Blog, il libero mercato delle idee
di Andrea Mancia
da Ideazione, settembre–ottobre 2005
Sono almeno due le letture obbligatorie per chi voglia cercare di
comprendere, anche se con un po’ in ritardo, la rivoluzione che sta
scuotendo le fondamenta del sistema mondiale dell’informazione. Il primo
libro è
Blog, scritto all’inizio di quest’anno
dall’americano Hugh Hewitt, commentatore radiofonico della destra
repubblicana,
blogger di successo e autore emergente
della nuova editoria conservatrice. Il secondo è Blog Generation,
dell’italiano Giuseppe Granieri, uno dei maggiori esperti italiani di
comunicazione e culture digitali del nostro paese (scrive, tra l’altro,
per il Sole24Ore) e
blogger della prima ora che si dichiara
“progressista ragionevole”. Si tratta di due libri molto diversi ma che
– malgrado l’estrazione ideologica dei loro autori – giungono ad una
conclusione sorprendentemente simile: la storia d’amore tra l’opinione
pubblica e i tradizionali mezzi d’informazione è finita. E qualcos’altro
– chiamatela blogosfera, se volete – sta gradualmente colmando questo
vuoto di fiducia.
La spiegazione che Hewitt e Granieri danno al fenomeno è, naturalmente,
differente. Guardando all’esempio statunitense (ma non si fa una gran
fatica ad adattare il ragionamento anche al caso italiano), Hewitt
sostiene che «il giornalismo d’élite è composto da persone che sono
schierate in modo schiacciante all’estrema sinistra dello schieramento
politico». Si tratta, secondo Hewitt, di una “ostilità” nei confronti
delle idee conservatrici che viene da lontano e si è rafforzata
generazione dopo generazione, prima durante la presidenza Nixon, poi
durante quella Reagan, per esplodere definitivamente con l’elezione di
Bush jr. alla Casa Bianca: «In privato gli esponenti più onesti dei mass
media lo ammettono senza troppi problemi [...] il 90 per centro dei loro
colleghi ha votato per Gore o Nader nel 2000 e per Kerry nel 2004 [...]
ma è qualcosa che non ammetterebbero mai in pubblico».
Se a questa deviazione ideologica rispetto all’asse mediano della
politica americana, aggiungiamo il fatto che i blog hanno dei tempi di
reazione molto più rapidi di quelli dei media tradizionali, ecco
spiegato almeno in parte – secondo Hewitt – lo straordinario successo
dei blog di informazione politica. Soprattutto di quelli di destra. Per
Granieri, invece, le cause del fenomeno sono strutturali: «Molta gente
ha perso fiducia nell’informazione ufficiale, che sente troppo lontana e
troppo legata ai potentati economici: da un lato l’esigenza
imprenditoriale di fare fatturato, dall’altro la concentrazione in
grandi gruppi, non sono una reale garanzia». E cita
Jeff Jarvis (un altro
giornalista-blogger) quando afferma che «i blogger sono ritenuti
maggiormente degni di fiducia perché sono umani», mentre i media «sono
grandi e spesso monolitiche organizzazioni sempre riluttanti a
condividere con qualcuno le loro prospettive e i loro ordini del
giorno».
Qualunque sia la causa che ha portato i media tradizionali a perdere
progressivamente la fiducia del pubblico a cui si rivolgono, non
sembrano esserci ragionevoli dubbi sulla reale portata del fenomeno. I
risultati di una
ricerca condotta dalla Carnegie Corporation
di New York nella primavera di quest’anno sono strabilianti. I giovani
dai 18 ai 34 anni utilizzano ormai Intenet come risorsa primaria per
l’informazione. E i giornali sono considerati meno aggiornati, utili,
divertenti e perfino attendibili della Rete. Il 39 per cento di questo
segmento demografico è convinto che il proprio consumo di Internet come
fonte di informazione primaria sia destinato a crescere in futuro. Per
fare un paragone, giornali e network tv si fermano mestamente all’8 e al
5 per cento. «Anche se il collasso vero e proprio delle grandi
organizzazioni che lavorano nel settore dei media non è affatto
imminente –
scrive Merril Brown tirando le somme
della ricerca – è difficile sfuggire al fatto che queste organizzazioni
hanno progressivamente perso la capacità di rappresentare l’opinione
pubblica e che il loro futuro è assai incerto. Una inversione di
tendenza è certamente possibile, ma soltanto per chi ha la volontà di
investire tempo, idee e risorse nel coinvolgimento della propria
audience, specialmente dei giovani consumatori. Le linee di tendenza
parlano chiaro».
La fine del giornalismo tradizionale?
Per Bill Grueskin, del Wall Street Journal, i blogger dipendono ancora
dai media tradizionali. E anche secondo Granieri non è il caso di
intonare il de profundis per l’intero sistema dei mass media, perché si
può senza dubbio iniziare a parlare di un «patto critico» tra mediasfera
e blogosfera, «un gioco delle parti in cui entrambe ci guadagnano». Ma
non tutti gli analisti sono disposti a concedere questa residua apertura
di credito al giornalismo tradizionale.
In un articolo pubblicato dal New York Times, che gli è costato le
durissime critiche di Bill Keller,
direttore dello stesso giornale, Richard A. Posner, giudice d’appello
americano, professore di legge all’Università di Chicago e blogger in
coppia con l’economista (e premio Nobel)
Gary Becker, scrive che «il
declino dell’audience è potenzialmente fatale per i giornali».
La concorrenza dei blog, spiega Posner, ma anche la nascita di Fox News
e la crescita delle talk-radio conservatrici, hanno spinto il sistema
dei media nel suo complesso verso una polarizzazione sempre crescente:
«La vertiginosa diminuzione dei costi delle comunicazioni elettroniche e
la mitigazione delle barriere all’entrata stanno portando ad una
proliferazione delle scelte dei consumatori.
Trent’anni fa [...] consumare notizie era come essere costretti a
succhiare da una cannuccia. Oggi è come essere innaffiati da un idrante
dei pompieri. [...] L’attuale tendenza alla polarizzazione politica
nell’informazione è una conseguenza di cambiamenti che non riguardano le
opinioni politiche generali ma piuttosto la riduzione dei costi che
permette a nuovi soggetti di entrare nel mercato editoriale. È stata la
nascita del canale conservatore Fox News a causare lo slittamento verso
sinistra della Cnn». Il sistema dei media era dunque migliore prima che
l’aumento di concorrenza contribuisse alla sua polarizzazione? «Niente
affatto – sostiene Posner – Il mercato offre ai consumatori quello che
vogliono. [...] E siccome esiste una domanda di mercato per la
correzione degli errori e la caccia al misfatto compiuto dai propri
avversari politici, i media esercitano un’importante funzione di
controllo. È questa la loro grande missione sociale. E si tratta
dell’ennesima dimostrazione di come il mercato possa produrre beni
sociali come conseguenza non-intenzionale di interessi egoistici».
Chiedersi se la Cnn si sia spostata a sinistra perché è nata Fox News, o
se Fox News sia potuta nascere proprio perché la Cnn si era spostata
troppo a sinistra, è come indagare sull’eterno dilemma dell’uovo e della
gallina. Ma una cosa è certa: la straordinaria crescita dei blog di
informazione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ha contribuito a
colmare un vuoto che i media tradizionali non avevano la volontà (o
l’interesse) di riempire. E la stessa esistenza di queste
micro-redazioni (quasi sempre individuali) sta scardinando un sistema
mediatico che resisteva, pressoché inalterato, da decenni. Chiunque
abbia seguito da vicino la campagna elettorale per le presidenziali
americane dello scorso anno, poi, si è reso perfettamente conto che
questi “sabotatori dei mainstream media”, e in particolar modo quelli
schierati a destra, hanno avuto un impatto devastante nel processo
politico.
Il vento digitale soffia (soprattutto) da destra
Il senatore repubblicano Trent Lott. Il direttore del New York Times
Howell Raines. Il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry. Il
conduttore televisivo della Cbs Dan Rather. Il conduttore radiofonico
democratico Al Franken. Sono soltanto cinque nomi, ma sarebbero potuti
essere molti di più, di grandi personalità del mondo politico e
dell’informazione che hanno visto la loro carriera rovinata – o almeno
gravemente compromessa – da un blog swarm (la traduzione letterale
sarebbe “sciame di blog”). In un caso, quello di Lott, si è trattato di
uno sciame bipartisan, nato a sinistra ma approdato anche sulla riva
destra della blogosfera. In tutti gli altri casi, si tratta di celebrità
abbattute (virtualmente, per carità) dal fuoco di sbarramento digitale
della destra americana.
Lott ha perso la presidenza del Senato dopo aver detto che gli States
sarebbero stati un posto migliore se nel 1948 avesse vinto le
presidenziali il razzista dixiecrat Storm Thurmond. Raines si è dovuto
dimettere in seguito allo scandalo che ha travolto un suo “protetto”, il
giornalista del NYT Jayson Blair. Kerry ha perso definitivamente ogni
possibilità di sconfiggere Bush quando i blogger hanno tenuto vive per
oltre un mese le accuse degli Swifties sul suo passato in Vietnam.
Rather è stato lapidato sulla pubblica piazza digitale, e costretto al
pensionamento anticipato, dopo aver tentato di influenzare le elezioni a
poche settimane dal voto con un servizio tv basato su documenti
grossolanamente contraffatti. Franken è stato travolto da un blog swarm
(ancora in corso, mentre scriviamo) quando si è scoperto che Air
America, il network radiofonico che nelle intenzioni dei democratici
avrebbe dovuto arginare lo strapotere delle talk-radio conservatrici,
era stato finanziato con denaro sottratto ad anziani e bambini poveri
del Bronx.
In tutti questi casi, senza l’intervento massiccio (e spontaneo) dei
blog, queste storie non avrebbero mai sfondato la cortina di ferro dei
mainstream media. Per distrazione, interesse politico, mancanza di
professionalità o altro, non ha poi troppa importanza.
«Quando molti blog scelgono un tema o iniziano ad inseguire una notizia
– scrive Hewitt – si forma un blog swarm. Un blog swarm è un indicatore
iniziale, un massiccio movimento di opinione pubblica che, quando
esplode, è in grado di alterare profondamente la percezione collettiva
di una persona, un prodotto o un fenomeno»16. Una delle storielle più
diffuse nella sinistra americana ed europea è che i blog di destra
facciano parte della cosiddetta republican noise machine e siano
manovrati da un qualche burattinaio segreto, magari con i soldi della
Halliburton e la regia occulta di Karl Rove. Hewitt fa un po’ di
chiarezza in merito, riferendosi ai primi quattro episodi a cui abbiamo
accennato: «Non c’è stato un piano d’attacco condiviso tra i blog. Non
c’è stato coordinamento con i loro alleati nelle talk-radio e in qualche
angolo dei mainstream media come Fox News. C’era, tuttavia, un network.
E c’era la comprensione di quello che era importante: fatti, velocità e,
soprattutto, un obiettivo».
L’analista repubblicano cita un saggio sulla netcentric warfare, scritto
da John Arquilla e David Ronfeldt sulla rivista specializzata Aviation
Week & Space Technology17, per descrivere attacchi «apparentemente
amorfi, ma attentamente strutturati e coordinati per colpire da ogni
direzione». Ma non c’è bisogno di addentrarsi troppo nella dottrina
militare per comprendere l’importanza dell’esistenza di un network in
grado di amplificare gli sforzi individuali di una massa di blogger. E
incredibilmente, almeno per gli standard italiani, negli Stati Uniti la
destra sembra essere in netto vantaggio proprio in questo campo.
In uno studio scientifico dal titolo “Divided
They Blog” pubblicato nel marzo di quest’anno, Lada Academic
(HP Labs) e Natalie Glance (Intelliseek Applied Research Center) hanno
analizzato il comportamento dei blog di destra e di sinistra durante
l’ultima campagna per le presidenziali americane. L’elemento che emerge
in modo più vistoso nella ricerca è che i blog conservatori, anche se
meno numerosi di quelli liberal, fanno network molto meglio dei loro
avversari. Sono più ospitali nei confronti dei nuovi arrivati, meno
gelosi del proprio traffico di visitatori e più disposti a cedere link
ai blog dello stesso orientamento culturale e politico, anche se
collocati più in basso nella “scala
evolutiva”. Per Hewitt, oltre ad «una generosità di spirito
che raramente ho visto nel lato opposto della blogosfera», la destra
gode anche di un talent gap nei confronti degli avversari, dovuto
probabilmente al fatto che le blogstar più in vista del fronte anti-Bush
«hanno spesso assunto un tono di arroganza e rudezza tale da scoraggiare
i possibili nuovi blogger». Comunque sia andata, è un fatto ormai
accertato che il network conservatore – nel momento del bisogno – ha
funzionato molto meglio di quello liberal. Tanto che, dopo la
pubblicazione di “Divided They Blog”, più di una discussione è nata –
all’interno dei blog della sinistra Usa – sulle tattiche migliori da
utilizzare per emulare la destra.
Nella ricerca “Buzz,
Blogs and Beyond”, di Pew Internet & American Life Project e
Buzzmetrics, il riferimento alle smart mobs teorizzate da Howard
Rhinegold è esplicito nella descrizione del Rathergate: «I blogger
conservatori interessati nella storia dei falsi documenti della Cbs
hanno sfruttato un modello di comportamento cooperativo per portare
avanti un obiettivo politico condiviso». Chiamatelo sciame di blog o
folla intelligente, il concetto è sempre lo stesso. E assomiglia in modo
impressionante a quello di “catallassi” utilizzato da Friedrich A. von
Hayek per rivendicare la superiorità del libero mercato rispetto alle
economie pianificate.
Il libero mercato delle idee e delle informazioni
Come scriveva Lorenzo Infantino nella prefazione a
Liberalismo di von Hayek, le dinamiche
di scambio e di interazione, se lasciate libere, tendono a migliorare la
posizione di ciascun contraente. E gli individui, quando sono liberi di
perseguire i loro interessi personali, assecondano – in modo più o meno
diretto – gli scopi e le esigenze di una molteplicità di altri
individui. Il libero mercato, insomma, è l’unica struttura in grado di
permettere alle conoscenze possedute da pochi di raggiungere i molti. È
interessante notare come von Hayek, per descrivere questo fenomeno,
proponga di utilizzare il termine “catallassi”, «che deriva dal verbo
greco katallattein (o katallassein), che significa non solo “scambiare”,
ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare
da nemici, amici”».
Naturalmente von Hayek si riferiva al mercato e non alla blogosfera, ma
le analogie tra i due sistemi sono immediatamente evidenti. Con il
progressivo crollo delle barriere all’entrata nel mondo
dell’informazione, si è creata (e cresce, minuto dopo minuto) quella che
Granieri chiama «una redazione composta da milioni di persone». «Al
semplice lavoro di ricerca e selezione delle notizie viene aggiunto
nuovo valore ad ogni passaggio, poiché ogni weblog, quando rilancia un
link, aggiunge osservazioni, commenti ed expertise. In ogni weblog che
ne parla il contenuto originale si arricchisce, viene verificato,
integrato e, se necessario, smontato. Sarà il lettore alla fine a
decidere quale opinione farsi». Nel mercato (e in gran parte dei sistemi
complessi), ogni individuo tende a spostarsi verso livelli più alti di
utilità marginale e, in modo del tutto non-intenzionale, produce spesso
un bene collettivo.
Nella blogosfera, invece che un prezzo più basso o un prodotto più
affidabile, questa interazione spontanea tra individui diffonde una
quantità e una qualità di informazioni che nessuna redazione
tradizionale – per quanto gigantesca – potrebbe mai sognarsi di
raggiungere. In entrambi i casi, a guadagnarci è soprattutto il
consumatore. Da più parti, sono state sollevate perplessità sul fatto
che la distribuzione del “traffico” nella blogosfera non è affatto
uniforme, ma anzi vede gran parte dei navigatori concentrarsi su pochi,
visitatissimi blog, mentre la stragrande maggioranza di essi non ha un
pubblico di riferimento rilevante. Potrebbe trattarsi di un’obiezione
importante, soprattutto in riferimento all’analogia – appena proposta –
con il libero mercato.
In fin dei conti, se soltanto una ristretta élite di blogger è in grado
di esercitare un’influenza diretta sui processi politici e sul ciclo
delle informazioni gestito dalla mediasfera, più che al vagheggiato
ideale di concorrenza perfetta ci troveremmo di fronte al più classico
degli oligopoli. Ma Hewitt, citando una conversazione avuta con il
fondatore di
Technorati, David Sifry, ci avverte che
the power of the tail (“il potere della coda”) è un concetto cruciale
per comprendere le dinamiche della blogosfera. «È un’idea
contro-intuitiva – scrive Hewitt – ma una volta capita, non può essere
abbandonata senza perdere la comprensione della straordinaria potenza di
questo mezzo. La “coda” è semplicemente quel 95 o 99 per cento di blog
che non ricevono quantità enormi di traffico.
Qualcuno ha dieci visitatori al giorno, qualcuno ne ha un centinaio, ma
in genere il loro traffico è stabile e non cresce a ritmi elevati. [...]
Il “potere della coda” sta nel numero aggregato dei suoi visitatori e
nel fatto che ciascuno dei blog che la compongono gode, generalmente,
della fiducia assoluta dei suoi visitatori». Secondo Hewitt (e Sifry),
insomma, un messaggio veicolato attraverso la “coda” della blogosfera ha
una possibilità di penetrazione mediatica enorme, spesso sottovalutata.
E questo fatto getta una luce un po’ meno sinistra quella distribuzione
“asimmetrica” del traffico che tanto preoccupa gli analisti.
Alla base di tutto, ancora una volta, c’è la fiducia del pubblico.
Quella persa, forse per sempre, dai media tradizionali. E quella
conquistata, gradualmente ma inesorabilmente, dalla blogosfera. Che si
tratti di una rivoluzione, oppure di una replica della riforma
protestante luterana (come sostiene Hewitt), resta il fatto che il
numero degli individui che, in tutto il pianeta, sta alimentando questa
“rivolta” è in crescita esponenziale. Secondo il rapporto “State
of the Blogosphere” di Technorati, pubblicato nell’agosto di
quest’anno, nascono ottantamila nuovi blog ogni giorno (circa uno al
secondo) e il numero totale raddoppia ogni cinque mesi. Qualche mese fa,
insomma, Technorati monitorava quasi 15 milioni di blog (e un miliardo e
trecento milioni di link).
Quando leggerete queste righe, probabilmente, questo numero avrà già
superato i 20 milioni. Proprio come nel caso della “Legge
di Moore” o del “Paradigma
di Gilder”, questo ritmo esponenziale di crescita è
contemporaneamente un sintomo della rivoluzione in atto ed una garanzia
per la sua vittoria nel lungo periodo. È meglio che i padroni del vapore
se ne facciano una ragione: il mondo dell’informazione e quello della
politica non potranno più essere quelli di una volta.
22 settembre 2005
mancia@ideazione.com |