La vera storia di Joe McCarthy.
Capitolo 4. Il tramonto del red-hunter
di Andrea Mancia
da
Il Foglio, 19 febbraio 2005
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Il 9 luglio 1952 la convention repubblicana di Chicago accoglie il
senatore Joe McCarthy con un boato. Mentre la banda attacca “The Halls
of Montezuma”, i delegati del Wisconsin si alzano in piedi sventolando i
vessilli dello stato. Tra la folla, impegnata in una frenetica snake
dance, compaiono tre cartelli decorati con scritte di colore rosso
fiammante. Sono i nomi di Hiss, Lattimore e Acheson: i commies del
Dipartimento di stato. McCarthy arringa i repubblicani con un discorso
vigoroso. Il mondo libero – dice – sta cedendo alle dittature comuniste
una media di 100 milioni di persone all’anno; e i responsabili
principali di questa emorragia globale si trovano ancora a Washington.
Poi si rivolge direttamente a Truman: “Signor presidente, il suo
telefono sta squillando stanotte. Cinquemila americani la stanno
chiamando, dalle prigioni dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti.
Hanno nostalgia del loro paese. Sono soli e probabilmente spaventati.
Risponda al telefono, Mr. Truman, risponda!”. Infine, in un crescendo
finale sottolineato da un ruggito di applausi della platea: “Io dico che
un comunista in una caserma dell’esercito è un comunista di troppo. Un
comunista nella facoltà di un’università è un comunista di troppo. Un
comunista tra i consiglieri americani di Yalta è un comunista di troppo.
E anche se ci fosse stato un solo comunista al Dipartimento di stato,
sarebbe stato un comunista di troppo”.
Il discorso,
naturalmente, scatena le repliche feroci della stampa e dei democratici,
che sperano di riuscire ad organizzare un qualche fronte anti-McCarthy
in vista delle primarie repubblicane e delle elezioni generali di
novembre. Gli insider di Washington confidano nell’incompatibilità di
carattere tra il senatore del Wisconsin e il candidato repubblicano alla
Casa Bianca, il generale Dwight D. Eisenhower. Ike, però, anche se
incarna l’anima più pura del moderatismo repubblicano (oggi li chiamano,
con un pizzico di disprezzo, rino: republicans in name only), non può
permettersi di ignorare (o peggio, di alienarsi) quella parte della
propria base elettorale che vede in McCarthy il più integerrimo
combattente anticomunista di Capitol Hill. Così, dopo aver scelto
Richard Nixon come candidato alla vicepresindeza tra il malumore dei
simpatizzanti centristi, Eisenhower è perfino costretto a fare un salto
ad Appleton, in piena “McCarthy Country”, per rastrellare qualche voto
extra. Si tratterà di una visita fruttuosa.
Il trionfo repubblicano del 1952
Il ticket Eisenhower-Nixon vince le elezioni presidenziali di novembre
con quasi 11 punti percentuali di vantaggio sulla coppia democratica
formata da Adlai Stevenson e John Sparkman. I repubblicani vincono
ovunque, ad eccezione che nella Bible Belt del sud, in Kentucky e in
West Virginia, conquistando 442 voti elettorali contro 89. E’ un
massacro di proporzioni storiche, accentuato dal fatto che il GOP,
seppure di misura, riesce a riconquistare il controllo di Camera e
Senato.
In Wisconsin il distacco tra i due partiti sfiora il 25% e McCarthy, che
ha stravinto le primarie repubblicane, passeggia sopra il suo avversario
democratico e viene rieletto al Senato. Tail-Gunner Joe si concede
addirittura il lusso, a pochi giorni dal voto, di andare a fare campagna
elettorale in Connecticut contro William Benton che, negli ultimi mesi
della legislatura appena conclusa, aveva inutilmente condotto una
crociata politico-mediatica per estrometterlo dai ranghi del Senato.
Benton perde clamorosamente (e nettamente) contro lo sconosciuto
repubblicano William A. Purtell. McCarthy, aiutato nell’impresa da un
giovane neolaureato di Yale, William F. Buckley Jr., ottiene la sua
vendetta.
Tre anni più
tardi, Buckley sarebbe diventato il fondatore della “National Review”,
la rivista che avrebbe trasformato il conservatorismo statunitense da un
coacervo di dottrine locali (del Sud, del Midwest, dell’Ovest) a un vero
movimento culturale nazionale. In Arizona, un altro dei nemici giurati
di McCarthy, l’ex leader della maggioranza democratica Ernest W.
McFarland, viene sconfitto di misura da un giovane astro nascente
dell’Ovest: Barry Goldwater. Il 3 gennaio 1953 il nuovo Congresso entra
a Capitol Hill. Due settimane dopo, Eisenhower prende possesso della
Casa Bianca.
Fin dal
discorso d’insediamento, diventa lampante che Ike non potrà mai essere
il presidente desiderato ed eletto dalla destra repubblicana. Il nuovo
leader della minoranza al Senato, Lyndon Johnson, definisce le sue
parole “un ottimo riassunto dei programmi democratici degli ultimi
vent’anni”. E non ha tutti i torti, visto che Eisenhower resta in
assoluto silenzio sulla minaccia comunista, la necessità di tagliare le
tasse e la riforma del welfare (sull’intero programma del GOP, insomma),
ribadendo invece la necessità di appoggiarsi alle Nazioni Unite per
evitare il rischio di un conflitto nucleare con l’Urss. Ma dopo quasi
tre decenni di latitanza dal potere la maggior parte dei repubblicani è
distratta. L’unico che potrebbe avere il carisma per protestare sarebbe
Robert Taft, Mr. Republican in persona. L’eroe dell’America
conservatrice, però, non vuole sollevare un polverone di critiche contro
Eisenhower e i suoi all’indomani della vittoria elettorale. Qualche mese
più tardi Taft morirà di cancro, lasciando a Joe McCarthy l’onore (e
l’onere) di essere “il più importante repubblicano del Senato”.
Tail-Gunner Joe non si dimostrerà all’altezza del compito.
A McCarthy
non interessano ruoli di rilievo nella gerarchia di partito. E, dopo la
nomina di William Knowland a leader della maggioranza al Senato, si
“accontenta” della presidenza del Government Operations Affairs
Committee, conquistando così – dopo sei anni di anticamera – la testa
del Permanent Subcommittee on Investigations. Dopo un tentativo andato a
vuoto con Robert Morris, suo vecchio alleato nel comitato Tydings,
McCarthy sceglie come chief counsel del PSI il giovanissimo (26 anni)
Roy Cohn, figlio di un noto giudice di New York molto influente nel
partito democratico durante gli anni del New Deal. Cohn, che si è
laureato alla Columbia Law School a 19 anni, ha già lavorato per
l’accusa nei processi contro William Remington, i coniugi Rosenberg e
Owen Lattimore. Come il giornalista George Sokolsky, che lo ha
presentato nel dicembre del 1952 a McCarthy, si considera la prova
vivente che non tutti gli ebrei newyorkesi sono comunisti o “compagni di
viaggio” dei comunisti. Come assistant counsel arriva, invece, Robert F.
Kennedy (27 anni), che il padre Joseph (amico e sostenitore di McCarthy
da anni) ha provato fino alla fine a piazzare al posto di Cohn. A
completare l’immagine di un comitato giovane ed aggressivo c’è David
Schine (25 anni), figlio di un milionario voluto fortemente a bordo da
Cohn.
La “caccia alle streghe” di McCarthy
Il comitato comincia immediatamente ad indagare sul vecchio spauracchio
di McCarthy: il Dipartimento di stato. Nel febbraio del 1953 viene
ascoltata la testimonianza di Helen Balog, supervisore dell’archivio del
foreign service, che conferma come le falle del programma di sicurezza
abbiano consentito a centinaia di persone non autorizzate (compreso John
Stewart Service) l’accesso a documenti top-secret. Poi è la volta dei
responsabili di Voice of America, che devono rispondere delle presunte
infiltrazioni comuniste nella produzione delle trasmissioni radiofoniche
destinate, in teoria, alla propaganda filo-americana oltre la cortina di
ferro. In estate il PSI si occupa del Government Printing Office,
l’agenzia federale incaricata della stampa e della diffusione di tutte
le comunicazioni governative. In settembre tocca all’esercito e alle
Nazioni Unite. In ottobre vengono acquisite le prove che evidenziano il
ruolo di Harry Dexter White nello scandalo che vede, nella Germania del
dopoguerra, i cliché per la stampa delle banconote finire in mano ai
sovietici.
Queste
indagini e questi interrogatori, insieme all’analoga attività svolta
alla Camera dall’HUAC, sono le fondamenta su cui gli avversari del
senatore del Wisconsin costruiranno il mito della “caccia alle streghe”
maccartista. Anche se i metodi, tanto avversati dai liberal, sono
esattamente gli stessi adoperati nella lotta contro il crimine
organizzato negli anni Trenta (e contro l’amministrazione Nixon nel
Watergate). Se il Pecora Committee del 1932 o il Nye Committee del 1934,
però, si servivano di procedure sbrigative e un po’ rozze
nell’investigare contro i banchieri di Wall Street o i mercanti d’armi,
McCarthy aveva il grande torto di aver preso di mira i comunisti
infiltrati nel governo. E questo particolare, per i liberal “compagni di
viaggio” dei rivoluzionari rossi, faceva tutta la differenza del mondo.
Erano gli obiettivi di McCarthy, non la sua mancanza di tatto o il suo
invincibile istinto demagogico, a dare realmente fastidio
all’establishment.
In realtà,
il comitato ricorre a metodi estremi soltanto di fronte a testimoni
particolarmente ostili, come Philip Foner, Howard Fast o William Mandel.
Mentre nella maggior parte dei casi si limita ad uno scrupoloso e quasi
cauto lavoro di ricerca e ricostruzione dei fatti. Perfino il
giornalista inglese Alistair Cooke, che per anni aveva criticato senza
mezzi termini Tail-Gunner Joe dai microfoni della BBC, è costretto ad
ammettere che “tra McCarthy e il maccartismo esiste una differenza
sostanziale che i liberal detestano dover ammettere”. Proprio come non
vogliono ammettere l’evidenza dei fatti quando il PSI svela che, nei
primi tre mesi del 1953, alcuni alleati degli Stati Uniti (come Italia,
Grecia, Norvegia, Francia e Giappone) hanno violato l’embargo contro la
Cina comunista per dare vita a un giro d’affari (illegale) di oltre 2
milioni di dollari.
Questa sortita in politica estera, che pure gli procura il plauso
dell’opinione pubblica e di un settore consistente dei media,
rappresenta però il primo segnale di tensione tra McCarthy e la Casa
Bianca.
Le prime ombre del tramonto
La posizione di McCarthy sembra più forte di che mai. Il suo matrimonio
con Jean Kerr è l’evento più mondano di Washington dalla cerimonia
d’inaugurazione della presidenza Eisenhower. Partecipano tutti: Bill
Jenner, Richard e Pat Nixon, Harold Stassen, Allen Dulles, Barry
Goldwater, Jack Dempsey, John e Robert Kennedy. Un’altra rampolla dei
Kennedy, Eunice, è la damigella d’onore. Roy Cohn è il maestro di
cerimonia. “Baciala, Joe!”, urla la folla impazzita quando i due sposi
scendono gli scalini della chiesa di St. Matthew. Il 3 agosto McCarthy è
l’ospite d’onore alla convention nationale dei Veterans of Foreign Wars.
Il 25 settembre riceve una medaglia d’oro dall’American Legion per il
suo “outstanding americanism”. Sembra il culmine di una carriera
politica luminosa, ma in realtà la sua stella sta per tramontare.
Tail-Gunner
Joe, infatti, sta cominciando a perdere il suo proverbiale fiuto. Prima
si scontra con la Casa Bianca sulla nomina di James B. Conant (ex
presidente dell’università di Harvard) ad alto commissario in Germania.
E perde. Poi tenta inutilmente di opporsi alla candidatura di Charles
Bohlen come ambasciatore a Mosca, che viene approvata dal Senato a larga
maggioranza. Infine si scaglia contro William Bundy, genero di Dean
Acheson, accusandolo di aver favorito l’infiltrazione di comunisti nella
Cia. Ma prima l’opinione pubblica e poi Eisenhower lo costringono a fare
marcia indietro. Come se non bastasse, Cohn e Schine si imbarcano in una
disastrosa missione europea, alla ricerca di libri di propaganda
pro-sovietica diffusi dal servizio d’informazione del Dipartimento di
stato nel Vecchio Continente. L’indagine è assolutamente legittima, come
sottolinea la stessa amministrazione Eisenhower, ma il “fantastico duo”
riesce soltanto ad attirarsi gli strali della stampa francese e tedesca,
che non aspettava un’occasione migliore per protestare contro la Nato e
la presenza statunitense in Europa.
Poche
settimane più tardi, poi, arriva un’altra doccia fredda per McCarthy.
J.B. Matthews, un suo vecchio collaboratore appena entrato a far parte
del PSI, che si sta rivelando un ottimo organizzatore (oltre che un
“filtro” perfetto per smussare l’incompatibilità di carattere tra Cohn e
Kennedy), è costretto a dimettersi dopo la pubblicazione di un
controverso articolo in cui sostiene una sorta di continuità tra le
gerarchie del clero protestante e l’apparato comunista. L’abbandono di
Matthews non frena la rivolta dei membri democratici del comitato, che
precipita velocemente nel caos. Per spezzare questa spirale negativa,
McCarthy ha assolutamente bisogno di trovare una nuova pista. Crede di
averla individuata all’inizio di agosto, quando inizia a far circolare
la voce che il comitato ha le prove di un’infiltrazione comunista
nell’esercito. Sarà una mossa fatale.
McCarthy contro l’esercito
E’ Roy Cohn a convincere McCarthy della necessità di indagare sulla
negligenza dell’esercito nel garantire la sicurezza delle proprie basi,
spinto da un inquietante rapporto sul laboratorio di ricerca di Fort
Monmouth, in New Jersey. In assenza dei membri democratici, che stanno
ancora boicottando le sedute del comitato dopo il caso Matthews, il PSI
inizia ad interrogare i suoi testimoni, trovando una inaspettata fonte
di informazioni nel comandante di Fort Monmouth, il generale Kirk
Lawton, che si rivela preoccupato quanto McCarthy sui rischi di una
possibile infiltrazione di spie nel laboratorio. Lawton è perfettamente
a conoscenza del fatto che, collaborando spontaneamente con il comitato,
la sua carriera militare è praticamente terminata. Questa sua sensazione
si trasforma in certezza nell’ottobre del 1953, quando viene prima
trasferito e poi rimosso dall’incarico.
Intanto, i
rapporti tra il comitato e l’amministrazione Eisenhower sono peggiorati
sensibilmente. Ike, che il 27 luglio ha firmato l’armistizio con la
Corea del Nord e la Cina, non gradisce le intrusioni del senatore nella
gestione dell’esercito e, dietro le quinte, manovra per sbarazzarsi
dall’impiccio. Con un timing perfetto, il 3 novembre David Schine riceve
una cartolina precetto dall’esercito ed è costretto a partire per il
servizio militare. Per McCarthy, ma soprattutto per Cohn (che è legato a
Schine da un rapporto strettissimo, che molti non esitano a definire
omosessuale), si tratta di una dichiarazione di guerra.
In soccorso
di Tail-Gunner Joe arriva però la notizia che il ministro della
Giustizia, Herbert Brownell, ha raccolto una serie di prove schiaccianti
che dimostrano come Harry Dexter White, alto funzionario del Tesoro nel
dopoguerra, sia da anni una spia sovietica. E che nel 1945 Truman era
stato ripetutamente messo in allerta dall’FBI, ma aveva deciso
ugualmente raccomandare White per la presidenza del Fondo monetario
internazionale. E’ una clamorosa conferma delle tesi di McCarthy, che il
senatore tenta di sfruttare per riconquistare la credibilità politica
che i problemi interni al comitato hanno messo pesantemente in dubbio.
Ancora una volta McCarthy esagera e, in durissimo discorso trasmesso in
radio e in televisione, non si limita ad attaccare Truman e le
amministrazioni democratiche ma prende di petto Eisenhower e la sua
politica sull’embargo alla Cina.
In più, il
PSI inizia ad indagare sul caso di Irving Peress, un dentista
dell’esercito con trascorsi nel partito comunista al quale l’ignavia
della burocrazia militare ha permesso di essere promosso a maggiore, a
dispetto delle raccomandazioni della loyalty board, della legge e del
buon senso. In una infuocata udienza del comitato, McCarthy si scaglia
senza freni contro uno dei testimoni, il generale Ralph Zwicker,
accusandolo senza motivo di essere un complice dello spionaggio
sovietico e provocando la sdegnata reazione della stampa, dei vertici
militari e della Casa Bianca. Eisenhower decide che è arrivato il
momento di affrontare il problema alla radice. E lascia al ministro
della difesa, John Adams, il compito di fare il lavoro sporco.
Adams
prepara un rapporto di una quarantina di pagine per dimostrare che Cohn
e McCarthy hanno provato ad esercitare pressioni sull’esercito per far
ottenere a Schine un trattamento preferenziale durante il servizio
militare. Sono accuse, in larga parte, infondate. Visto che lo stesso
Adams, per ammorbidire McCarthy, aveva più volte tentato di usare il
giovane consigliere del comitato come “merce di scambio”. Ma il
documento – sapientemente distribuito nelle redazioni del Washington
Post, del New York Times e del Baltimore Sun – provoca un terremoto
mediatico devastante.
La polemica
irrompe nei corridoi di Capitol Hill, dove il senatore repubblicano del
Vermont, Ralph Flanders, accusa pubblicamente McCarthy di essere un
elemento di divisione nel partito che va fermato ad ogni costo. Poi il
colpo più pesante arriva dall’etere, con una trasmissione televisiva
della Cbs (il programma “See It Now” di Edward R. Murrow) che dipinge un
quadro terrificante dell’attività del senatore del Wisconsin,
utilizzando tecniche di distorsione della realtà che fanno impallidire
qualsiasi forzatura “maccartista” del passato. Il 12 marzo, tre giorni
dopo la trasmissione del “documentario” della Cbs, il New York Times
spara in prima pagina una notizia sensazionale: l’esercito accusa
ufficialmente McCarthy e Cohn di aver fatto ricorso a minacce per
ottenere un trattamento di favore per Schine. E’ l’assalto finale a
Tail-Gunner Joe.
McCarthy contro se stesso
Il PSI, che per l’occasione ha visto il ritorno all’ovile dei senatori
democratici, decide di indagare sulle accuse dell’esercito nei confronti
del suo presidente. McCarthy, naturalmente, non è più nella posizione di
poter dirigere i lavori del comitato. Al suo posto viene scelto Karl
Mundt, senatore repubblicano del South Dakota. Ray Jenkins, un taciturno
penalista del Tennessee, viene assunto come consigliere legale. Su
richiesta dei democratici, McCarthy acconsente di buon grado alla
trasmissione pubblica in televisione. Si tratta di un macroscopico
errore di valutazione.
Nella tarda
mattinata del 22 aprile 1954, i network ABC, NBC e Du Mont trasmettono
in diretta l’udienza di apertura dell’inchiesta. Per milioni di
cittadini americani è la prima occasione di vedere all’opera
quell’ossessione nazionale che risponde al nome di Joe McCarthy. La
maggior parte dei telespettatori, naturalmente, non si rende conto che
questa volta il senatore del Wisconsin non rappresenta l’accusa, ma
veste i panni dell’imputato.
L’esercito
sceglie un avvocato di Boston, Joseph N. Welch, come capo del proprio
team legale. E’ una scelta che si rivela azzeccatissima, perché con i
suoi modi eleganti e le sue tattiche spregiudicate Welch comprende molto
meglio di McCarthy l’impatto del mezzo televisivo. E riesce
costantemente a mettere in difficoltà il senatore del Wisconsin,
mettendone in luce i lati negativi del carattere (che non sono pochi).
L’avvocato dell’esercito, inoltre, riesce a sostenere con brillantezza
qualsiasi scontro dialettico con McCarthy, dando la sensazione che le
prove in suo possesso siano molto più consistenti di quello che sono in
realtà.
Mentre gli
attacchi di Flanders e dei moderati repubblicani si moltiplicano a
Capitol Hill, il 9 giugno Mc Carthy compie un altro clamoroso errore
tattico, accusando in diretta tv uno degli assistenti di Welch
(l’avvocato Fred Fisher) di essere stato un membro della National
Lawyers’ Guild, un’organizzazione forense vicina al partito comunista.
Il fatto è vero, ma la rivelazione viene vista dall’opinione pubblica
come un trucco per sviare l’attenzione dalle proprie responsabilità.
L’approval rating del senatore precipita in tutto il paese ai minimi
storici. Messo in un angolo, e abbandonato dalla gran parte degli
alleati, McCarthy perde la testa e inizia a scivolare nel baratro
dell’alcolismo.
Dopo 36
giorni di udienze e 187 ore di copertura televisiva, i lavori del
comitato si concludono il 17 giugno. Il 20 luglio Cohn si dimette. E in
Senato iniziano le grandi manovre per la resa dei conti con Tail-Gunner
Joe. La relazione finale del PSI viene resa pubblica il 31 agosto 1954.
Si tratta di un atto d’accusa imponente nei confronti di McCarthy,
colpevole di aver permesso a Cohn di intraprendere una campagna
personale a protezione di Schine, ma anche nei confronti
dell’amministrazione Eisenhower, responsabile di aver interferito
nell’inchiesta del comitato su Fort Monmouth. Ma alla stampa, ai
democratici e ai moderati repubblicani non interessa affatto che, ancora
una volta, il “red hunter” abbia dimostrato come il nocciolo duro delle
sue accuse sia fondamentalmente vero. Perché l’attenzione di tutti è
concentrata sul tentativo, capeggiato dal leader della minoranza Lyndon
Johnson, di far passare al Senato una mozione di censura contro
McCarthy.
La censura del Senato
Come spiega con candore Hubert Humphrey, che nel 1968 sarebbe stato
sconfitto da Nixon nella corsa alla Casa Bianca, “la vera minaccia
rappresentata da McCarthy consiste nel fatto che egli è riuscito ad
immobilizzare il movimento liberal americano”. I liberal, sul finire
dell’estate 1954, hanno la ferma intenzione di uscire da questa impasse.
Johnson capisce che, giocando sulle divisioni interne al partito
repubblicano, l’operazione può essere condotta in porto. Convince
Knowland (il leader della maggioranza GOP) a depennare qualsiasi
potenziale alleato di McCarthy dalla lista dei membri del subcommittee
incaricato di investigare sulla condotta del senatore del Wisconsin. E
mette in piedi una squadra di congressmen compiacenti e facilmente
manipolabili, guidati dal moderato repubblicano Arthur V. Watkins,
eletto nello Utah.
Il comitato,
che stavolta ha scelto di non aprire le proprie udienze al pubblico,
lavora su cinque capi d’imputazione, ma nella relazione finale –
presentata il 27 settembre – la raccomandazione per una censura nei
confronti di McCarthy viene motivata soltanto con due fatti: il
“vilipendio al Senato” relativo ad un vecchio (e piuttosto
insignificante) episodio accaduto nella passata legislatura; e il
comportamente “riprovevole” tenuto da McCarthy nell’interrogatorio del
generale Zwicker. Troppo poco, forse, per giustificare la terza mozione
di censura nella storia del Senato statunitense. Ma abbastanza per
influenzare l’esito delle elezioni di mid-term, in cui i democratici
riescono a riconquistare il controllo di entrambi i rami del Congresso.
Lyndon Johnson diventa il leader della maggioranza al Senato. I
candidati pro-McCarthy perdono in Illinois, Montana, Wyoming, Oregon,
Michigan e perfino in Wisconsin. La strada verso l’omicidio politico di
McCarthy è finalmente spianata.
Il 10
novembre, la sessione speciale del Senato si apre con un’atmosfera
pesante: i democratici sono pronti a reclamare la loro vendetta.
McCarthy, con un discorso coraggioso ma provocatorio in cui difende
integralmente la sostanza e il metodo della propria attività
investigativa, non fa niente per smussare i toni dello scontro. E si
presenta come l’ultimo bastione del mondo libero di fronte alla minaccia
comunista. I campioni della destra taftiana – come Barry Goldwater,
William Jenner e Herman Welker – lo difendono fino alla fine, ma i
democratici e i moderati repubblicani come Prescott Bush (padre del
futuro presidente George Bush e nonno di George W.) lo attaccano senza
mezzi termini. Pochi giorni prima della votazione finale, McCarthy viene
ricoverato per un violento attacco di borsite, che molti attribuiscono
all’ormai smodato vizio del bere. Goldwater lo va a trovare in ospedale,
proponendogli la bozza di una lettera di scuse da consegnare a Watkins
per salvare il salvabile, ma il senatore rifiuta con sdegno.
Alla fine, dopo tre settimane di infuocato dibattito, il Senato vota
(67-22) a favore della censura. La carriera politica di McCarthy finisce
con un tonfo.
Estinzione e morte di Tail-Gunner Joe
“Da oggi in poi – scrive con soddisfazione New Republic – Joe è l’uomo
con la lettera scarlatta: una enorme ‘C’ scritta sul suo soprabito dagli
uomini che lo conoscono meglio di chiunque altro”. Mentre il fronte
anti-McCarthy tira un sospiro collettivo di sollievo e Richard Rovere si
prepara a scrivere la biografia “Senator Joe”, che avrebbe
cristallizzato il dibattito intorno alla sua figura per decenni,
Tail-Gunner Joe si incammina mestamente sul viale del tramonto. Con sua
moglie Jean, al riparo dai clamori della stampa e della battaglia
politica, McCarthy cerca la tranquillità necessaria per superare il
problema dell’alcolismo. Gli amici che gli sono rimasti, come William F.
Buckley e Brent Bozell, fanno il possibile per distrarlo dal bere e
sollevarlo dalla depressione in cui è precipitato. I suoi ultimi
interventi al Senato passano totalmente sotto silenzio. Anche quando,
come nell’ottobre del 1955, avverte il paese dell’importanza cruciale
della sfida missilistica con l’Unione Sovietica. Un discorso quasi
profetico, pronunciato due anni prima dello Sputnik. Qualche mese più
tardi, è l’unico senatore non invitato al tradizionale party di Natale
della Casa Bianca. Il suo staff riesce a convincerlo che si è trattato
soltanto di un disguido postale.
Nel 1956,
per qualche settimana, McCarthy si diletta con l’idea di sfidare
Eisenhower alle primarie repubblicane. Ma un sondaggio privato gli
rivela che ormai lo appoggia soltanto il 3% degli elettori del GOP. In
estate, dopo una disastrosa apparizione alla convention nazionale del
partito, McCarthy entra nuovamente in ospedale per una cura di
disintossicazione. Al termine di una terribile crisi di delirium
tremens, i medici gli diagnosticano una forma gravissima di cirrosi
epatica. La moglie, disperata, tenta di convincerlo ad annunciare la sua
ricandidatura per le elezioni del 1958, nella speranza che la passione
politica riaccenda in lui il fuoco ormai spento. Ma è tutto inutile. Il
28 aprile del 1957, McCarthy viene ricoverato al Bethesda Navy Hospital
per l’ultima volta. Jean Kerr dice alla stampa che si tratta di una
banale operazione chirurgica al ginocchio. In realtà, il suo fegato lo
ha abbandonato definitivamente. Il 2 maggio, alle 5.02 del pomeriggio,
Joseph Raymond McCarthy muore.
Dopo la più
poderosa campagna di diffamazione post-mortem mai architettata nella
storia contemporanea, la decrittazione dei messaggi intercettati dal
Venoma Project e l’apertura degli archivi sovietici avrebbero vendicato,
nell’indifferenza generale di storici e giornalisti, la sua memoria. Ci
sarebbero voluti più di quarant’anni per scoprire che, tutto sommato,
Joe McCarthy aveva ragione.
(4/fine)
15 settembre 2005
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