The Right Side of the Web
di Barbara Mennitti
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005
Negli Stati Uniti l’universo che si è sviluppato intorno a Internet è
stato uno dei canali decisivi per combattere il pensiero unico di
sinistra, imperante nei media e in alcuni settori dell’opinione pubblica
dagli anni Cinquanta in poi. Soprattutto fra i giovani che, almeno
all’inizio, erano i grandi fruitori del web. «Internet contribuisce a
sgretolare la facoltà dei tradizionali custodi della cultura di decidere
cosa è importante e quali sono le opinioni legittime». Questa frase di
Virginia Postrel, saggista e famosa blogger libertaria, descrive
perfettamente l’effetto dirompente che il web ha avuto
sull’establishment mediatico americano. Perché, al contrario di quanto è
accaduto in Europa e in Italia, la destra ha compreso subito le enormi
potenzialità del nuovo mezzo e non si è fatta battere sul tempo dalla
sinistra. Certo, non si può parlare di una maggioranza schiacciante di
presenze di destra sul web, come darebbero a intendere le costanti
geremiadi dei democratici, ma si può tranquillamente affermare che negli
Usa il cyberspazio pende leggermente a destra. E si tratta di un
universo molto variegato.
Le grandi fondazioni conservatrici e libertarie sono presenti ormai da
molto tempo sul web. Dal 1995, Townhall.com collega molte delle realtà
digitali della right Nation americana. Il sito della Heritage
Foundation, uno dei think-tank più autorevoli e influenti di tutti gli
Stati Uniti, è diventato un luogo di riferimento per chiunque voglia
tenersi informato, fare ricerche o approfondire temi di politica interna
o estera statunitense. All’indomani dell’11 settembre, la Heritage,
tramite il suo sito, mise a disposizione di tutti i giornalisti del
mondo un gruppo di esperti, disponibili a farsi intervistare per
raccontare la loro versione di quanto stava accadendo. Un vero esempio
di lungimiranza. Una presenza importante sul web hanno anche altre
fondazioni come il libertario Cato Institute, il Ludwig von Mises
Institute, l’Ayn Rand Institute, la Progress & Freedom Foundation, e il
neoconservative American Enterprise Institute for Public Policy Research
(Aei). Un gradino sotto le fondazioni vi sono i siti delle grandi
lobbies conservatrici, cioè di quelle istituzioni che esercitano
pressioni sull’opinione pubblica e sul Congresso a favore di una causa.
Dall’alto dei suoi tre milioni e mezzo di iscritti e del suo budget
annuale di oltre 80 milioni di dollari, la National Rifle Association, è
una delle più potenti, oltre che delle più antiche, lobbies presenti sul
web. Convinta del fatto che il possesso di un’arma sia una libertà
inalienabile dell’individuo che trae la sua legittimità dal secondo
emendamento della Costituzione americana, la Nra, presieduta dal
carismatico attore Charlton Eston, usa il suo sito web per diffondere le
sue idee ma, soprattutto, per monitorare le azioni legislative che
potrebbero limitare la libertà di possedere armi. L’American
Conservative Union è, invece, una delle più antiche lobbies
conservatrici, che si propone di elaborare e diffondere una piattaforma
di azione politica che riesca a raggruppare tutti i conservatori
americani. Dal 1971, pubblica una pagella annuale del “grado di
conservatorismo” di tutti i membri del congresso. Tutto questo e molto
altro si trova sul loro sito web.
I giornali e le riviste on-line esplicitamente di destra guadagnano
costantemente contatti. Front Page la rivista diretta da David Horowitz
che prende di mira la dittatura del politically correct, la campagna
contro la guerra e altre follie, conta un milione e 700mila contatti al
mese. Durante la guerra di liberazione dell’Iraq, oltre un milione e
400mila utenti si collegavano all’Opinion Journal, la pagina degli
editoriali del Wall Street Journal, dove il direttore James Taranto
nella rubrica “Best of the web” indicava quotidianamente cosa c’era di
interessante da leggere sul web. La National Review Online, con i suoi
aggiornamenti quotidiani, conta oltre un milione di contatti al giorno,
che nel periodo della guerra erano raddoppiati. «La Nro ha più lettori –
dice compiaciuto il direttore Jonah Goldberg – di tutte le riviste
conservatrici messe insieme». E la recensione di un libro sulla sua
rubrica, bisogna aggiungere, fa vendere più di quella su uno dei più
grandi quotidiani nazionali.
E veniamo al mondo dei blog, la cosiddetta blogosphere, che tanta
importanza hanno avuto nelle ultime elezioni presidenziali americane. Il
blog, come detto, è un sito di solito facente capo a un singolo che
decide di dare visibilità a qualcosa, di seguire una certa questione,
decide, insomma, di offrire una sua visione della realtà e della
politica. Qualche anno fa una cosa del genere era possibile solo per i
maghi dell’html ma oggi, con i nuovi programmi user-friendly, chiunque
sia capace di collegarsi ad Internet è perfettamente in grado di
costruirsi un suo blog a costi praticamente nulli. E infatti negli
ultimi anni ne sono nati in enorme quantità, soprattutto a destra, dove
si percepiva un vuoto da colmare. «Molti bloggers – dice Erin O’Connor
autrice di Critical Mass – si sentivano esclusi da istituzioni che
avevano adottato – esplicitamente o implicitamente – un’ortodossia di
sinistra». Un altro evento che ha spinto molti ad entrare nella rete è
stata la reazione masochistica dell’establishment mediatico americano
all’11 settembre. Il giornalista Matt Welsh dice: «Ho creato un blog il
16 settembre 2001, dopo aver letto per cinque giorni sui giornali i
vergognosi vaneggiamenti di gente come Naom Chomsky e Robert Jensen».
Come lui, molti altri hanno reagito alla lettura univoca dei media
cercando con rabbia uno spazio di dissenso. E questo spazio l’hanno
trovato su internet.
Proprio questo è stato uno dei punti di forza della blogosphere: la sua
capacità di decidere che un evento costituisse una notizia, in barba al
giudizio delle élite culturali, e di farlo rimbalzare da un sito
all’altro, di esercitare un moderno tam-tam informatico, riuscendo, alla
fine ad imporsi all’attenzione del pubblico. Perché quotidianamente le
storie del web vengono riprese dai giornali locali, da Fox News o dalle
trasmissioni radiofoniche di Rush Limbaugh e allora può accadere che
persino il New York Times sia costretto a turarsi il naso e a rimediare
a quello che, in gergo giornalistico, si chiama buco. Le redazioni dei
giornali e delle televisioni hanno ormai personale che ha il compito di
passare da un blog all’altro, anche per otto ore consecutive, alla
ricerca di storie da raccontare.
Nel caso di Drudge Report, forse il proto-blog più noto in assoluto che
raccoglie notizie e gossip politico, non si può più nemmeno parlare di
fedeli utenti ma di veri e propri addicts, drogati, per lo più
appartenenti al mondo del giornalismo, dei media e della politica, che
non riescono a sopravvivere senza la loro visita quotidiana. Creato dal
giornalista Matt Drudge, quello che ha accidentalmente scoperto lo
scandalo Lewinsky (e che si dichiara «un conservatore anti-abortista che
non vuole essere tassato dal governo»), Drudge Report è soprattutto un
filtro editoriale che collega ad altre storie e ad altri siti di
informazione e di opinione, oltre, naturalmente, ad ospitare i succosi
scoop di Drudge. Con un criterio simile sono costruiti anche
RealClearPolitics, FreeRepublic e Lucianne. Altri, invece, tengono più
l’impronta del creatore come Instapundit di Glenn Reynolds, considerato
il padre della blogosphere, il blog di David Frum, ospitato su Nro
insieme a The Corner e Kerry Spot, Virginia Postrel e
LittleGreenFootballs di Glen Johnson. Menzione a parte meritano i
vignettisti libertari oggettivisti Cox and Forkum che nel loro sito
mescolano blog e satira politica .
Una prova dell’onda d’urto dei blog l’abbiamo avuta nella campagna
elettorale appena conclusa e ha fatto vittime molto illustri. Pensiamo a
Dan Rather, il leggendario conduttore del programma “60 minutes” in onda
sulla Cbs, che aveva presentato lo scoop destinato a rovesciare le sorti
della corsa alla Casa Bianca. Era lo scorso settembre, quando Dan
Rather, al colmo dell’indignazione, sventolava davanti alle telecamere i
famosi “documenti scomparsi” sul servizio militare del presidente Bush.
Si trattava dei memorandum privati in cui il colonnello Killian, defunto
da circa un ventennio, lamentava le pressioni ricevute per accordare un
trattamento di riguardo al giovane Bush. Che, insomma, si sarebbe
imboscato mentre il prode Kerry rischiava la vita nelle paludi del
Vietnam. Tutto molto edificante se non fosse che, a parte macroscopiche
incongruenze di sostanza con le quali non vi tedieremo, le lettere
apparivano un po’ strane. Tanto strane che Scott Johnsons, avvocato di
Minneapolis e coautore di Powerline, decide di linkarli sul suo sito.
Scatenando una valanga, perché quelle lettere evidentemente non potevano
essere state scritte con una macchina da scrivere degli anni Settanta.
La notizia, quasi troppo bella per essere vera, rimbalza da un blog
all’altro, finché Glen Johnson, quasi per scherzo, apre Microsoft Word
e, senza nemmeno cambiare una singola impostazione, riproduce le lettere
del colonnello Killian tali e quali. Un falso e pure fatto male.
Quando la notizia viene ripresa dal Drudge Report la bomba esplode: in
rapida successione appare su Fox News, New York Post, Abc, Washington
Post e una miriade di testate locali e nessuno può fare a meno di notare
che si tratta di un falso fin troppo evidente. Dopo un lungo e piuttosto
avvilente rimpallo di accuse su chi ha truffato chi, a novembre giunge
la notizia che in primavera l’esimio Dan Rather andrà in pensione. Mica
male per dei ragazzini in pigiama!
9 febbraio 2005 |