Il paese dei colletti blu
di Vittorio Macioce
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
E’ strano questo paese, anche nel calcio. Per anni ti sei chiesto perché
il talento più puro degli ultimi quarant’anni sia stato esiliato dalla
nazionale e dai grandi club. Non aveva ancora trent’anni e già era
finito. La storia avrebbe detto che non era proprio così. Ti sei chiesto
perché l’Italia di Lippi abbia alla fine ragione di quella di Baggio.
Qui si parla di talento e di creatività. E di come sia difficile in
Italia considerare l’utile anche dilettevole e viceversa. Si dice che
l’Italia sia la terra del talento, ma forse bisognerebbe aggiungere che,
in modo un po’ paradossale, non c’è mai stata troppa attenzione alla
cultura del talento. Se c’è il talento fiorisce da solo, contro il
mondo, contro l’ambiente. Se non è abbastanza forte: crepi. E’ una
selezione costosa, tende agli sprechi. Il vantaggio, forse, è che rende
chiaro un concetto: la creatività è faticosa. Non è un esercizio da
terrazza romana. Forse è tempo di capire chi sarà il protagonista del
capitalismo “intellettuale” italiano. Nelle “fabbriche”
dell’informazione, dell’editoria, dei genomi o della moda, della scienza
o della medicina, della televisione o delle tecno-comunicazioni sta
crescendo il numero di quelli che possono essere definiti
“metalmeccanici dell’era digitale”. In un mondo dove la competizione
richiede spirito imprenditoriale e conoscenza l’Italia risponde con una
proletarizzazione del lavoro intellettuale: pochi soldi, precariato,
salari legati all’anzianità e non al merito.
Questo è il contrario di ciò che Richard Florida, professore alla
Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha definito “ascesa della
classe creativa”. Il modello italiano abbatte i costi, ma rischia di non
avere futuro. Quello sognato da Florida è la fotografia di ciò che ha
fatto decollare la Silicon Valley californiana o la Route 128 del
Massachusetts. Singapore sta lanciando in questi mesi la nuova città
satellite One North (così chiamata perché un grado a nord
dell’equatore), progettata dall’architetto decostruttivista londinese
Zaha Hadid, come un magnete per far incontrare “una massa critica di
talenti, imprenditori, scienziati e ricercatori”. Le ragioni del
progetto sono state sintetizzate di recente dal primo ministro Goh Chok
Tong: “Oggi la ricchezza si produce generando nuove idee, più che
lavorando su idee altrui”. La prima fase di One North, che consiste in
un centro di ricerca nelle biotecnologie (denominato Biopolis) e in un
complesso dedicato alle arti, è già in funzione. Mentre è in costruzione
il nuovo distretto Fusionpolis: un complesso di grattacieli con uffici,
residenze, laboratori di ricerca, giardini pensili e spazi pubblici che
dovrebbero facilitare lo scambio di idee e conoscenza.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il progetto del Mediapôle de la
Roubine, portato avanti dalla città di Cannes in collaborazione col
Massachusetts Institute of Technology di Boston, utilizzando le nuove
tecnologie dell’informazione per modificare la struttura urbana e
renderla competitiva nell’attrarre la “nuova classe creativa”. Florida
oggi parla soprattutto di Seattle, Boston, Atlanta, Detroit o Cleveland
come “brain gain cities”, città che riescono ad attrarre cervelli,
giovani laureati, talenti in grado di scommettere su se stessi. Le
“brain drain cities” sono al contrario quelle da cui questi giovani
fuggono, impoverendone il tessuto sociale. Milano o Roma dovrebbero
essere delle “brain gain cities”, ma di fatto non lo sono. Il problema è
che restano città chiuse, con una rete di relazioni fatta di piccole
lobby, sociali e ideologiche, con una scarsa vocazione al dialogo. Il
loro obiettivo non è allargare il raggio delle proprie relazioni, ma
restare l’unico gruppo creativo, cancellando tutti gli altri. Se una
lobby “minore” propone un’idea interessante non si apre il confronto, ma
la lobby più forte farà in modo di cancellarne le tracce. Per gli
sconfitti la condanna è l’oblio. E’ una logica partigiana, che si porta
dietro un Dna da guerra civile permanente.
Occidente per principianti
Mantova. Festival della Letteratura. Ma davvero è questa la classe
creativa? Sono questi che si muovono come formiche tra le strade dei
Gonzaga? Cercano gli scrittori, lì c’è Micheal Faber, quello è Andrea De
Carlo, dicono che stasera suonerà qualcosa, il romanziere con la
chitarra. Vagano, per un autografo, uno scambio di parole, uno sguardo
illuminante. Peccato che qui, loro, gli scrittori sono come in gabbia,
controllati a vista dagli uffici stampa. Non li trovi più al caffè,
vicino a piazza delle Erbe. Neppure in qualche negozio, con la moglie,
per una gonna, una camicetta, un vecchio disco in vinile. Non sono più
allo stato brado, ma macchine da intervista, professionisti
dell’industria culturale, imprenditori della letteratura. Il lettore è
pubblico, è mercato, è cliente di un supermarket che ha la stessa trama
dei sogni. Sono loro, i consumatori di libri, la classe creativa?
Richard Florida, l’americano, ti risponderebbe di sì. Anche loro. Sono
autori e lettori. Sono quelli che frequentano teatri, mostre d’arte e
biblioteche. Sono quelli che lavorano in tv e vanno a cena nei locali da
Gambero Rosso.
Sono stilisti, sceneggiatori di videogame, architetti e web designer.
Sono quelli che stanno in prima fila sul treno del capitalismo
post-industriale: servizi e informazioni. Sono metropolitani,
flessibili, vagamente occidentali. Florida ti direbbe che il rapporto
tra produzione e territorio sta cambiando. Le aziende nascono o trovano
terra dove è più forte l’humus della classe creativa. Il talento non si
sposta dove c’è lavoro, ma è il lavoro che si sposta dove c’è talento.
Florida, poi, visto che sei italiano, ti sussurrerebbe un consiglio:
“L’Italia è il paese del genio, vero, così suggerisce la storia:
Leonardo, Raffaello, Fellini, Ferrari, Valentino. Ma qualcosa non
funziona. La classe creativa, da voi, quasi non c’è. Non regge il
confronto con il resto dell’Occidente. Secondo i miei dati siete
destinati al declino. Muoviti e cerca un luogo migliore”. L’ascesa della
nuova classe creativa: stili di vita, valori e professioni (Mondadori),
il saggio di Richard Florida, ha avuto in Italia un effetto ritardato.
E’ stato tradotto un paio di anni fa. E lasciato per un po’ di tempo su
qualche scaffale, a maturare. Poi si è cominciato a parlare di
creatività, come un senso di colpa o un’angoscia che avevamo dentro e
non riuscivamo a esprimere: un convegno a Sarzana, uno a Firenze, un
paio di mostre, una ricerca Eurispes.
Tutti con la stessa domanda: ma l’Italia è veramente in deficit di
creatività? Non è importante sapere quanto pesino le teorie di Florida.
Questa storia della classe creativa può essere anche un po’ vaga. Non è
neppure necessario dare retta ai dati Eurispes. Il problema, forse, è
più profondo. In Italia c’è un muro, ce lo portiamo nella testa, negli
anni, nel giorno dopo giorno. E’ quell’idea di immobilismo, di riforme
che non si chiudono, di perenne attesa, di lavori in corso, quel fango
che rende pesanti le scarpe e rallenta i passi. L’Italia è un paese
vischioso e lo è da tempo. è un paese di consorterie, di professioni a
numero chiuso, dove la mobilità è ancora insufficiente. Lo sappiamo
tutti, ce lo diciamo come un luogo comune: “Buona parte dei notai sono
figli d’arte”. E questo vale per medici, farmacisti, avvocati,
giornalisti, architetti, tutte o quasi le professioni liberali. Quando
c’erano ancora i posti in banca o al ministero si ereditavano. I
concorsi per insegnanti sono rari, e gli ultimi non liberavano cattedre,
ma speranze. Non è neppure facile spostarsi dalla periferia al centro.
Ci sono manager quasi quarantenni che sognano ancora di acquistare una
casa a Roma o a Milano. Gli altri sperano nella buona sorte dei mutui a
tasso variabile.
Anni e anni di mercato del lavoro blindato hanno spezzato questa
repubblica in due: c’è una generazione di superflessibili, con una quota
preoccupante di precari, e un’altra di ipergarantiti. I conti dell’Inps
e la spesa pubblica hanno fatto il resto. Così siamo qui a pregare e
pagare la gente di non andare in pensione e riducendo i salari
d’ingresso dei nuovi arrivati. Il fattore euro rende la situazione di
quest’ultimi ancora più imbarazzante. Il numero dei laureati è il 10 per
cento, un punto percentuale in più rispetto alla Turchia. Il numero di
occupati con laurea è il 6,5 per cento. In Irlanda è il 20,2 per cento,
negli Stati Uniti il 18,4 per cento, in Spagna il 15 per cento, in
Francia il 13,1 per cento. Eppure spesso restano a spasso. Nicola La
Gioia in Occidente per principianti, romanzo Einaudi appena uscito in
libreria, racconta con precisione la frustrazione di una generazione di
lauree svalutate: “Entri all’università ispirato da un confuso moto
ribellistico ereditato dal liceo, dalle tempeste ormonali in tragico
riflusso, da un Sessantotto inesistente ridisegnato ad arte dagli
ingegneri di una qualunque Warner Bros travestita da indie label […]. Ne
esci con una totale disillusione, la deferenza incondizionata, il
ricorso all’accattonaggio, all’intrallazzo, facevano già parte del tuo
codice genetico.
Avrebbero dovuto spedirci lontano. Un anno di Erasmus al Polo Sud. Sei
mesi nella pampa a pane e acqua. A dirigere il traffico nel centro di
Calcutta. Così, per espiare, dimenticare. E invece niente […]. Continui
a studiare in vista di un concorso. O fai un praticantato (gratis). O
uno stage (sempre gratis). O inizi a lavorare per una casa editrice
(quasi gratis). Tuo padre rappresenta spumanti per conto di una famosa
ditta del nord-est. Ha l’esclusiva di Lazio, Campania, Puglia e
Basilicata. Porta a casa ogni mese dai sei ai dieci milioni, nero
escluso. Ha la seconda media. Come è possibile che tu (si chiede senza
dirtelo), dottore in legge, patente classe B, vacanze studio in
Inghilterra, conoscenze informatiche (sì), capacità di relazione con
l’esterno (buone), globuli rossi (tanti), disponibilità agli spostamenti
(signorsì signore), come è possibile si chiede guidando da Frosinone a
Battipaglia la sua Fiat col campionario sbattuto dentro il bagagliaio,
come è possibile che una perfetta macchina da guerra benedetta dalle
istituzioni riesca a malapena a macinare i soldi per l’affitto? […]. Ti
affacci alla finestra e leggi in corpo cinquecento: E = MC2 = sei un
coglione”.
Creatività non olet
Un centro sociale a Milano. C’è un gruppo che sta suonando qualcosa di
meticcio tra i vecchi Litfiba e Shinead O’Connor. Alla voce c’è una
ragazza che tenta di imitare i vocalizzi afoni di Carmen Consoli. E’
abruzzese – dice – l’Aquila. Ha il piercing al naso d’ordinanza e i
capelli rosso tinto, ormai quasi castani. Ma è il volto che colpisce. Lo
hai visto nei paesini dell’Appennino, simile a quello di antiche
contadine, segnato da rughe appena accennate di freddo e di terra. Si
muove come loro, la stessa mimica, gli stessi passi, su un vestito che
stona. E’ di quella stessa razza, fiera, concreta, intelligente. E ti
chiedi come sia arrivata fin qua. Il centro sociale è uno di quelli di
moda. Ci sono i figli e le figlie della media borghesia, studentesse di
lettere imbronciate, fuoricorso annoiati. Un tempo Milano accoglieva gli
uomini di buona volontà della provincia e dei paesi, da qualsiasi angolo
d’Italia venissero. Erano la sua ricchezza, il suo motore. Se avevano
talento li faceva ricchi. Se ne avevano un po’ di meno li campava, con
dignità. Ora è un po’ più chiusa, più fredda, adagiata sui suoi uffici
che livellano tutto. E’ una città di colletti blu, mezzi operai, mezzi
impiegati, tutti irreggimentati. Il talento non lo trova e non lo cerca.
Non si sa perché ma si è diffusa una mala cultura, da decenni.
Si è cominciato a pensare che creatività e talento dovessero stare
fuori, in una emarginazione conformistica. Il talento – hanno cominciato
a dire – non è competizione. Non si vende e non si mette in gioco. E’
una sorta di dono divino che qualcuno sente, o sceglie, di aver ricevuto
in modo arbitrario e inconfutabile. Non ci sono prove, solo convinzioni.
D’altra parte, ti dicono, l’artista è stato sempre così, dannato,
povero, fuori dal sistema. E allora tu t’immagini un Modigliani nelle
strade di Parigi, con la tosse, la tubercolosi e la moglie in soffitta
al freddo. Solo che Modì le sue donne dal lungo collo avrebbe voluto
venderle, pregava gli amici di comprarsi qualcosa, passava come un vù
cumprà tra caffè e bistrot. La sua arte era in vendita. Solo che hanno
cominciato a comprarla troppo tardi, da morto. Questi qui invece no. Si
sono inventati che la creatività esiste solo fuori dal mercato. Anzi, è
l’antimercato. Ed è una scelta facile, perché nessuno ti può smentire.
Con una conseguenza culturale negativa: il talento è diventato qualcosa
di frivolo, improduttivo, un vestito, una maschera, una divisa per
sentirsi diversi. Gli alternativi in Italia hanno castrato il talento.
Lo hanno reso sterile.
Chi ha ucciso Werner Sombart?
Ci hanno fatto credere che la creatività sta fuori dal mondo, come la
vita nel mondo medioevale. Il talento non è di questa terra, perché non
si sporca le mani. Ci hanno fatto credere che è creativo vivere a
Bevagna e non a Milano. Scelta, quella di vivere a Bevagna, che può
essere saggia, tranquilla, bella, rilassante, estetica, salutare. Tutto,
tranne che creativa. La creatività, purtroppo, è fermento non quiete. Fa
male. Il talento è anche ossessione, egoismo, lavorare per anni sulla
stessa idea, senza soddisfazioni, senza sicurezza, con il rischio di
aver perso anni, amori, vita. La soluzione, l’idea, può arrivare in un
attimo, con un’intuizione, perfino in sogno, ma non è mai dietro
l’angolo. Friedrich August Kekulé trovò in sogno la formula del benzene,
ma dopo aver pensato per quindici anni a come legare sei atomi di
carbonio con sei d’idrogeno senza violare le leggi della valenza
chimica. Anche l’impresa, però, ha le sue colpe, grandi. Se una certa
cultura ha voluto ghettizzare il talento, l’azienda per lungo tempo ha
scelto di non considerarlo un elemento centrale del fattore umano. Un
po’ perché il nostro modello contrattuale tende a premiare l’anzianità.
Un po’ proprio per una cultura d’impresa con una vocazione
conservatrice. E’ la sindrome di Sanremo.
Le idee più gettonate devono essere orecchiabili, già sentite, con una
tendenza a non forzare mai la mano al mercato, ad assecondarlo verso il
basso, in una linea mediana che odora di mediocrità. Si vende giorno per
giorno, ma si progetta poco. Il rischio è sempre un po’ troppo
calcolato, e questo anche nei settori che dovrebbero segnare la carta
d’identità del neo-capitalismo: informazione, intrattenimento, industria
culturale (editoria, cinema, spettacolo, moda, design, pubblicità,
televisione). E’ un capitalismo che non ha più nulla di eroico. Non ha
l’ansia e il coraggio che Werner Sombart leggeva negli occhi del suo
imprenditore ideale, una sorta di Faust positivo che magari era anche
pronto a vendere l’anima al diavolo, ma per un desiderio di perfezione,
di eternità, con lo stesso spirito dell’artista che sogna l’immortalità.
Qualche tempo fa la figlia di un imprenditore che ha fatto la storia
dell’abbigliamento maschile raccontava come, partendo da sarto, era
andato alla ricerca del tessuto perfetto. Aveva studiato, sperimentato,
osato, senza mai raggiungere il suo scopo, ma avvicinandosi sempre un
po’ di più al suo sogno, la sua utopia. Quanta utopia c’è oggi nel
capitalismo italiano?
E’ la borghesia cha ha fallito. Ha svenduto idee, tradizioni, vocazioni
all’ideologia forte del momento. Ha educato, o lasciato educare, i suoi
figli prima ad un marxismo immaginario, fatto di libretti rossi e di
yoga, di viaggi in Oriente, di rivoluzioni ludiche, di salari garantiti,
di “manifesta pure, sfogati, tanto poi ci pensa l’amico di papà” e poi
al Grande Fratello, al quarto d’ora di celebrità, a Miss Muretto e Miss
Ragazza Immagine, alla famiglia come unica forma di welfare state. Prima
Che Guevara, poi le Veline. E’ la borghesia che si è accontentata e ha
chiuso le porte, che ha visto i pezzi più fragili della sua classe
perdere dignità economica e sociale. E’ sbarazzarsi di quelle poche cose
sulle quali si basava la propria fortuna: la dignità, il sacrificio,
quel rispetto un po’ sacro che aveva per la cultura. Questa borghesia fa
rabbia e per motivi diversi rispetto al passato: non perché provinciale,
non perché conformista o bacchettona, classista, perbenista, o grigia, o
parvenue. Questa è una borghesia ignorante, in un’epoca in cui non può
permetterselo. E’ una borghesia che non ha pensato ai suoi figli.
La fantasia al potere
California. Elisa ora ha 27 anni. Una mezza dozzina di stagioni fa vinse
Sanremo con Luce, un amore al tramonto a Nord Est. La ragazza viene da
una terra di mezzo, nelle terre di Gorizia. Ma l’inglese è quasi la sua
prima lingua. Il suo sesto e ultimo album, Pearl Days, è andato a
registrarlo e produrlo in America, da Glen Ballard, l’uomo che ha fatto
la fortuna di Aretha Franklin e Alanis Morissette. Un giorno lei ha
inviato i suoi vecchi album a Los Angeles e Ballard se ne è innamorato:
“è stata una rivelazione. Anche se è molto giovane ha un’anima antica:
sente profondamente la vita e il passaggio del tempo”. Quella di Elisa è
solo la storia di una ragazza che è partita da Monfalcone, ai confini di
queste terre, di questa storia, per sfidare il mondo. E’ solo il piccolo
simbolo di un’Italia che ha coraggio e una vocazione da spendere. Ma non
basta. Ciò che manca è altro. Manca una cultura del talento. Ed è qui
forse il problema che segnala Florida. Non al livello dell’arte e dello
spettacolo, ma nella vita quotidiana, nel sistema, nel favorire le idee
innovative rispetto ad altri valori. Basta andare in una qualsiasi
azienda e vedere come funzionano premi e punizioni. Il requisito
fondamentale non è l’originalità ma il rispetto preciso di ruoli e
consegne.
Navigare sotto vento, senza troppi clamori, seguendo le rotte già
esplorate resta ancora un buon consiglio per la carriera. Dall’alto non
arriva alcuna spinta per facilitare il dialogo tra i talenti, si
preferisce dividerli e metterli in competizione, sparpagliati non
rappresentano mai un problema. La logica del potere è quasi sempre
conservativa e chi è nei posti di comando tende a evitare avventure con
troppi rischi. Il prezzo della responsabilità è considerato troppo alto,
anche perché non c’è la certezza che in caso di successo si riesca poi a
ricevere vantaggi. E in tutto questo c’è una buona dose di diffidenza e
disillusione. E’ strano. La generazione che in questo momento ha in mano
le chiavi del potere viene in gran parte dalle esperienze del ‘68. Sono
quelli che trentasei anni fa parlavano di “immaginazione al potere”.
Ancora adesso ci stiamo chiedendo come siano riusciti a partire da lì e
arrivare poi esattamente dalla parte opposta. Hanno blindato i cancelli,
chiudendo le porte a chi veniva dopo. Hanno una spiccata tendenza alla
nostalgia. Sono convinti che il futuro si sia fermato ai loro vent’anni.
Soprattutto sono diventati i paladini di una “cultura del cinismo” che
riduce i rapporti umani alla logica del potere. Dopo aver bruciato tutti
i sogni del Novecento hanno alzato come vessillo la “real politik”. E
nessuno è stato più realista di loro.
14 aprile 2004 |