Dacci oggi la nostra destra quotidiana
di Stefano Magni
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005
Autobombe, rapimenti, decapitazioni, guerriglia… Ma c’è almeno qualche
buona notizia dall’Iraq? Sì, ci sono anche buone notizie: c’è quella di
un popolo intero che si sta registrando per le sue prime libere
elezioni, per esempio. Non sono notizie che si trovano spesso sul New
York Times, o sul Washington Post, ma sul Wall Street Journal sì. Le
riporta, settimanalmente, l’editorialista Arthur Chrenkoff. Mancano
informazioni su ciò che accade quotidianamente in un regime chiuso come
la Corea del Nord? Di solito, di quel paese si parla solo quando
minaccia test nucleari. Però, cercando bene, si trovano anche notizie
come quella dei dipinti “scomparsi” del Beneamato Kim Jong Il, con tanto
di citazioni dalle proteste delle autorità che, senza timor di passare
per ridicole, giudicano il gesto come «un folle tentativo di far
scendere il sole dal cielo». Anche in questo caso, l’episodio è
difficilmente rintracciabile in grandi quotidiani mainstream, ma sulla
rivista News Max sì. E ancora, dove mai si può leggere un titolo come
“Arafat: Tramonta un terrorista”? Su Front Page Magazine, dove analisti
seri e documentatissimi non lesinano giudizi espliciti anche molto
violenti nei toni.
Dietro l’America buonista, al di là di una stampa tradizionalmente
liberal, oltre a cronisti d’assalto resi celebri dal cinema per aver
incastrato il repubblicano “guerrafondaio” Richard Nixon e aver
rischiato la vita per mostrare gli orrori compiuti (solo ed
esclusivamente) dai dittatori di destra anti-sovietici, c’è anche
un’altra stampa, aggressiva, curiosa e documentata: è la stampa
conservatrice. Sono giornali e riviste, del tutto indipendenti o legate
a think-tank (ma non a partiti politici o a istituzioni governative),
lette da un’America che vuole informarsi, ma non fermarsi di fronte alla
solita visione del mondo liberal. Il giornale più famoso fra questi è
sicuramente il Wall Street Journal (WSJ), il grande quotidiano economico
che è nato nel 1902 e non ha mai cambiato linea. «Nei nostri editoriali
non abbiamo alcuna pretesa di essere al di sopra delle parti – scriveva
sul WSJ nel 1951 l’editorialista premio Pulitzer William H. Grimes – i
nostri commenti e le nostre interpretazioni provengono da un preciso
punto di vista. Noi crediamo nell’individuo, nella sua volontà e nella
sua decenza. Noi ci opponiamo a qualsiasi violazione dei diritti
individuali, provengano esse da monopoli di imprese private, monopoli
dei sindacati, o da un governo troppo invadente. La gente potrà anche
dire che siamo conservatori o perfino reazionari. Non siamo molto
interessati alle etichette, ma se proprio ne dovessimo scegliere una,
diremmo che siamo radicali. Radicali tanto quanto la dottrina
cristiana».
Il WSJ nacque e crebbe grazie al talento di editori quali Thomas
Woodlock, che lo fondò, e Bernard Kilgore che, dal 1941 al 1967, portò
la sua diffusione da 33.000 a più di 1 milione di copie vendute ogni
giorno. Oggi è il quotidiano economico di riferimento in tutto il mondo,
è il giornale statunitense più venduto in assoluto (circa 1 milione e
800 mila copie ogni giorno) con edizioni anche per l’Europa, l’Asia e
l’America Latina. è un prodotto del libero mercato e non ha mai
rinnegato quel sistema e i principi che lo sostengono: «I principi
fissati in quell’anno-spartiacque che fu il 1776 dalla Dichiarazione di
Indipendenza di Jefferson e dal Saggio sulla ricchezza delle Nazioni di
Adam Smith”» – come si legge nella dichiarazione di intenti degli
editorialisti del WSJ – «Così, lungo tutto il secolo scorso e in quello
che verrà, il giornale è dalla parte del libero mercato, contro la
tassazione predatoria e l’arbitrio dei re e degli altri collettivisti,
per l’autonomia degli individui contro le dittature, le masse e anche la
collera di maggioranze temporanee». E in effetti nel corso del secolo
scorso il WSJ si è schierato più volte contro le idee stataliste
dominanti del momento, persino contro la politica del New Deal di
Roosevelt, di cui nessuno, oggi come oggi, osa criticare le idee.
Lotta contro lo statalismo, difesa dei valori tradizionali, lotta contro
le tirannidi e contro le violenze rivoluzionarie all’estero sono state e
sono le caratteristiche principali del moderno movimento conservatore
americano e della stampa che gli dà voce. Sono riassunti tutti nella
rivista National Review, in cui gli editoriali sono firmati da illustri
membri di think-tank quali American Enterprise Insitute (come il
liberale cattolico Michael Novak, i neoconservatori Michael Ledeen e
David Frum), Hoover Institution (lo storico Victor Davis Hanson),
Heritage Foundation (il liberale Ariel Cohen), Cato Institute (il
libertario Dave Kopel), o outsider non convenzionali, come
l’imprenditore e diplomatico di origine pachistana Ijaz Mansoor. La
National Review, per questo, non è solo una rivista, ma un vero e
proprio serbatoio di idee, creato apposta da William Buckley jr. quasi
mezzo secolo fa per stimolare una rivoluzione conservatrice e cercare di
fermare la marea intellettuale liberal: negli intenti del suo fondatore,
la rivista non si sarebbe sottomessa, ma si sarebbe eretta «di fronte
alla storia, gridando stop!». Benché i punti di vista espressi nel
settimanale siano più di uno, la linea che emerge è prevalentemente
quella dei neoconservatori. Per merito dell’esperienza nelle attività
culturali, maturata nella sinistra da molti dei suoi membri, o dello
slancio intellettuale di un movimento ancora molto giovane e molto
creativo, i neoconservatori costituiscono il gruppo più piccolo e colto
della destra americana, ma anche quello che, in termini assoluti, è più
presente nel mercato delle idee. Per loro iniziativa è nata la
famosissima rivista di analisi Commentary, protagonista assoluta del
dibattito sulla Guerra Fredda durante la prima amministrazione Reagan
(primi anni ’80), che ha lanciato firme divenute molto celebri anche in
Italia, come Edward Luttwak.
William Kristol (figlio di Irving Kristol, il fondatore del movimento
neoconservatore) e Fred Barnes hanno fondato e dirigono Weekly Standard,
attualmente uno dei maggiori periodici di riferimento dell’opinione
pubblica conservatrice; David Horowitz, un altro ex liberal passato al
neoconservatorismo nei primi anni di vita del movimento, ha invece
fondato la rivista Front Page Magazine, che nella sua edizione online
pubblica notizie e commenti freschi, anche più volte al giorno,
concentrandosi soprattutto sui problemi legati al terrorismo jihadista e
al Medio Oriente, con commenti molto sinceri e senza compromessi di
autori che altre riviste non hanno il coraggio di ospitare, prima fra
tutte Ann Coulter, conservatrice a tutto tondo senza il “neo”. Lungi
dall’essere un sito “di nicchia”, Front Page, in certi periodi ha
raggiunto il record di 1.700.000 contatti al mese.
Ma le letture di “destra” non sono tutte e solo di commento. L’opinione
pubblica conservatrice può anche leggere quotidiani generalisti che
riflettono le sue idee. Se il New York Sun è l’ultimo nato, con le sua
analisi raffinate e il gusto per le battaglie culturali, il più diffuso
è il New York Post che, con il suo mezzo milione di copie vendute, si
inserisce tra i venti giornali più letti d’America. Presenta una vasta
gamma di notizie, anche se si concentra molto sulla cronaca di New York.
Sempre restando a New York, un caso particolare è costituito dal
trimestrale City Journal, nato come rivista di urbanistica (il New York
Post sostenne che era «il giornale da cui Rudolph Giuliani trae le sue
idee») e divenuto un altro punto di riferimento della cultura
conservatrice.
Il più famoso quotidiano generalista conservatore, anche se
relativamente giovane (c’è dal 1982) e poco diffuso (attorno alle
100.000 copie di tiratura), è comunque il Washington Times, diventato
celebre perché era l’unico che sosteneva l’amministrazione Reagan
contrapponendosi all’odio della stampa liberal della capitale. La sua
linea editoriale è tuttora molto aggressiva, dato che viene riservato
molto spazio alle inchieste e al giornalismo investigativo vero e
proprio, sia nella cronaca interna che in quella internazionale. Ma per
chi è appassionato di giornalismo d’assalto, la rivista di riferimento è
senz’altro The American Spectator, il giornale che più di tutti si è
scagliato a testa bassa contro Clinton durante lo scandalo Lewinsky.
Letteralmente perseguitato dal dipartimento della Giustizia negli ultimi
anni dell’amministrazione Clinton, il giornale era entrato in crisi, ma
nel 2002 è ritornato in prima linea con nuovi scandali, in America e
all’estero, da svelare e commentare con il suo linguaggio
“irresponsabile”. Per chi ama proprio il gossip politico di alto
livello, poi, il campione assoluto è il sito Internet del Drudge Report,
che nel 2002 ha raggiunto il record di 1 miliardo e 400 milioni di
contatti nel mondo. Tutto questo grazie ad Internet, la fonte del
successo di un’altra rivista conservatrice: NewsMax.com, che aggiorna
continuamente il suo sito con notizie fresche e commenti, anche più
volte al giorno.
Non ci sono solo conservatori nella “destra” americana: ci sono anche i
liberali classici e i libertari che con il loro liberismo integrale sono
avversari ancor più duri della sinistra statalista. Le loro riviste di
riferimento sono meno diffuse, ma ugualmente dinamiche. Fra gli ambienti
minoritari si distinguono soprattutto gli oggettivisti, seguaci della
filosofia individualista di Ayn Rand, che ai tempi della candidatura
presidenziale del repubblicano Barry Goldwater (1964) erano una
componente fondamentale della “destra” americana, mentre ora hanno una
ridotta influenza sui repubblicani. Ai giorni nostri, la loro rivista
più attiva è il The Intellectual Activist, fondata da Robert Tracinski,
nota per le sue posizioni durissime contro il “processo di pace” nel
Medio Oriente, le sue critiche feroci agli appeasers della politica
americana (compresi alcuni che qui in Italia sono considerati “falchi”)
e il sostegno di una linea di lotta intransigente contro le dittature
che sponsorizzano il terrorismo, il tutto condito dalla satira d’assalto
dei vignettisti Cox & Forkum, due tra i più popolari nel pubblico di
destra. Per questi motivi la rivista può essere scambiata per la voce
dei conservatori più estremi, ma non è così: nel momento in cui si parla
di ricerca scientifica e di libertà personale, spunta l’anima
individualista radicale, libertaria senza compromessi. Più pacata e dai
toni accademici, sempre in ambito oggettivista, è la rivista Navigator,
fondata per volontà del filosofo David Kelly. La rivista si occupa
soprattutto di temi di filosofia politica, morale ed estetica, oltre a
fornire un commento dell’attualità.
All’estremo opposto, invece, si schierano i paleo-conservatori (la Old
Right che non ha accettato il rinnovamento del movimento conservatore e
soprattutto condanna i neo-conservatori) e i paleo-libertari (quei
libertari che trovano i loro compagni di strada troppo “libertini” e
ritornano a valorizzare i valori tradizionali). Andando a vedere una
rivista paleo-libertaria come il sito Anti-War.com del giornalista
Justin Raimondo sembra di ritrovarsi in un sito pacifista dell’estrema
sinistra e solo in un secondo momento ci si rende conto della diversità:
è una rivista che sostiene fino in fondo il principio
dell’isolazionismo. è soprattutto difendendo l’isolazionismo e
condannando fino in fondo la politica estera dei neoconservatori, che i
paleo-libertari e i paleo-conservatori attaccano frontalmente la linea
dei repubblicani mainstream, accusati di essere dei falsi conservatori,
o meglio dei liberal travestiti. Ma comunque questo è l’unico punto che
i due gruppi hanno in comune, perché nelle riviste paleo-libertarie (una
serie di pubblicazioni scientifiche legate soprattutto al Mises
Institute, fra cui il Journal of Libertarian Studies) il bersaglio
principale è lo Stato, che si dovrebbe ridurre fino al suo scioglimento
in un mercato completamente libero, mentre nelle riviste
paleo-conservatrici uno Stato forte è invocato per proteggere l’economia
e le tradizioni americane. La rivista The American Conservative del
politico ultra-conservatore Pat Buchanan e il settimanale culturale The
Chronicles (legato al think-tank Rockford Institute) lanciano tali
strali contro l’amministrazione repubblicana da far impallidire anche i
liberal più estremisti.
9 febbraio 2005 |