Ritorno all’Occidente
di Giovanni Orsina
da Ideazione, gennaio-febbraio 2005

La contraddizione dell’Occidente è nell’impossibilità che esso, come del resto qualsiasi altro ordine sociale, faccia del tutto a meno di radici, ovvero di valori assolutizzati e perciò sottratti all’arbitrio dei singoli e magari anche della collettività, e nella contemporanea estrema debolezza di quelle radici. Estrema debolezza di quelle radici perché all’inizio del terzo millennio il relativismo si presenta come un punto di non ritorno. La denuncia nicciana della «morte di Dio» e la constatazione weberiana che il mondo è ormai disincantato sono vecchie di un secolo. I tentativi novecenteschi di sostituire a Dio la politica o la scienza sono finiti come sappiamo. Il postmodernismo ha decostruito radicalmente la realtà, sciogliendola nelle interpretazioni soggettive e nei rapporti di potere; e pure se si è spinto troppo oltre, perché la realtà una sua “durezza” malgrado tutto la conserva, ritengo che sia tuttavia nel giusto quando sottolinea come nella conoscenza umana la struttura interpretativa finisca per prevalere sull’oggetto o fenomeno interpretato. In termini liberali, infine, il relativismo non è soltanto un dato di fatto, ma un dato di fatto in larga misura positivo: fra le tante vie che possono condurre al liberalismo quella gnoseologica, che fonda l’autonomia degli individui sull’incertezza della conoscenza, rimane la meno attaccabile. Nel relativismo assoluto, d’altra parte, dubito che l’ordine sociale dell’Occidente potrebbe sopravvivere. O meglio, e per porre la questione in termini meno generali e più concreti: credo che sia giunto il momento di chiedersi se, negando radicalmente ogni tipo di assoluto, l’Occidente non stia mettendo a repentaglio i benefici morali e materiali acquisiti con la modernità, e rischiando perciò di generare un futuro prossimo nel quale gli individui in carne e ossa vivranno peggio di quanto non sia oggi. A mio avviso si tratta di un rischio reale: pure senza voler indulgere al catastrofismo, mi pare legittimo il dubbio che l’opera di liberazione dell’individuo da ogni vincolo stia erodendo anche quelli senza i quali la libertà individuale non può più sussistere.

Fra i molti “vincoli necessari” dell’Occidente liberale desidero sottolinearne tre in particolare. Il primo, antico e ben noto, è quello per il quale una società aperta tutto può mettere in discussione tranne la libertà, e con tutti può dialogare tranne con chi di quella libertà intende privarla. Perché questo vincolo si attivi è necessario che la libertà sia considerata non un’assenza ma una presenza. Sia vista insomma non come una sorta di precondizione eticamente neutrale per l’esplicarsi di ogni valore, ma come un valore essa stessa: il valore non negoziabile sul quale si fonda l’intero ordine politico e sociale. Non sarà forse il caso di parlare di una “religione della libertà”, se non altro perché le religioni, dovremmo averlo imparato ormai, quando rimangono immanenti diventano piuttosto pericolose. Nei fatti, però, è di qualcosa di molto simile a una “religione della libertà” di cui si sta denunciando il bisogno: la necessità di assolutizzare quanto meno un principio, la libertà, ponendolo al di fuori della disponibilità individuale e sociale.

Ci sono poi una seconda e una terza questione che una società fondata sull’autodeterminazione individuale non può fare a meno di risolvere e che, trattandosi di questioni che si pongono a monte dei singoli individui e chiedono pertanto di essere almeno in parte assolutizzate, un relativismo radicale non le consentirebbe invece di risolvere. Una società liberale deve giungere a definire in maniera chiara e univoca almeno la nozione di “individuo”, e affrontare poi il problema di come sia possibile educare individui adatti a convivere secondo i principi liberali. Su entrambi i terreni si troverà a scegliere dei valori e ad imporli almeno in una certa misura ai propri associati come valori assoluti e non negoziabili. La definizione di che cosa debba intendersi per “individuo”, e di chi quindi abbia il diritto di essere protetto in quanto tale, non può ovviamente essere lasciata agli individui (a quali, se ancora non si sa chi e che cosa siano?), ma spetta necessariamente alla collettività, e sarà poi altrettanto necessariamente imposta alle minoranze che siano di diverso parere. Anche la formazione dei singoli non può che essere un processo in una certa misura autoritario, venga l’imposizione dallo Stato, dagli enti locali, dalla chiesa o dalla famiglia. Qualsiasi sia il suo orientamento, insomma, la formazione non potrà essere neutrale rispetto ai valori, e dovrà inoltre essere sottratta al controllo degli individui (o meglio: dei “pre-individui”) che vi sono coinvolti.

Anche la società massimamente fondata sull’autodeterminazione, e che quindi meno si preoccupa di definire e imporre i propri valori, deve quanto meno assolutizzare l’idea di libertà, l’idea di individuo, le procedure attraverso le quali sono formati gli individui. Radicalmente negato il diritto divino, reso sostanzialmente impossibile il diritto naturale (quale mai, nel momento in cui la natura diviene un costrutto culturale?), questi “vincoli necessari” dell’ordine occidentale possono trovare un loro fondamento soltanto nella storia o nel potere.

Il potere

La sinistra del politicamente corretto ha scelto la via del potere. Se come sostiene la riflessione postmoderna tutto è retorica, costrutto ideologico privo di alcuna fondazione forte o debole, e a contare sono solamente i rapporti di forza, ossia l’uso che dell’ideologia fanno i potenti al fine di rafforzarsi e gli impotenti al fine di indebolirli; in altre parole, se l’idea marxiana di falsa coscienza si dilata fino a negare che sia in alcun modo possibile una coscienza vera, allora l’unica via percorribile è quella di impadronirsi del potere e di imporre i propri valori pur sapendo che sono arbitrari. La coscienza di quell’arbitrarietà impedisce che con le idee “altre” possa avviarsi alcuna forma reale di confronto, se non altro perché un confronto vero rischierebbe di scoprire le radici della propria scelta, denunciandone l’inconsistenza. I modi politicamente corretti di gestire l’“altro” sono quindi l’annessione buonista o la soppressione radicale. Chi è giudicato degno – perché debole, perché figlio magari degenere della stessa ideologia universalista che anima i detentori del potere, perché sollecita la cattiva coscienza dell’Occidente – è accolto anche se rappresenta una minaccia per i presupposti del politicamente corretto, nella convinzione che lui possa essere educato e la sua sfida si sciolga naturalmente, magari dietro corresponsione di adeguati benefici materiali. Chi è giudicato indegno, soprattutto se esprime le paure e i desideri profondi e inconfessabili dell’Occidente ricco, è emarginato e tacitato attraverso la delegittimazione radicale dei concetti e delle parole coi quali potrebbe esprimere il proprio disagio. L’“altro buono”, che è o interno ad essa ma ideologicamente progressista o esterno a lei, la società del politicamente corretto lo vezzeggia e, in sostanza, cerca di comprarlo. L’“altro cattivo”, che in genere è interno a lei e ideologicamente antiprogressista, lo demonizza e priva del linguaggio.

In entrambi i casi si tratta di operazioni di una violenza ideologica considerevole, come del resto è da aspettarsi da fenomeni la cui logica ultima, faut de mieux, si appoggia sul potere. Ma si tratta anche di operazioni straordinariamente pericolose. Che sia rischioso accogliere “buonisticamente” i propri avversari senza nemmeno avere la forza di mettere in discussione le loro premesse o di condannare con chiarezza quanto di quelle premesse è ritenuto inaccettabile, mi pare ovvio. Lo è ancora di più nel momento in cui quegli avversari si fanno portatori di valori non negoziabili, ossia nel momento in cui si dimostrano indisponibili a farsi comprare. Ma è forse ancora più pericoloso privare di espressione culturale e politica esigenze sociali reali e forti che provengono dal proprio mondo. Il politicamente corretto non capisce la paura dell’altro, non capisce l’egoismo neppure legittimo, non capisce l’esigenza di stabilità e identità. Non capisce ciò che è storico e concreto, ma solo ciò che è razionale e astratto. Fino a prova contraria, però, anche in epoca postmoderna si vive in contesti strutturati, e si hanno spesso esigenze antiche. La modernità non ha soffocato (del tutto) quanto di arcaico c’è negli esseri umani: e per quanto in certi casi possa trattarsi di pulsioni poco gradevoli, non giova negarle, ma bisogna gestirle. Le parti di realtà che l’ideologia del politicamente corretto nega, insomma, potrebbero un giorno prendersi la rivincita. E quel giorno, se nessuno prima di allora avrà fatto lo sforzo di incivilirle, si presenteranno crude e selvatiche. Qualche piccola rivincita del resto se la sono già presa: per esempio mandando Le Pen al ballottaggio con Chirac nelle ultime elezioni presidenziali francesi.

La storia

La seconda via che possiamo seguire per fondare l’ordine politico occidentale in un’epoca di relativismo – ed è a mio parere la via maestra – è quella della storia. Osservati da questo punto di vista i valori dell’Occidente non appariranno come valori assoluti, universali ed eterni, ma come il prodotto specifico di una vicenda storica concreta. Saranno insomma i principi fondativi che una società o un gruppo di società condizionate nel tempo e nello spazio si sono dati, e che hanno quindi il diritto, e il dovere, di reputare adatti a sé e degni di essere difesi, di considerare insomma “relativamente assoluti”.

La coscienza di quanto straordinarie nel panorama della storia umana siano queste società, quanto differenti da tutte quelle che le hanno precedute e ancora oggi le circondano (“straordinarie” e “differenti”, non “migliori”, poiché il relativismo non ci permette di ritenerle tali), può rafforzare questa prospettiva. È innegabile che l’Occidente abbia dato all’uomo una capacità di controllare il proprio ambiente e un livello di benessere materiale incomparabilmente superiore rispetto a quello prodotti da qualsiasi altra civiltà. Per quanto in astratto nemmeno questo possa fondarne la superiorità, si tratta di acquisizioni che sul terreno concreto hanno a tal punto migliorato la vita materiale delle persone in carne e ossa che difficilmente le si può mettere a repentaglio con leggerezza. Considerare poi la libertà non un diritto inalienabile di ogni individuo, garantito una volta per tutte chissà da chi e come, ma un fenomeno storico concreto, che ha avuto effimere fioriture ed è rapidamente sfiorito in altre epoche e luoghi e che soltanto da un paio di secoli e solo sulle sponde dell’Atlantico settentrionale (e in tempi più recenti nell’Europa centrale e meridionale, in alcune colonie “bianche” extraeuropee e in Giappone) ha cominciato a mettere radici un po’ più robuste, può rendere maggiormente avvertiti del valore della tradizione occidentale e della necessità quindi di difenderla.

Le opinioni pubbliche occidentali, o almeno alcune loro componenti forse non troppo consistenti ma quanto mai chiassose, non paiono invece particolarmente consapevoli di quanto storicamente condizionata, e perciò fragile, sia la libertà, insieme per altro a tutti gli altri valori fondanti dell’Occidente, la democrazia, l’uguaglianza, la tolleranza, il pluralismo. Si è prodotto così un paradosso che sarebbe pure comico se non fosse assai pericoloso: quello per il quale nel nome dei valori dell’Occidente sono condannate le società occidentali che a quei valori, per quanto imperfettamente, si ispirano, a tutto vantaggio di modelli sociali alternativi che coi valori dell’Occidente non hanno invece nulla a che vedere. È storia vecchia, del resto: una cultura razionalistica di matrice giacobina non educa a ragionare concretamente sul reale ma a confrontare il reale (o meglio: un’immagine ideologica del reale) con l’utopia e di conseguenza a denunciarlo senza pietà né condizioni. Ricondurre l’analisi dell’Occidente alle sue dimensioni storiche, sottolineandone l’eccezionalità nel panorama della storia umana e sottolineando anche quanto fortuita e precaria sia quella eccezionalità, significa al contrario far emergere come l’Occidente sia l’incarnazione meno imperfetta che storicamente si sia finora avuta dei valori occidentali; e significa poi affermare che la critica dell’Occidente nel nome dei valori occidentali non può arrivare a mettere in pericolo quella incarnazione, per quanto incerta e parziale essa sia. Questa è la forma più “forte” di orgoglio occidentale che ci sia dato avere nelle attuali circostanze culturali.

Fondare l’identità occidentale sulla storia, come identità non “migliore” in assoluto ma “buona” in circostanze assai precise di tempo e di spazio, significa recuperare al presente la tradizione occidentale. “Recuperare” nell’unico senso a mio avviso compatibile con quella tradizione, che pressoché unica nella storia è riuscita a dare una valenza istituzionale alla distruzione creativa, ovvero all’anti-tradizionalismo: recuperare come coscienza di radici e fondazione seppure debole di identità; non come ostacolo al mutamento, semmai come risorsa positiva con la quale fare i conti nel momento in cui si affronta il problema del mutamento, in una valutazione reale e non aprioristica dei costi e dei benefici dell’innovazione.

Che cosa debba intendersi per “tradizione occidentale” e quali siano le difficoltà implicite in un’operazione di “recupero”, sono questioni che trovano risposte diverse, e diversamente complesse, nel mondo anglosassone e nell’Europa continentale. La modernità è un prodotto nordatlantico: il capitalismo, i diritti di libertà, il governo rappresentativo sono scaturiti dalla storia inglese, per essere poi trapiantati nelle colonie d’oltreoceano. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, perciò, il rapporto fra tradizione e modernità (e quindi fra tradizione e libertà individuale) è di necessità molto meno conflittuale di quanto non sia in qualunque altra parte del mondo, e la fondazione di un ordine “aperto” radicato nella storia assai più agevole. Mentre sul continente europeo la rivoluzione francese produceva la reazione di Joseph De Maistre, in Inghilterra produceva quella di Edmund Burke: ugualmente fondata sull’idea che vi fosse un ordine naturale e divino, da un lato però non escludeva la possibilità, o anche la desiderabilità, del mutamento, dall’altro proprio in nome di quell’ordine riaffermava con chiarezza i diritti di libertà dei britannici e la centralità istituzionale del parlamento, diritti e centralità forse non ancora “moderni”, ma suscettibili di diventarlo attraverso un percorso evolutivo e non rivoluzionario. Non per caso l’Ottocento inglese è orfano di reazionari, pure se è riccamente popolato di conservatori; non per caso il Novecento inglese è assai povero di fascisti e, simmetricamente, di comunisti. E non per caso in Gran Bretagna come negli Stati Uniti conservatorismo e individualismo, seppure nient’affatto coincidenti, sono molto meno distanziati di quanto non lo siano nell’Europa continentale: perché gli inalienabili diritti dell’individuo appartengono alla tradizionale “specialità” inglese e americana che i conservatori intendono salvaguardare. Tutto questo (com’è per altro noto, ma in Italia troppo spesso dimenticato soprattutto quando si parla di America) rende quanto mai peculiari nel mondo anglosassone anche i rapporti fra la religione da un lato e le libertà politiche e civili dall’altro, poiché storicamente queste si sono appoggiate a quella e ne sono state legittimate, e non si sono dovute invece imporre contro di essa com’è avvenuto sul continente.

Nell’Europa continentale la modernità ha avuto un rapporto conflittuale con la tradizione, presentandosi spesso come un prodotto di importazione – importato, appunto, dal contesto atlantico – che ristretti gruppi dirigenti hanno cercato di imporre in modo più o meno brutale su società recalcitranti, assai spesso con strumenti dall’esplicito o implicito carattere rivoluzionario. Perché i valori dell’Occidente contemporaneo possano trovare radici solide nella tradizione occidentale, che non è certo lecito ricondurre alla sua sola versione angloamericana, pure se quella ne è una componente indubbiamente importante, è perciò necessario capire quale posizione, nella ricostruzione di questa tradizione, debbano occupare i gruppi, gli individui, i fenomeni che la modernità l’hanno combattuta o ostacolata. Di nuovo, non sto certo sollevando una questione nuova: Benedetto Croce non mi pare abbia cercato di risolvere un problema poi troppo dissimile, pure se il modo nel quale lo ha risolto (immaginare che la storia sia storia della libertà, dove però la libertà è molto più la libertà dello stesso divenire storico che quella degli individui in carne e ossa) non è certo scevro di contraddizioni e debolezze: basti pensare ai percorsi politici dei crociani, spesso così diversi, e così meno liberali, rispetto a quelli del maestro.A un livello sufficientemente elevato di astrazione, “pacificare” la tradizione occidentale è certamente più agevole. Osservata da una certa altezza quella tradizione mostrerà di meno le proprie fratture interne, e sarà invece soprattutto evidente la sua distanza dalle civiltà altre e di conseguenza la sua eccezionalità. Il caso angloamericano apparirà non come il frutto di una secolare vicenda nazionale, ma come la specifica incarnazione nazionale di una millenaria vicenda europea, fatta di classicità greco-romana, cristianesimo e scismi cristiani, separazione fra Chiesa e Impero, formazione degli Stati nazionali, umanesimo e imprenditoria mercantile, scoperte geografiche ed espansione coloniale. Fermo restando che nella vicenda della modernità almeno a partire dal Diciottesimo secolo l’area nordatlantica svolge su scala mondiale il ruolo del “primo motore immobile” (immobile non perché non muti, ma perché lo fa in condizioni di relativa stabilità), e rappresenta per i paesi esterni a quell’area un modello da imitare, non vi è d’altra parte dubbio che l’impatto dell’onda d’urto che genera è ben diverso nei paesi che con essa hanno percorso un lungo tratto di strada in comune, rispetto ai paesi che le sono del tutto alieni. Malgrado per larga parte dell’Europa continentale la modernità sia fino a un certo punto il prodotto di una spontanea spinta sociale e culturale, non si ponga in continuità con la tradizione ma in contraddizione con essa, e si presenti quindi effettivamente come il frutto di una sorta di “superego nordatlantico”, non vi è tuttavia dubbio che nell’Europa centrale, meridionale e occidentale quel “superego” può comunque essere percepito come il prodotto di una tradizione per moltissimi versi affine alla propria, e addirittura, quando la si osservi a un livello di astrazione sufficiente, della propria tradizione. Mentre al di fuori dell’Europa centro-occidentale il modello di modernità angloamericana non potrà che apparire più o meno, ma comunque notevolmente, alieno.

Se il nostro scopo è quello di irrobustire una radice tradizionale alla quale possano ancorarsi i migliori valori della nostra modernità sociale, economica e politica, allora salvaguardare e consolidare la consapevolezza dell’unità di fondo della vicenda occidentale e della sua assoluta unicità nel panorama storico mondiale diviene indispensabile. D’altra parte, sarebbe controproducente, e in definitiva impossibile, muoversi unicamente a un livello di astrazione così alto. Se sottolineassimo soltanto quanto in linea molto di massima rende l’Italia simile alla Gran Bretagna, la Francia agli Stati Uniti (simili per quanto sono diversi dalla Cina, dal Senegal o dalla Siria), rinunceremmo a molto di quanto ha reso ricca e pluralistica la tradizione occidentale, e soprattutto costruiremmo una narrazione troppo artificiosa per poter essere di alcuna vera utilità. Perché ragionare sulla storia dell’Occidente significa inevitabilmente ragionare sulle storie dell’Occidente. E ragionare sulle storie dell’Occidente significa in larga misura, anche se non soltanto, ragionare in termini nazionali. Di nuovo, non nell’ottica immediatamente contemporanea della difesa o promozione della nazione oggi, in questo inizio di millennio, ma nell’ottica del riconoscimento di una tradizione, ossia a partire dalla constatazione di quanto intimamente connesse siano la modernità e lo Stato nazionale, di quanto lo Stato nazionale, come realtà o come aspirazione, abbia contato dal 1789 al 1989, nella bisecolare età contemporanea. Costruire una tradizione occidentale significa quindi ragionare da un lato su quel che accomuna l’Occidente, dall’altro su quanto lo rende intimamente eterogeneo e differenziato. Ed è più sul secondo livello che sul primo, in particolare per quanto riguarda i paesi dell’Europa continentale, che diviene necessario affrontare il problema dell’antimodernità e degli antimoderni, e di come quelli possano essere integrati in una tradizione che li ha visti sconfitti.

Per costruire una tradizione capace di fondare saldamente una società aperta (soprattutto se una parte consistente di quella tradizione è con quel tipo di società affatto o in larga misura incompatibile) è necessaria un’interpretazione comprendente del passato. Un’interpretazione che legga il passato nei suoi specifici termini spaziali e temporali, che – per usare un termine molto fuori moda – cerchi di coglierne lo “spirito” ed eviti per quanto possibile di imporre su di esso sovrastrutture di natura universale (o presunta tale), siano esse esplicative o valutative. Un’interpretazione non (troppo) positivistica, che si preoccupi non tanto (o soltanto) di stabilire i nessi causali tra fenomeni tangibili e materiali, magari sulla base di norme scientifiche astratte, ma che legga nei valori, nelle paure e nelle speranze degli uomini di ieri, e cerchi di capirli a fondo per quanto essi hanno di storicamente e geograficamente unico. Un’interpretazione che non si preoccupi in primo luogo di assolvere, condannare né giustificare il passato sulla base dei valori odierni, facendo della storia un elemento di immediata legittimazione o delegittimazione di posizioni politiche e culturali contemporanee, ma sia capace di misurare la distanza fra il qui-e-ora di quel che interpreta e il qui-e-ora nel quale vive, cosciente di quanto parziali e provvisori siano l’uno e l’altro; e al contempo sappia pure che è dal qui-e-ora del passato che scaturisce, per il bene e per il male, il qui-e-ora del presente. Un’interpretazione che si confronti con la storia senza fregiarsi di una neutralità impossibile e perciò ipocrita, ma sia anche capace di maneggiarla con una certa pietas, o almeno evitando furori giacobini. Un’interpretazione che mostri il carattere inevitabilmente contingente dell’esperienza umana, ma che invece di vivere questa contingenza come un limite e un difetto, e di fuggire verso nuovi assolutismi immanenti necessariamente infondati e contraddittori, la viva come una risorsa e un’opportunità: un punto di partenza sul quale non si può rimanere fermi, ma che non si può nemmeno rinnegare totalmente. Un’interpretazione insomma storicistica, ovviamente nel senso crociano, non popperiano, del termine.

Leggere in questo modo il passato dell’Occidente significa anche poterlo affrontare evitando da un lato di sentirsi obbligati a manifestare ad ogni passo sensi di colpa più o meno sentiti nei confronti degli “altri”, e dall’altro di dover rimuovere quanto non rientra in una divisione politicamente corretta, e perciò manichea, fra i buoni e i cattivi. Fra i caratteri che dovrebbe avere una tradizione capace di dare alla società aperta occidentale le radici più robuste possibili, c’è la “sincerità”. Ogni tradizione è, in misura maggiore o minore, artefatta, ogni ricostruzione è necessariamente un’interpretazione. D’altra parte, l’utilità di una tradizione o di un’interpretazione quale elemento fondante di un ordine politico è inversamente proporzionale alla “percezione di falsità” che della tradizione o interpretazione hanno i membri di quella società politica. Detto altrimenti: quanto più la versione “ufficiale” della storia si distacca dall’esperienza che di quella storia hanno gli individui in carne e ossa, tanto più instabile sarà l’assetto sociale e istituzionale che a quella versione si appoggia. Ora, un’interpretazione politicamente corretta del passato, che al fine di distinguere i virtuosi dai reprobi lo giudichi non nei suoi termini ma nei propri, da un lato sarà costretta a rinnegare molto di quel che è accaduto (magari scusandosene umilmente di fronte a terzi), dall’altro a minimizzare o addirittura negare gli inevitabili misfatti dei virtuosi (e le inevitabili benemerenze dei reprobi), i rapporti altrettanto inevitabili, e inevitabilmente fitti, che legano i virtuosi ai reprobi, la presenza di vaste zone grigie né reprobe né virtuose. Ne risulterà una storia escludente, semplificata e strumentale che a molti sarà odiosa e a moltissimi suonerà artificiosa, e che difficilmente potrà fondare un ordine politico saldamente legittimato. Il caso della prima repubblica italiana mi pare da questo punto di vista quanto mai emblematico, pure se per l’Italia repubblicana l’ordine causale che ho illustrato sopra va almeno in parte rovesciato: la debolezza politica ha impedito una corretta metabolizzazione del passato tanto quanto la scorretta metabolizzazione del passato ha indebolito il sistema politico.

Tradizione, religione e libertà

Quale possa – debba – essere il rapporto fra tradizione, religione e libertà deriva a mio avviso in maniera abbastanza naturale da quanto detto finora. Se si osserva lo sviluppo storico dell’Occidente da un punto di vista sufficientemente elevato non si può a mio avviso fare a meno di constatare come fra la modernità occidentale e il cristianesimo vi sia un rapporto piuttosto stretto. I nessi sono molteplici e assai noti, dall’affermazione del valore e della dignità di ogni uomo alla conformazione lineare e non circolare della storia, dalla fede come conversione volontaria e non coatta alla separazione fra religione e potere politico. Pure non addentrandosi in questo argomento, sterminato e complesso quant’altri mai, è utile però sottolineare un punto di contatto fra cristianesimo e liberalismo a mio avviso fondamentale e tuttavia non sempre adeguatamente evidenziato, forse perché la parola che lo esprime, almeno sul versante religioso, è terribilmente fuori moda: “peccato”. Il fallibilismo, l’antiutopismo e l’antiperfezionismo sui quali si fonda la concezione liberale della libertà possono essere letti come nient’altro che la laicizzazione dell’idea di peccato originale – l’idea dell’intrinseca e irrimediabile imperfezione umana, tale che il paradiso è pensabile nell’aldilà, ma mai nell’aldiqua. Nel cristianesimo è insomma implicito un elemento radicalmente antitotalitario, e perciò liberale, la cui concreta attivazione storica, come si dirà fra breve, non è certo stata sempre automatica, e che anzi spesso è stato soffocato, e che però non ha in fondo mancato di attivarsi, seppure con tutte le cautele del caso, davanti ai concreti totalitarismi del Ventesimo secolo. Soprattutto se osserviamo la vicenda occidentale più da vicino, d’altra parte, dobbiamo constatare come il rapporto fra la modernità capitalistica, liberale e democratica e il cristianesimo non possa certo essere ricondotto integralmente alla filiazione di quella da questo – non sia affatto un rapporto di continuità, insomma. C’è su questo piano una differenza profonda fra un mondo anglosassone che è diventato liberale perché cristiano e un’Europa continentale che è diventata liberale almeno in parte malgrado fosse cristiana. Una differenza che dovrebbero tenere ben presente quanti si allarmano per il crescente peso politico della religione militante in America, ma anche chi crede che il caso americano possa essere d’esempio per il vecchio continente. L’Europa cattolica non può dimenticare il Sillabo: l’esempio forse più macroscopico di un divorzio fra Chiesa e modernità che a mio avviso è stato esiziale per entrambe, e che rappresenta tuttavia un dato di fatto col quale una società aperta che voglia fondarsi sulla tradizione deve fare i conti. La stessa consapevolezza dell’incorreggibile imperfezione umana di cui sopra ho notato la valenza antitotalitaria e quindi liberale, solo per fare un esempio, se la si osserva da un diverso punto di vista può diventare (e storicamente è spesso divenuta) una giustificazione per forme quanto mai rigide di controllo sociale e politico.

Per come ho cercato di impostare questo ragionamento, ad ogni modo, non importa poi molto se e quanto la religione abbia favorito o ostacolato l’ampliamento delle libertà individuali, il rafforzamento del controllo degli uomini sul loro mondo materiale, la diffusione della democrazia. O meglio: importa moltissimo, e andrà stabilito non a priori, bensì caso per caso con una ricerca storica che abbia i caratteri sopra ricordati. Qualsiasi sia il risultato, però, non toglierà al cristianesimo (e quindi anche al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica) la posizione di assoluta centralità che esso occupa all’interno della tradizione occidentale che ha generato la modernità. Per quel che si è detto nelle pagine precedenti, insomma, l’identità storica dell’Occidente non può non fondarsi anche sulla sua religione. Ho scritto “anche”, e certo sono convinto che sia “anche”, e non “solo”; tuttavia, è un “anche” molto forte: in una tradizione la religione occupa una posizione centrale, se non altro perché il problema della trascendenza, lungi dall’essere un elemento residuale come ha creduto e crede certo razionalismo, comunque lo si risolva rimane fondamentale nell’esistenza umana. Il cristianesimo, poi, non è soltanto il modo nel quale storicamente l’Occidente ha risolto il cruciale problema di Dio, ma – con tutto il suo seguito di crociate, inquisizione, guerre di religione, potere temporale, Sillabo – ha poi svolto un ruolo da protagonista nelle vicende dalle quali è scaturita la modernità occidentale. Chi ritenga necessario che quella modernità si (ri)fondi su radici tradizionali deve riconoscerlo come una delle maggiori fra quelle radici, e non può soltanto rileggerne il passato alla luce del presente né condannarlo gettandogli addosso le vesti dell’anacronistico avversario delle magnifiche sorti e progressive. Di nuovo: tutto ciò non vuole minimamente significare che considerazioni di natura religiosa debbano vincolarci in questo inizio di millennio o acquistare oggi una maggiore centralità politica o sociale, ma solo che esse occupano un posto di rilievo nella base storica sulla quale si fonda il nostro presente, e che il nostro presente ha il compito di reinterpretare in maniera ragionevole, non razionalistica, secondo quel che dettano le esigenze della contemporaneità. storia o nel potere.

Cos’è un individuo


Una società fondata sulla libertà individuale deve necessariamente porsi e risolvere il problema di che cosa debba intendersi per individuo. Non ho intenzione in questa sede di affrontare compiutamente né tanto meno risolvere una questione così ampia e complessa, che porta per altro dentro di sé un problema quanto mai attuale e scottante come quello dell’umanità dell’embrione, e uno forse meno attuale ma certamente ancora più scottante come quello dell’umanità del feto. Vorrei soltanto proporre alla riflessione due considerazioni che a mio avviso militano in favore della “non incompatibilità” fra il liberalismo e una visione tradizionale del problema, ossia una visione che si fondi su un’idea tradizionale, e perciò cristiana, di che cosa debba intendersi per “natura”. Aggiungendo però subito che non intendo con questo schierarmi a favore di quella soluzione – solo, affermare che essa non è necessariamente in contraddizione con i principi liberali e che, se si decide di abbandonarla, bisogna essere consapevoli del prezzo che si andrà a pagare.

Uno degli argomenti addotti a sostegno della tesi secondo cui un liberale non può essere antiabortista né avverso alla manipolazione degli embrioni (due questioni per molti versi assai differenti, che considero insieme per il molto che tuttavia hanno in comune, e soprattutto per amore di sintesi) è legata all’incertezza sull’umanità di quelli che, sempre per brevità, chiamerò “preuomini”. Poiché su questo terreno esistono convinzioni differenti, si dice da parte liberale, è meglio che la collettività eviti di pronunciarsi, lasciando ai singoli la libertà di regolarsi come meglio credono. A mio avviso questo è un ragionamento male impostato. La collettività non può fare a meno di decidere autoritativamente chi debba essere considerato un individuo e chi no, e imporre questa decisione alle minoranze che siano di diverso parere. Un liberale convinto dell’umanità dei “preuomini” può dunque legittimamente battersi perché entro i confini di quella decisione siano inclusi anche essi, e la loro tutela sia imposta pure a chi nega la loro umanità, salvo ovviamente accettare la decisione della maggioranza nel momento in cui dovesse essere differente. Insomma: un liberale che ritiene che l’aborto debba essere vietato per legge o che debba essere vietato qualunque intervento sugli embrioni nel nome dell’umanità dei “preuomini”, non è a mio avviso (troppo) più illiberale di un liberale convinto che nel nome dell’umanità dei negri ai razzisti debba essere vietato uccidere i negri; nel nome dell’umanità dei cerebrolesi ai purificatori della razza vietato ammazzare i cerebrolesi; nel nome dell’umanità degli ebrei agli integralisti islamici vietato sterminare gli ebrei.

Le società fondate sull’individualismo e sulla libertà individuale (anzi, che l’individualismo e la libertà individuale hanno elevato a loro pressoché unico fondamento) dovrebbero fare grande attenzione a non decostruire troppo la nozione di individuo, se non vogliono ritrovarsi a galleggiare sull’acqua. Che cosa debba intendersi per “natura”, come ho già accennato, è questione altamente culturale: e certamente culturale, e perciò contingente, discutibile e infondata, è l’idea che della natura ha la tradizione cristiana. E tuttavia, quella è la nostra tradizione, da lì viene l’Occidente: un ordine politico, sociale e culturale antropocentrico e prometeico, che è cresciuto intorno a una certa idea dell’uomo. Possiamo certamente cambiarla, quell’idea. È nella “natura” dell’Occidente cambiarla. Ma, a parte il rispetto che dovremmo alla nostra tradizione, dobbiamo anche essere consapevoli che stiamo abbandonando (o meglio: che abbiamo già abbandonato) una nozione discutibile ma stabile e storicamente legittimata di che cosa sia un individuo, e che abbiamo quindi indebolito la radice prima del nostro ordine politico e sociale. Scrive T. S. Eliot in un pagina notevole di The Hollow Men (1925): «Between the conception and the creation/Between the emotion and the response/Falls the Shadow […] Between the desire and the spasm/Between the potency and the existence/Between the essence and the descent/Falls the Shadow». Ecco: io non credo che in assoluto in quell’ombra non si possano mettere le mani. Solo – e soprattutto nell’ombra che cade fra la concezione e la creazione, fra la potenza e l’esistenza – mi pare lo si debba fare con molta, moltissima cautela.

Formare gli individui

Come ho già accennato nel primo paragrafo, per una società fondata sulla libertà individuale quello della formazione degli individui è uno dei problemi più delicati. È un’altra questione, poi, la cui soluzione non può essere affidata agli individui in questione, che a monte della loro formazione sono ancora, per definizione, dei “preindividui”, solo parzialmente intitolati a decidere per se stessi. E infine è un’altra questione tutt’altro che nuova: la cultura liberale, sia quella moderata, sia e soprattutto quella radicale, ha sempre avuto ben chiaro quanto la costruzione di una società liberale, ossia una società nella quale il livello di costrizione sia il minore possibile, passi per l’educazione dei singoli, ovvero la loro capacità di autolimitarsi.

Allo scopo di edificare una società di cittadini liberi, eguali e impregnati di “virtù repubblicana”, il liberalismo liberazionista di matrice europeo-continentale si è storicamente dato all’elaborazione di un progetto pedagogico che dall’educazione di quei cittadini eliminasse qualunque elemento dogmatico potesse limitarne l’autonomia di pensiero e di azione, a partire, ovviamente, dal dogma religioso. A parte il fatto che ben raramente è riuscito a realizzare questo progetto, per lo meno nella sua forma integrale, anche questo liberalismo radicale è comunque rimasto fortemente iscritto all’interno della tradizione occidentale, per quanto mutilata di una sua componente, o meglio presentata come una tradizione divisa e impegnata in una sorta di guerra civile. Oggi, mi pare, non è più così. Se fino a qualche decennio fa la formazione ai principi della libertà individuale avveniva entro il quadro culturale occidentale, sia pure, almeno in aspirazione, depurato di quanti suoi elementi fossero considerati pre- o anti-moderni, oggi essa esorbita da quel quadro, nel nome di un relativismo radicale per il quale ogni civiltà è ugualmente valida, e incentrare la formazione su una sola fra di esse rappresenterebbe perciò un’operazione di intollerabile autoritarismo pedagogico – l’imposizione di un punto di vista arbitrario e di una selezione arbitraria di valori.

A prescindere dal fatto che, come ho già accennato, la valenza ideologica dell’azione educativa è comunque non sterilizzabile, pure se quell’azione si fonda sui valori politicamente corretti dell’equivalenza, reciproca tolleranza e pacifica convivenza di tutte le culture, mi pare che l’incoscienza dell’importanza che non in astratto ma per il qui-e-ora dell’Occidente ha la tradizione occidentale, incoscienza dannosa sempre, lo sia particolarmente nel campo della formazione. Forse si è giunti al punto in cui la decostruzione e il relativismo sono non più propedeutici, ma dannosi ai valori di libertà e tolleranza che desideriamo consolidare e diffondere. E in cui bisogna perciò tornare indietro: tornare a formare gli individui sulla base dell’idea forte di identità occidentale fondata sulla tradizione. L’errore di fondo, di nuovo, è stato quello di condannare la contingenza e l’identità, la natura storicamente e geograficamente determinata di uomini e cose, presupponendo che contingenza e identità siano necessariamente strumenti di chiusura e aggressione. Non è così, o almeno non lo è necessariamente; e poiché come s’è detto contingenza e identità sono inevitabili, la via maestra non può essere quella di eliminarle, e deve piuttosto essere quella di valorizzarle, trasformandole da vincoli in basi di partenza. Educare un individuo entro un insieme ben preciso di valori ed entro una tradizione, arbitrariamente presentati come “giusti” e quindi tali da fondare un’identità forte, insomma, non significa necessariamente farne un intollerante. Non lo significa in linea generale, perché per poter tollerare l’altro, e colloquiarci, è necessario avere un senso robusto del sé e dell’altro – e soprattutto averlo avuto nella fase di formazione della propria personalità. Altrimenti non c’è tolleranza né colloquio, ma assenza di pensiero e confusione. Non lo significa in particolare, se quell’identità ha fra i suoi valori fondanti la libertà e la tolleranza. E non lo significa, infine, se quella tradizione non viene presentata come “giusta” in assoluto, ma giusta entro un ben preciso ambito cronologico e spaziale: “giusta per noi”.

È evidente che formare nella tradizione occidentale significa anche insegnare la religione occidentale. Non il pensiero religioso, la religiosità o la storia delle religioni: ma la nostra religione. Diversamente (forse) da quel che avrebbe potuto significare fino a qualche decennio fa, oggi, in società occidentali quanto mai diversificate e pluralistiche, restituire alla religione un ruolo nella formazione scolastica farebbe più bene in termini di costruzione di identità che male in termini di chiusura mentale e intolleranza. Non soltanto per ragioni di spazio, comunque, questa considerazione intendo lasciarla in una forma generica e astratta. Non sto insomma necessariamente dicendo che la religione debba essere insegnata nelle scuole di Stato (né che scuole di Stato debbano essercene, se è per questo), o che gli istituti cattolici vadano in un modo o nell’altro aiutati o favoriti, o che l’insegnamento della religione debba essere imposto a studenti e famiglie che non vogliono saperne.

Gestire l’“altro”


Una volta detto che i valori occidentali possono trovare le loro radici soltanto nella tradizione occidentale, è inevitabile incontrare due questioni ulteriori: da un lato quella della possibilità e opportunità che quei valori siano esportati; dall’altro di come possano essere trasmessi a individui e gruppi di origini non occidentali ma trapiantati in Occidente. Sradicare i valori dall’universale – o meglio, accettare l’idea che essi non siano più radicabili nell’universale – per radicarli nella contingenza storica e geografica condiziona non poco il modo nel quale si affronta poi il problema dell’espansione della modernità occidentale. Che essa sia affatto inesportabile mi parrebbe una conclusione affrettata, soprattutto alla luce di alcune realtà asiatiche, Giappone ovviamente in testa, pure se il quadro drammatico che presenta oggi il continente africano, in verità, fa sorgere più di qualche dubbio. Perché però nell’esportazione trovi radici ragionevolmente solide, è necessario che tenti di ridurre al minimo le frizioni con le tradizioni locali, e che al contrario di quelle tradizioni si faccia carico per quanto possibile. Detto altrimenti: rapidità, impazienza e giacobinismo non mi paiono compatibili con un processo di modernizzazione che giunga a risultati solidi e fruttuosi, ossia che riesca a costruirsi una non troppo debole legittimità storica. Al contrario, se modernizzazione dev’essere è bene sia una modernizzazione «moderata», che avanza distruggendo o perdendo meno tradizione possibile. Forse una riflessione più approfondita sul defunto impero britannico e sul suo modo di gestire le società colonizzate non sarebbe, in questa prospettiva, del tutto inutile.

Tradizioni e identità possono magari essere inventate, ma difficilmente le si riesce a imporre. Se i valori occidentali devono fondarsi sulla tradizione e non su principi universali né su una mera operazione di potere, non è allora opportuno né utile costringere persone di diversa provenienza culturale ad accettarli, pure se hanno scelto di vivere in Occidente. Detto altrimenti: operazioni come quella in virtù della quale in Francia è stato vietato alle scolare musulmane di indossare il velo mi paiono controproducenti. In linea più generale, credo ancora una volta che il modo anglosassone di gestire l’“altro”, ossia la convivenza di identità all’interno di una salda cornice giuridica, sia da preferirsi rispetto al modello francese di cittadinanza “forte”. Anche in questo caso mi sembra insomma che non abbia senso affrettare i tempi dell’integrazione, e che sia invece preferibile che essi seguano i propri ritmi autonomi. Ferma restando, ovviamente, la difesa intransigente della legalità da qualsiasi tipo di aggressione.

L’Occidente e l’Italia

Affrontare e risolvere il problema della compatibilità fra libertà individuale, democrazia, tradizione e religione è indispensabile in tutti i paesi occidentali, ma in quelli dell’Europa continentale più che in quelli anglosassoni, e in Italia più ancora che in quelli dell’Europa continentale. Storicamente e geograficamente, la Penisola è una marca di frontiera dell’Occidente, e non in una sola ma in due direzioni: verso sud e verso est. Che continui a guardare a ovest e a confrontarsi coi paesi occidentali è il sintomo di quanto forte abbia sentito e senta l’attrazione del «superego nordatlantico», ma è anche in larga misura una finzione, in un paese nel cui passato hanno passeggiato a lungo gli arabi e i bizantini, che per buona parte del suo territorio è immerso nel Mediterraneo e che per metà delle sue coste è bagnato dall’Adriatico. E poi il lungo dissidio fra Chiesa cattolica e modernità in Italia non poteva non pesare assai più che altrove.

Non è un caso, quindi, che da noi sia presente una robusta tradizione giacobina: gli intellettuali modernizzatori detestano il paese, convinti come sono che l’opera di civilizzazione non possa che avvenire contro di esso; il loro più grande rimpianto è quello “gramsciazionista” della rivoluzione mancata, e la loro più grande speranza quella di trovare un “manico” (ossia un ceto dirigente rivoluzionario) dal quale afferrare infine la Penisola per poterla rovesciare completamente. Il Risorgimento, la presa di potere del fascismo e la Resistenza hanno ciascuno a proprio modo (Risorgimento e Resistenza guardando al di là delle Alpi, il fascismo cercando invece un’originale via nazionale) cercato di essere quella rivoluzione, individuando il “manico” rispettivamente nell’élite liberale, nel partito fascista, nei partiti antifascisti. E fallendo in tutti e tre i casi – o almeno fallendo nei più radicali fra i loro obiettivi – perché sempre il paese si è preso la sua rivincita, trasformando la classe dirigente almeno tanto quella trasformava lui.

Il paese avrebbe piuttosto dovuto seguire, non solo sul piano pratico come in fondo è spesso stato, ma anche su quello culturale, una via “moderata”, ovvero una via di compromesso fra una modernizzazione di segno nordatlantico desiderabile e in fondo inevitabile e le molteplici tradizioni di un paese per tanti versi premoderno. Così non è stato, e le dinamiche economiche, sociali, politiche e culturali della Penisola l’hanno portata a una rottura con ogni probabilità irreversibile con la maggior parte della sua tradizione, soprattutto a partire dalla “svolta” degli anni Sessanta. Indebolita nelle proprie radici, l’Italia però non è mai davvero riuscita a radicarsi nell’Occidente. Nel suo inseguimento pare destinata ad arrivare sempre in ritardo, o meglio ad arrivare a un traguardo proprio nel momento in cui quello è messo in discussione da una svolta storica ulteriore: alla nazione e alla libertà qualche decennio prima che l’Europa delle nazioni e del liberalismo si suicidasse; alla democrazia nel momento in cui quella si confrontava con la sua eresia più pericolosa, il comunismo; al postcomunismo nel momento in cui il modello occidentale è indebolito dalle sue proprie contraddizioni interne. Così l’Italia non è mai riuscita a trovare un punto di equilibrio nel suo rapporto con l’Occidente, scissa com’è spesso stata fra una reazione di tipo nazionale e tradizionale all’arroganza del “superego nordatlantico” e il desiderio di recuperare prima possibile il tempo perduto, desiderio a tal punto intenso da farla diventare antioccidentale per eccesso di zelo, ossia per eccesso di fede nei valori occidentali interpretati nella loro versione più radicale.

Senza la minima pretesa di trovare una soluzione al complicatissimo “caso italiano”, alla luce di tutto quanto detto nelle pagine precedenti vorrei in conclusione indicare i due percorsi che potrebbero servire a irrobustire in Italia la libertà individuale. Il primo è senz’altro l’ancoraggio a un Occidente che sia a sua volta ancorato alla propria tradizione, e capace in quella tradizione di risolvere la propria crisi di identità. Il secondo è il recupero e la valorizzazione della specifica vicenda italiana. Per quanto in essa ha contribuito a fare dell’Italia una nazione moderna, e che troppo spesso una storiografia permanentemente alla ricerca di fallimenti e inadeguatezze, nostalgica delle rivoluzioni mancate, sembra dimenticare. Ma anche per quanto in essa ha rallentato o ostacolato la modernizzazione del paese: perché anche lì è la nostra identità, perché anche quegli elementi dobbiamo imparare a comprendere nel loro contesto, come parte di una storia che non va affatto neutralizzata, omogeneizzata né pacificata, ma assunta come la base sulla quale, nel bene o nel male, siamo tenuti a costruire il nostro futuro.

23 febbraio 2005

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