministrazione Clinton, o il viaggio del
presidente Bush senior a Kiev nel 1991, per scongiurare gli ucraini di
abbandonare i loro progetti di secessione dall’Urss. Il vero pericolo
per le tendenze autocratiche ed imperiali a Mosca è costituito più
dall’attrazione esercitata dall’Ue che dagli Stati Uniti. Con essi la
Russia deve cooperare dal Pacifico al Golfo. Sa di essere importante,
anche in vista di un potenziale confronto fra Washington e Pechino.
Il “gioco” geopolitico che si sta svolgendo dalla Lituania alla Georgia
è interessante. I suoi strumenti sono quelli sofisticati, caratteristici
del soft power. La Russia tende ad accrescere la propria influenza e a
costituire una fascia cuscinetto per la propria sicurezza. L’Occidente
tende ad espandere gli spazi della democrazia e del libero mercato,
anche per frenare le tendenze autoritarie che, secondo taluni
osservatori, starebbero prevalendo in Russia. Da parte occidentale
vengono utilizzate le strategie sperimentate con successo, prima in
Polonia da Solidarnosc, poi in Serbia dall’Otpor e infine in Georgia
durante la “rivoluzione delle rose”, che ha portato al potere un
presidente nazionalista e filo-occidentale. La rivoluzione arancione
contro le elezioni truffa a Kiev presenta caratteristiche molto simili.
Forse Mosca è anche preoccupata della possibilità che tali strategie
vengano utilizzate anche in altri Stati del suo estero vicino e nella
stessa Russia.
Non per nulla, alle manifestazioni di Kiev hanno partecipato diversi
studenti della Bielorussia, che nel 2006 dovrà votare, e che, dopo le
elezioni-burla dell’ottobre scorso del suo bizzarro presidente Alexander
Lukashenko, è stata oggetto di sanzioni da parte europea e americana. In
piazza a Kiev, accanto alle bandiere arancioni, sventolavano bandiere
della Georgia. Di qui il sospetto di un complotto anti-russo, che
tenderebbe a nuove secessioni e conflitti interni. Sarebbe un complotto
della Cia, volto ad aumentare lo spazio d’influenza occidentale sotto la
foglia di fico della democratizzazione, della devolution e della
promozione dei diritti umani. Insomma, una riedizione di quanto fu fatto
in Europa orientale, soprattutto in Polonia, durante la Guerra Fredda.
Da parte russa, la strategia impiegata è “meno gentile”. Si basa sui
legami esistenti fra i suoi potenti servizi di sicurezza con quelli del
near abroad. I più maliziosi aggiungono che tale connubio si avvale del
supporto della criminalità transnazionale e spesso di pressioni o
ricatti esercitati per i trascorsi criminali dei leader politici dei
paesi vicini.
Tale strategia, con l’eccezione della Bielorussia dove ha avuto pieno
successo, è fallita in Lituania, dove il presidente Rolandas Paksas è
stato rimosso, dimostrando la vitalità della democrazia di tale Stato
baltico. La strategia russa è però più articolata. Si avvale delle
popolazioni russe rimaste nei paesi dell’“estero vicino” e di cui –
legittimamente – Mosca si erge a garante. Meno corrispondenti alla
visione dell’ordine europeo, basato sul mantenimento dello status quo
post-Guerra Fredda, è il fatto che tale garanzia – come è avvenuto in
Transnistria, in Abkasia e nell’Ossezia Meridionale – si traduce in una
secessione, appoggiata da Mosca con la concessione della cittadinanza e
con lo schieramento di truppe.
Esiste anche una possibilità di divisione dell’Ucraina. Nelle regioni
orientali e meridionali è concentrata la popolazione ucraina etnicamente
russa. Tale secessione non potrebbe avvenire pacificamente. è
considerata certamente un incubo anche a Mosca, oltre che a Washington e
nelle varie capitali europee. Mi sembra però poco probabile. Per
evitarla, le mediazioni per pervenire ad una soluzione di compromesso
della crisi ucraina sono sostenute dai moderati di tutto l’Occidente e
dalla stessa Russia. Anche l’opposizione ucraina è ben consapevole della
necessità di un equilibrio fra la Russia e l’Europa. Sembra che tale
sarà la soluzione finale. Le nuove elezioni presidenziali del 26
dicembre, penso che lo confermeranno. Yushenko potrebbe addirittura fare
una politica più filo-russa di quella che sarebbe possibile a
Yanukovich. La crisi dell’Ucraina coinvolge profondamente la geopolitica
della regione fra l’Oder e il Don ed è in parte effetto
dell’allargamento dell’Ue, di cui non sono state valutate le conseguenze
geopolitiche. Sottolinea anche la necessità dell’Unione, non solo di
definire una “visione” circa il suo futuro a lungo termine e la
strategia per realizzarlo, ma anche di trovare un accordo con gli Stati
Uniti, con un nuovo contratto transatlantico che tenga conto anche della
politica da seguire nei confronti della Russia.
Deve cioè tener conto delle legittime preoccupazioni della Russia per la
sua sicurezza e interessi economici, garantendone il rispetto. Se
l’Occidente non riuscirà a dare a Mosca concrete garanzie, la crisi
ucraina potrebbe avere conseguenze disastrose all’interno della Russia,
bloccando l’europeizzazione dell’immenso paese. Ne potrebbero risultare
sconvolti gli attuali equilibri in Eurasia.
13 gennaio 2005
|