Italia: le radici dell’egemonia progressista
di Alessandro Campi ed Eugenia Roccella
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005

Ma è davvero esistita, come si legge continuamente sulla stampa d’area moderata, una dittatura marxista sulla cultura italiana del dopoguerra? Ovvero, per dirla in termini meno grossolani, un’egemonia intellettuale della sinistra frutto di una strategia di politica culturale che ha avuto in Togliatti, sin dal secondo dopoguerra, il suo più autorevole regista? Tra gli esponenti odierni della destra politico-culturale italiana, nelle sue diverse anime, sono davvero pochi coloro che nutrono dubbi in proposito: la storia culturale dell’Italia repubblicana è stata negativamente segnata dal controllo ferreo che il partito comunista, forte degli insegnamenti gramsciani, è riuscito ad imporre nel corso degli anni sugli apparati culturali del paese (dal cinema alle case editrici, dall’università alle redazioni dei giornali). Una morsa fatta di ostracismo nei confronti del pensiero non allineato e di vere e proprie censure, di volgarizzazioni storiografiche e di parole d’ordine continuamente proposte, dalla quale ci si è potuti liberare, ma non del tutto, solo con la caduta del muro di Berlino, che ha rappresentato certo il fallimento di un modello politico, ma anche la crisi irreversibile di un sistema intellettuale, di uno schema di pensiero attraverso il quale leggere la storia, la società e gli uomini.

In realtà, un simile modo di intendere il rapporto tra politica e intellettuali nell’Italia del secondo dopoguerra, autorevolmente (ma strumentalmente) supportato dall’esperienza e dal ricordo dei molti transfughi che hanno abbandonato la sinistra nel corso degli anni, rappresenta, per dirla tutta, una rozza semplificazione. Come ha spiegato, tra gli altri, Pierluigi Battista nel suo Il partito degli intellettuali, la storia culturale italiana è stata, nel complesso, molto più articolata e pluralista di quanto solitamente si sostenga per ragioni essenzialmente politico-polemiche. L’area culturale marxista e di sinistra, per quanto vasta, organizzata e politicamente protetta, non è stata l’unica a contare in questo paese: basti pensare al ruolo svolto nel corso dei decenni dai molti “irregolari” – personalità riottose a schierarsi politicamente o a lasciarsi ingabbiare da un’ideologia – che ne hanno solcato la scena intellettuale, lasciando un’impronta che oggi ci appare assai più marcata e significativa di quella impressa dai molti “compagni di strada” di questo o quel partito, a partire ovviamente dal Pci. Più che l’esistenza di una ferrea egemonia culturale d’impronta marxista-comunista (che è comunque cosa diversa dalla “dittatura” che una parte del mondo culturale avrebbe esercitato su tutte le altre tradizioni di pensiero), le note negative caratterizzanti il ceto intellettuale italiano del cinquantennio repubblicano, in parte ereditate dal passato, sono state semmai altre: l’inclinazione al conformismo, la tendenza a percepire la cultura come prolungamento della lotta politica, lo “spirito di gruppo”, l’ambizione a considerarsi il sale della terra e a rivestire una funzione pedagogica.

Per la destra odierna, quello di una persistente egemonia culturale della sinistra costituisce, per certi versi, uno schema di lettura consolatorio: l’irregimentazione ideologica che il Pci avrebbe imposto agli intellettuali viene assunta come giustificazione storica per la propria odierna debolezza culturale. Debolezza che si concretizza nella difficoltà ad orientare il dibattito pubblico secondo i propri valori e il proprio linguaggio, nello sfilacciamento che caratterizza le diverse iniziative culturali che pure sono fiorite in quest’area nel corso dell’ultimo decennio, nella poca abitudine al confronto interno e, per finire, nella mancanza di un’elaborazione intellettuale autonoma ed originale in grado, tra le altre cose, di sostenere l’azione politica di una destra finalmente chiamata a misurarsi con responsabilità di governo.

Quel che più conta, tuttavia, è che si tratta di uno schema storicamente falso e parziale, non rispettoso nemmeno della propria memoria, nel senso che non tiene conto del lungo periodo in cui la cultura non riconducibile alla sinistra (cattolica, laico-liberale, conservatrice e neo-fascista) ha invece avuto nella società italiana una posizione dominante e di assoluto rilievo. Contrariamente alla vulgata odierna, infatti, è esistita una fase storica – quella compresa tra l’immediato secondo dopoguerra e la fine della stagione politica che va sotto il nome di centrismo – nella quale la cultura e gli intellettuali non riconducibili politicamente e idealmente alla sinistra in senso lato marxista costituivano tutt’altro che una realtà marginale e discriminata.

Per un complesso di ragioni – la principale delle quali è, ovviamente, la relativa vicinanza con l’esperienza storica del fascismo, all’interno della quale si erano formate almeno due generazioni di professori universitari, docenti di scuola, giornalisti e operatori culturali, fortemente e variamente impregnate di idealismo, storicismo, classicismo letterario, cattolicesimo politico e “spirito nazionale” – gli anni Cinquanta, segnati da un eccezionale fermento creativo e dai primi consumi culturali di massa (in particolare sul versante della stampa popolare), non corrispondono affatto al cliché che vuole l’Italia moderata, conservatrice, nazional-liberale e anticomunista storicamente incapace di operare, in modo innovativo e non dunque attraverso lo strumento della censura e del conformismo clericale, sul terreno dell’elaborazione e dell’organizzazione culturale, di competere con la sinistra sul piano delle idee e delle visioni del mondo e di reggere l’impatto con la modernità. Come si sa, la produzione editoriale della casa editrice Einuadi, divenuta il simbolo dell’egemonia della sinistra sulla cultura italiana, è stata passata al setaccio dagli studiosi. Nessuno, almeno sinora, si è invece mai preso la briga di studiare in dettaglio, tanto per fare un esempio, il catalogo della Longanesi, fondata nel luglio 1946: si scoprirebbe che non fu soltanto l’avventura solitaria di una personalità eccezionale, bensì l’espressione di un ambiente intellettuale (giornalisti, scrittori, artisti) vivace e privo di complessi di inferiorità, tanto culturalmente raffinato quanto politicamente spregiudicato, capace soprattutto di imprimere il proprio marchio sulla cultura dell’epoca.

Quanto al partito comunista guidato da Togliatti, retrospettivamente gli si attribuisce una capacità di indirizzo e di controllo sulla cultura che in realtà non ha avuto. Non c’è dubbio che Togliatti (memore della lezione di politica culturale del fascismo) si sia posto per tempo il problema di come coinvolgere gli intellettuali nella sua strategia tesa a radicare il comunismo nella tradizione storica nazionale (senza per questo rinunciare al legame politico-ideale con Mosca). Ma il Togliatti di cui spesso oggi si vantano la sensibilità intellettuale e la capacità di vedere lontano era, culturalmente parlando, un provinciale, un professore di liceo che si piccava di conoscere il latino, un dottrinario privo di reali curiosità, un ideologo incline alla censura per ragioni di ortodossia e di disciplina interna. Non è un caso che, a conti fatti, abbia quasi sempre combattuto battaglie culturali di retroguardia (emblematica quella contro le avanguardie artistiche), che gli hanno alienato a più riprese le simpatie degli intellettuali.

In realtà, l’egemonia della sinistra nell’ambito della cultura e della comunicazione, che pure è esistita per circa un ventennio, deve essere cronologicamente situata in una fase più avanzata della storia italiana. Non solo, ma difficilmente essa può essere considerata, come si ripete spesso, un fenomeno volontaristico, deciso dai vertici del Pci, studiato a tavolino e applicato con perfetta strategia. Il progetto gramsciano-togliattiano teso a costruire, con il supporto degli intellettuali, un “comunismo nazionale” ha potuto trovare una forma di attuazione pratica solo nel momento in cui si è profondamente snaturato; si è dunque realizzato in un clima storico differente da quello di partenza, e con esiti diversi da quelli previsti.

Il fatto politico che ha preparato il terreno per il cambiamento culturale è stato la fine del centrismo. L’ingresso dei socialisti al governo ha cominciato a erodere le fondamenta della cultura liberale e moderata e ha delegittimato gli “spiriti animali” reazionari che la fiancheggiavano e ne alimentavano la vitalità. Gli equilibri culturali del paese hanno cominciato a cambiare negli anni Sessanta, con l’avvento del centrosinistra. Ha avuto inizio allora, ad esempio, il tentativo di fare della Resistenza il mito di fondazione della Repubblica, cercando di duplicare l’operazione che era così brillantemente riuscita in epoca post-unitaria con il Risorgimento. Un certo uso pubblico della storia, di cui oggi qualcuno lamenta gli effetti, è cominciato all’epoca, con l’inserimento dell’educazione civica nelle scuole (e con l’insistenza sulla Costituzione) e con l’ampliamento dei programmi scolastici di storia, fino a toccare la contemporaneità. Ma nonostante i molteplici sforzi non si è comunque riusciti a costruire una retorica nazionale condivisa sul tema della guerra partigiana, che sarebbe nata, in chiave di antifascismo militante, solo nel decennio successivo.

Negli stessi anni cominciavano a penetrare nelle università le prime avanguardie di tendenze culturali destinate a demolire i vecchi equilibri del potere accademico. L’elemento che unificava questa new wave era l’impostazione antistoricista, che aggrediva alla base l’assetto del nostro insegnamento universitario e liceale, e minava quel predominio della tradizione idealistica che il marxismo non aveva mai davvero scalfito per tutti gli anni Cinquanta. A ben vedere, il materialismo storico – fulcro della lettura italiana di Marx – non si era mai posto in radicale antagonismo con la tradizione dominante, piuttosto ne aveva rappresentato il rovescio, un’interpretazione alternativa che in fondo adoperava gli stessi strumenti e ossequiava gli stessi padri. Si trattava, insomma, di una disputa accesa, di uno scontro anche mortale, che avveniva però nel medesimo salotto borghese, fra la mobilia di famiglia. Uno scontro che vedeva il marxismo comunista tutt’altro che vincitore.

L’avvento di nuove discipline e la trasformazione di altre (si pensi al terremoto avvenuto nell’ambito della linguistica con l’introduzione della semiotica), la fortuna dello strutturalismo, nella critica letteraria come nell’antropologia culturale, la diffusione delle teorie psicanalitiche freudiane e postfreudiane, insomma, tutto il fermento culturale ed artistico che ha segnato i “favolosi Sessanta” ha dato a quella tradizione (conservatrice e liberale, ma anche cattolico-nazionale) un colpo da cui non si è più ripresa, non avendo essa colto per tempo, evidentemente, la novità della sfida. C’è stata un’irruzione quasi contemporanea, sulla scena culturale, di testi, metodologie critiche, pensatori prima noti solo a pochi specialisti: Saussure e gli strutturalisti di Praga, i formalisti russi e Lévi-Strauss, Freud e la scuola di Francoforte. Mode culturali, orientamenti di pensiero, che la cultura di destra, nelle sue diverse anime, non è stata capace di affrontare criticamente o di rielaborare e assorbire secondo i propri criteri.

Il cambiamento di clima politico e il sommovimento nella cultura alta e negli ambienti accademici, però, hanno creato soltanto le premesse del grande slittamento a sinistra del mondo intellettuale, che si è realmente compiuto solo a partire dai primi anni Settanta. Il motore trainante del nuovo equilibrio, ciò che ha realmente condotto alla nascita di un’egemonia non comunista, ma genericamente “progressista”, fortemente connotata in una chiave generazionale più che partitico-ideologica, è stato un fenomeno politico e sociale imprevisto, e nemmeno tanto amato da parte del Pci: la nascita del movimento studentesco nel ’68. Un fenomeno difficile da descrivere in modo preciso, perché multiforme e sfrangiato, diviso tra falsa coscienza ideologica e reale efficacia culturale, tra gli obiettivi che si era dato (la “rivoluzione” politico-sociale) e i traguardi del tutto diversi che ha alla fine conseguito (la conquista degli apparati culturali). A noi, però, interessa solo coglierne alcuni aspetti utili per il nostro discorso. Il primo è la fine dell’università come luogo di formazione e selezione della classe dirigente e dell’élite culturale. La scuola di massa disarticola dall’interno la compattezza del sistema formativo e della riforma Gentile, scardinandone proprio la capacità selettiva. Si interrompe così la catena di cooptazione tra maestri e allievi, e si crea una profonda e improvvisa discontinuità, all’interno della quale si è inserito un ceto intellettuale in gran parte di provenienza politico-militante che ha finito per determinare, su vasta scala, i nuovi rapporti di potere culturale che hanno caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta.

L’altro elemento da prendere in considerazione è la rivoluzione delle forme e delle reti della comunicazione, la “presa di parola” di nuovi soggetti fuori dai luoghi istituzionali, secondo schemi innovativi. Soggetti prima esclusi dal dibattito politico e culturale, scelgono nuove sedi per il discorso pubblico, portandovi dentro tematiche censurate o considerate impolitiche (dalla sessualità all’ecologia) e ogni genere di modalità espressiva (dal fumetto alla canzone d’autore). Scuole, università, piazze e altri luoghi non canonici costituiscono una sorta di sistema capillare parallelo: basti pensare al ruolo avuto dai cineclub, fioriti in ogni città. Ogni luogo in cui è possibile l’aggregazione, diventa sede di dibattito: nascono come funghi i collettivi (di quartiere, di fabbrica, di scuola, eccetera). Una rete alternativa che nel corso degli anni Settanta si consolida attraverso le radio libere, con la loro straordinaria funzione di tam-tam metropolitano. Con l’eccezione di alcune frange giovanili (si legga, in proposito, Fascisti immaginari di Luciano Lanna e Filippo Rossi), alla destra culturale sfugge, in questo periodo cruciale, l’importanza dei cambiamenti che si realizzano nel dibattito culturale, nei linguaggi espressivi, nelle forme di trasmissione del sapere, cambiamenti che non incidono solo sulla sfera della cultura elitaria ma anche sulla dimensione dell’immaginario, della conoscenza diffusa e del senso comune, determinando nuovi equilibri e nuove sensibilità.

Questo fiume in piena, che ha avuto la forza autonoma di radicarsi a livello di apparati culturali e di costruire autonomi canali di comunicazione, ancora una volta ha poco a che vedere con il comunismo. La storia del giornalismo italiano offre un chiaro esempio di come, dove e secondo quali princìpi ispiratori si è dislocato il nuovo potere culturale. L’unica testata sopravvissuta (del resto sempre faticosamente) all’epoca dei movimenti è il Manifesto, nato da una frattura del gruppo dirigente del Pci. In realtà, il quotidiano che più autorevolmente ha assorbito e rielaborato l’eredità del ‘68 è stato la Repubblica, fondata da un tipico esponente dell’area liberal italiana, erede di un giornalismo le cui ascendenze risalgono a Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, nomi non certo di estrazione culturale comunista. È lì che sono confluiti non casualmente molti protagonisti della sinistra extraparlamentare e della stagione movimentista. Repubblica è infatti il giornale che ne ha seguito l’itinerario negli stili di vita, nella selezione dei consumi culturali (libri, vini, cibo, musica, turismo “intelligente”), nelle idiosincrasie e nei gusti, secondo una traiettoria esistenziale e politico-intellettuale che ha visto affermarsi, sulle ceneri di un comunismo in realtà mai divenuto egemonico, un misto di radicalismo borghese e di progressismo “culturalmente corretto”, disposto ad allinearsi all’onda del tempo in ogni sua manifestazione e senza alcun filtro critico. Nel frattempo, l’Unità, unico quotidiano di partito a raggiungere un tempo una diffusione rispettabile, ha subito un crollo di vendite, è stato chiuso e poi riaperto affidando la direzione a un esemplare classico dei salotti radical-chic, da sempre legato alla famiglia Agnelli.

Si può, in questo quadro, adoperare ancora il concetto di egemonia per indicare il visibile squilibrio nella mappa del potere culturale e mediatico tra destra e sinistra? Si può fare, a patto di capire che questa tarda vocazione egemonica non ha nulla a che vedere con il progetto di Gramsci o di Togliatti, o con i fallimentari sforzi zdanoviani di Alicata. Si tratta piuttosto, visto con l’occhio di oggi, di una sorta di “lotta di classe a Beverly Hills”, che ha visto affermarsi, a partire dagli anni Settanta e dalla stagione dei movimenti, una cultura genericamente laico-progressista e un ceto intellettuale autoreferenziale, come tale marcatamente intollerante verso tutto ciò che avverte come estraneo a sé. Un fenomeno riscontrabile in quasi tutto il mondo occidentale, che non oppone chi ha idee a chi non ne ha nessuna, ma che invece oppone chi ha forza di rappresentazione culturale a chi ne ha meno.

Le cose però cominicano a cambiare. Le recenti elezioni americane, sottovalutate dalla sinistra italiana hanno segnato una inversione di tendenza che trascende il duello Kerry-Bush e investe anche la situazione europea. Dopo tanto predominio mediatico e culturale le parole d’ordine della sinistra progressista e politicamente corretta appaiono usurate, e quel che più conta, ormai inadeguate. Quella parte di società che non ha avuto voce, perché non aveva autonoma capacità espressiva né accessi agli strumenti di comunicazione, comincia a cercare il modo e le occasioni per dire ciò che le sta a cuore, per difendere le cose in cui crede. Come negli anni Sessanta si è creata una nuova frattura tra élite intelluali e settori sociali tradizionalmente silenziosi che si sentono esclusi. Ci sono dunque le condizioni per una nuova “presa di parola”, per un cambiamento di rotta che rovesci le situazioni.

Ciò significa che la scommessa odierna della destra, a fronte di una sinistra forte della propria capacità a muoversi con disinvoltura (e spregiudicatezza) in tutti gli ambiti di discussione e a “fare massa” a difesa delle posizioni acquisite, è quella di riappropriarsi della sua capacità di fare altrettanto. Il che significa operare sulla scena culturale e mediatica senza alibi, riserve mentali o complessi di inferiorità, esporre senza paure i propri convincimenti sui diversi temi che compongono l’agenda pubblica, rielaborare criticamente la propria tradizione, utilizzare tutti gli strumenti di elaborazione e trasmissione del sapere. Non con l’obiettivo, beninteso, di stabilire una nuova e diversa egemonia, ma con l’ambizione di imporre un autentico pluralismo delle idee.

23 febbraio 2005

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