Innovazione per il mercato
intervista a Lucio Stanca di Adalberto Signore
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
Trentatré anni all’Ibm, colosso mondiale dell’informatica, non passano
inosservati. Lucio Stanca ci è entrato nel 1968 per uscirne nel marzo
2001 dopo essersi seduto sulla poltrona di vicepresidente del gruppo e
presidente per l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente. Trentatré anni in
cui ha girato il mondo e ha imparato a conoscerlo. Ma, soprattutto, anni
in cui ha vissuto a stretto contatto con la cosiddetta creative class,
una categoria che negli Stati Uniti e in molti altri paesi tiene
saldamente in mano le redini dell’economia. E’ anche per questa ragione
che Silvio Berlusconi lo ha voluto al governo, inventandosi un nuovo
dicastero che sembra fatto su misura per lui: ministero per
l’Innovazione e tecnologie. Con l’imponente obiettivo di modernizzare e
snellire la pubblica amministrazione italiana. Creatività, innovazione e
nuove tecnologie sono gli ingredienti principali della ricetta Stanca.
Ministro, cosa si intende per creatività?
E’ la capacità di creare idee al di fuori degli schemi prefissati, al di
là dei percorsi tradizionali. La creatività è l’attitudine a generare
del nuovo.
Che rapporto c’è tra creatività e sviluppo
economico?
Una connessione esiste, ma è molto mediata e poco legata. L’idea nuova,
brillante e innovativa di per sé non porta sviluppo. Bisogna saperla
tradurre in invenzione, tecnologia o processo. Insomma, bisogna
realizzarla e darle un valore economico portandola sul mercato. Diciamo
che la creatività è alla base di un processo, è il primo indispensabile
gradino di una scala che ha però bisogno di altri passaggi fondamentali.
Altrimenti la creatività e l’inventiva rischiano di rimanere un semplice
esercizio intellettuale.
L’Italia è un paese di poeti e inventori. Eppure
nella classifica europea dei paesi più creativi siamo solo tredicesimi
su quindici. Peggio di noi solo Grecia e Portogallo. Dove sono finiti i
novelli Leonardo da Vinci e Alessandro Volta?
Bisogna fare attenzione. Perché è necessario distinguere tra creatività
e innovazione. L’Italia non è agli ultimi posti nella classifica della
creatività, ma – appunto – nell’innovazione. Distinguere i due ambiti è
fondamentale. La creatività è l’inizio del processo, il primo passo.
Mentre l’innovazione è l’ultimo e si realizza solo nel momento in cui la
creatività viene portata sul mercato assumendo un valore economico. Ed è
nella realizzazione di questo ciclo virtuoso che siamo indietro.
Quali sono le barriere che ci impediscono non di
primeggiare ma, almeno, di stare in media con l’Europa?
Nel passaggio dalla fase creativa a quella innovativa c’è uno stadio
intermedio che va organizzato. Quello che manca in Italia sono i
meccanismi di trasferimento dell’idea sul mercato. E’ qui, è in questo
passaggio che siamo carenti. Perché al di là di una università che non
ci allena alla creatività, in Italia manca il sistema per tradurre le
idee brillanti in invenzioni e poi in innovazioni. Il punto sta proprio
nella distinzione tra invenzione e innovazione. Se io creo qualcosa in
un laboratorio mi limito ad inventare, mentre l’innovazione arriva solo
quando il risultato della ricerca va sul mercato. Nella prima fase,
dunque, il valore dell’invenzione è solo culturale e sociale, è con il
passaggio alla fase dell’innovazione che l’idea acquista un valore anche
economico. Ma per andare sul mercato bisogna organizzare, bisogna
finanziare, serve un meccanismo complesso che accompagni l’idea dalla
fase creativa alla fase innovativa. Schematizzando, direi che sono tre i
momenti fondamentali. Primo, la creatività che è sostanzialmente un
problema di capacità intellettuale dell’individuo. Secondo, il sistema
che deve produrre innovazione attraverso la ricerca. Terzo, il valore,
perché l’innovazione diventa valore economico quando va sul mercato. E’
seguendo questo percorso che, partendo dalla creatività, si genera lo
sviluppo e quindi il benessere.
Quanto incide la quota di spesa, certamente
insufficiente, riservata alla ricerca e allo sviluppo?
Da più di quindici anni il sistema paese investe poco più dell’1 per
cento del Prodotto interno lordo in ricerca, una quota assolutamente
inadeguata. Ma il problema non è tanto nella ricerca pubblica, che è
abbastanza vicina alla media Ue, quanto in quella privata,
drammaticamente lontana dagli standard europei. Con la strategia di
Lisbona approvata dal Consiglio d’Europa nel marzo del 2000 i paesi
dell’Unione si sono dati l’obiettivo di arrivare entro la fine di questa
decade a investire in ricerca e sviluppo il 3 per cento del Prodotto
interno lordo. Di questo 3 per cento, i due terzi – cioè il 2 per cento
del Pil – è ricerca privata, solo l’1 per cento, invece, è ricerca
pubblica. Ebbene, i dati ci dicono che il vero problema sta proprio
nella prima, che attualmente è sotto lo 0,50 per cento e deve arrivare
fino al 2. La ricerca pubblica, invece, deve fare molta meno strada
perché oggi si attesta intorno allo 0,60 per cento ma deve arrivare
all’1. Insomma, chi deve correre di più è la ricerca privata.
Al di là del capitolo della spesa riservata alla
ricerca, c’è anche il problema università, il luogo dove si forma la
nuova classe dirigente. E’ possibile pensare che un’università come
quella italiana possa davvero produrre una “creative class”?
La verità è che l’università non può essere fatta solo di nozionismo,
dell’esercizio un po’ retorico di memorizzare nozioni e formule. Perché
è anche con questo sistema che in Italia abbiamo trasformato le
università in veri e propri esamifici. Lo studio, al contrario, dovrebbe
preparare e allenare allo sviluppo della creatività, dovrebbe indicare
le giuste metodologie. Noi, invece, abbiamo un processo educativo molto
tradizionale, molto conformista, e non prepariamo le menti ad essere
aperte ed elastiche, capaci di produrre creatività.
Un quadro un po’ desolante…
Purtroppo nel nostro paese le cose stanno così. Il sistema scolastico,
tutto il sistema, è troppo nozionistico: si parla molto di cosa imparare
e poco di come imparare. E invece è proprio qui che sta il punto:
limitarsi a immagazzinare dati è un esercizio molto statico che non
allena certo la mente a essere elastica; ragionare, cercare soluzioni e
elaborarne di nuove, discutere e lavorare in gruppo, invece, sono il
primo passo per preparare una mente giovane all’inventiva e alla
fantasia.
Insomma, è proprio questa in Italia la vera
barriera alla creatività e all’innovazione?
Tutto nasce dall’università. Malgrado gli sforzi che stiamo facendo come
governo, noi dobbiamo arrivare a introdurre regole di mercato, di
concorrenza. Sia a livello di istituzioni (le università, i centri di
ricerca) che di persone (i professori). Finché il meccanismo è invece di
grande protezione e rigidità, l’efficacia e la produttività di questo
sistema pubblico, che è alla base della creatività e quindi
dell’innovazione, non sarà mai soddisfacente. L’università è il primo
gradino del processo, il più importante. Ma se resta burocratica,
rigida, immobile, conservativa e vecchia, non abbiamo speranza. Le
faccio un esempio illuminante. A Berckley, l’università statale della
California dove negli anni Sessanta nacque la contestazione, il 40 per
cento dei professori e dei ricercatori ha avuto almeno un’esperienza
privata. C’è una continua osmosi tra pubblico e privato. E non c’è
rigidità. Anzi, il sistema impedisce l’immobilismo. Negli Stati Uniti,
ad esempio, non puoi insegnare dove hai preso il PhD. La parola
d’ordine, insomma, è mobilità. L’esatto contrario dell’Italia dove tu
entri in un’università e da studente diventi assistente, ricercatore e
poi docente. Resti per quaranta anni nello stesso posto. E poi sono
convinto che bisognerebbe arrivare a prevedere per i professori
universitari dei contratti come quelli dei grandi professionisti. Ti
assumo e ti pago bene, ma non per la vita. Solo finché mi produci
valore. In questo modo si crea una gerarchia verticale, si verrebbero ad
avere – come negli Stati Uniti – università d’eccellenza, università
buone, università intermedie e anche di bassa qualità. I professori
bravi vanno su, nell’eccellenza, ma quando non sono più a quei livelli
ritornano a insegnare nelle università di livello inferiore. In Italia,
invece, tranne pochissime eccezioni (la Bocconi, il Politecnico di
Milano o di Torino, Pisa) la stragrande maggioranza delle università
sono tutte allo stesso livello perché non c’è mercato. Questo il punto
di partenza, il motore da mettere in modo per rilanciare creatività,
inventiva e – alla fine del processo – innovazione.
Poi, però, bisogna anche coinvolgere le imprese in
questo processo.
Certo. Si parte dall’università e dalla ricerca pubblica, ma poi serve
un volano che trascini le imprese private ma soprattutto le istituzioni
locali. L’innovazione – e questo è un altro punto delicatissimo – non si
fa a Roma ma sul territorio. La Silicon Valley è lì, non in tutti gli
Stati Uniti. Così come il Mit: è lì, in un punto ben preciso. Ecco,
anche noi dobbiamo riuscire a creare territori di eccellenza. E poi
bisogna risolvere il problema del sistema finanziario. Perché in Italia
manca la finanza innovativa? Perché le banche preferiscono finanziare il
capannone industriale piuttosto che l’innovazione: ci sono meno rischi e
più garanzie.
L’Italia può permettersi di fare a meno
dell’innovazione?
L’innovazione è un’importante leva economica di cui non possiamo
assolutamente fare a meno. Fino a oggi siamo stati competitivi
utilizzando altri meccanismi, come ad esempio la svalutazione della lira
o il basso costo del lavoro che negli anni Cinquanta e Sessanta ha
caratterizzato la nostra economia. Oggi, per fortuna, questi escamotage
non ci sono più. E la leva nuova non può essere che l’innovazione,
creare innovazione tecnologica e usare innovazione tecnologica. Creare e
usare.
14 aprile 2004 |