Apologia del network relativamente stupido
di Giuseppe Granieri
da
Ideazione, settembre–ottobre 2005
La polemica sul relativismo, quasi come i rottweiler che azzannano i
padroni e le coppie di attori che si lasciano all’improvviso, è uno di
quei temi che i media di massa tendono a portare periodicamente
all’attenzione dei cittadini. Guardando l’uso che se ne fa attraverso i
media, il relativismo è un argomento usato per lanciare anatemi, da una
parte e dall’altra, sebbene storicamente la questione relativista sia un
nodo centrale nel dibattito scientifico e filosofico. Oggi, tuttavia, la
sensazione è che la querelle sia stata superata dalla realtà: la società
digitale, marcatamente relativista nella sua struttura e nella sua
organizzazione, più che nei contenuti, ha imposto uno stato di fatto.
Partiamo dal monito di Civiltà Cattolica che, analizzando Wikipedia,
paventava il rischio di inseguire l’utopia dell’intelligenza collettiva,
ottenendo inaffidabilità e relativismo culturale. E’ quasi banale
definire relativista una enciclopedia collaborativa in cui chiunque può
scrivere una voce o modificarne una già scritta. Ma lo scenario in cui
un’utopia come Wikipedia diventa possibile è ancora più netto.
L’argomento ultimo su cui si fonda l’obiezione di Civiltà Cattolica è
l’auctoritas che governa il sapere. Nel suo saggio Contro il
relativismo, Jervis traccia due profili divulgativi: da un lato il
relativista, dall’altro quello che definisce «l’anti-relativista, il
realista, o meglio l’empirista». Forte della distinzione tra opinione e
conoscenza, quest’ultimo «dà più ascolto al parere degli esperti e delle
persone istruite che a quello di chi non si è documentato e non dispone
di un buon livello di istruzione.» Il relativista invece crede «che le
conoscenze siano soltanto modi concordati di vedere le cose». Senza
farci caso, probabilmente, Jervis descrive con precisione il
funzionamento dell’algoritmo Page Rank che determina l’accesso alla
conoscenza sul web attraverso Google. Il popolare motore di ricerca
funziona esattamente secondo questo principio: è più accessibile ciò che
è maggiormente linkato, quindi le pagine web su cui c’è più accordo. Per
una specie di paradosso apparente, alla fine il sistema e l’information
literacy dell’utente giungono ad un risultato pari a quello
dell’empirista di Jervis: trovano la fonte maggiormente autorevole. Il
risultato non si deve al centro validatore, ma alle regole di
funzionamento ed allo spirito critico individuale.
Ma Jervis, descrivendo l’agire del relativista, sta illustrando anche la
soluzione trovata dalla ricerca per governare la complessità, che una
volta veniva chiamata information overload perché rapportata alla
capacità di soluzione di un singolo (magari illuminato ma isolato)
invece che alla capacità collettiva.. La scommessa di Google è stata la
necessità di spostare su utti gli utenti i costi della validazione
centralizzata dei contenuti che caratterizzava il primo modello Yahoo!,
basato su una redazione umana. Google, pur non essendo ancora perfetto,
ha adottato il modello vincente. E non solo perché è il motore di
ricerca più usato, ma perché la sua logica di lavoro si è dimostrata
migliore per affrontare la complessità. E nel suo schema astratto è
stata adottata praticamente ovunque. Tradizionalmente, nella
considerazione dell’auctoritas c’è un principio inespresso: esiste un
centro certificatore, mediatore, abilitato. Da questo punto di vista il
rapporto che c’è tra la società digitale e quella industriale (o
post-industriale o post-moderna) è lo stesso che c’è tra i mass media e
un network. Da un lato un centro che valida e stabilisce i messaggi da
mandare e una massa che li riceve, dall’altro milioni di persone che
comunicano e si scambiano conoscenza tra loro, senza mediazioni, ma con
delle regole.
La visione degli oppositori del relativismo tende ad escludere le
diversità (e le preferenze individuali) perché non monitorabili, non
riconoscibili, non codificabili. E’ una visione che si fonda su quelle
che Geertz, nel suo saggio intitolato Contro l’antirelativismo, chiama
le «verità familiari»: i nostri valori occidentali, le tradizioni
culturali, ma anche gli standard comunicativi dei mass media:
controllati, espressi in italiano standard, confezionati secondo
determinate regole formali. Niente devianze. Tutto molto rassicurante.
Al contrario, sul web in cui tutti hanno un canale troviamo
imprecisioni, disuguaglianze, o per dirla con Eco, molta spazzatura.
Troviamo disordine. Ma non è così semplice. Prima perché la società
digitale non è comprensibile solo attraverso il contenuto, ma
soprattutto attraverso le relazioni. E poi perché ciò che molti di noi
percepiscono come disordine è solo il risultato di una nuova complessità
che l’avventura umana è chiamata a dirimere. E ci sta riuscendo
brillantemente.
La società punto-punto
Le nostre culture occidentali, sempre più spesso definite meticce e
riconosciute come tali, risentono del continuo scambio di comunicazioni
politiche e sociali. La mobilità tra i paesi è aumentata in maniera
esponenziale, i contatti e le contaminazioni avvengono senza alcuna
barriera. Gli Stati nazionali hanno una giurisdizione sempre più
limitata su eventi culturali ed economici, che avvengono altrove e
portano gli effetti in casa. E’ un mondo in cui il fallimento di una
finanziaria nel Sud-est asiatico costringe Bush ad una dichiarazione
ufficiale. Sarebbe difficile capire in questa sede se la globalizzazione
sia l’uovo e la tecnologia digitale sia la gallina. Facendo il verso a
McLuhan, sono indotto a credere che le tecnologie digitali siano la
soluzione dell’uovo per fare altre uova. In ogni caso, l’aumento di
informazione che si può elaborare (e condividere) attraverso la
tecnologia ci porta a nuove logiche di conoscenza che superano
l’apparente causa-effetto.
Prima non eravamo semplicemente in grado di elaborare i dati necessari a
calcolare tutte le variabili di una catena alimentare marina e
ragionavamo per semplificazioni: se A mangia B e gli esemplari di B sono
troppi, pensavamo sbagliando, basterà popolare l’ecosistema di un certo
numero di A per riequilibrarlo. Oggi riusciamo a vedere e calcolare
tutte le variabili. E l’enorme quantità di informazioni conduce
inevitabilmente al riconoscimento di nuove configurazioni, che
utilizziamo per spiegarci fenomeni che prima neanche potevamo
immaginare. Ciò che prima chiamavamo psicologia delle masse, perché non
eravamo in grado di ricostruirlo in termini di comportamento di
individuo, oggi ha meno misteri e molte più configurazioni
riconoscibili. Possiamo codificare il modello che porta allo scoppio di
una sommossa come quello che improvvisamente fa finire una festa quando
se ne vanno due persone. Riusciamo a pensare il mondo a livello di
persona e di preferenze individuali e non più solo a livello di insiemi
sociali.
E’ il momento delle differenze e di trovare il giusto modo di
utilizzarle. Per dirla con Geertz, «se volevamo verità familiari,
dovevamo starcene a casa». Da questo punto di vista la teoria delle Reti
è l’espediente che la fisica ha escogitato per spiegarci il nuovo ordine
delle cose. Sociologi, biologi, cognitivisti e (finalmente) studiosi di
scienze politiche, sugli stessi dati dei fisici, stanno costruendo nuovi
modelli che descrivono ciò che già accade e che non vedevamo. Se da un
punto di vista culturale la relazione è ciò che dà valore al contenuto,
dal punto vista sociale le relazioni tra gli individui sono portatrici
di assetti e regole, di cultura. Questo modo di spiegarci il mondo è –
forse – la grande narrazione del Ventunesimo secolo, con le sue parole
chiave e i suoi concetti cardine. Oggi sappiamo che il web, al Qaeda, il
linguaggio, i componenti dei consigli di amministrazione nelle aziende
americane, ma anche le catene alimentari, le reti sociali e migliaia di
altri piccoli mondi sono sistemi governati dalle stesse relazioni. Si
tratta, in tutti i casi, di reti.
Quindi di forme che si sono strutturate senza un centro ordinatore.
Nessuna di queste reti «ha avuto un progettista eppure ciascuna è
riuscita ad usare lo stesso “trucco”, quasi fosse stata creata per un
preciso scopo. Come hanno fatto tutte quante a diventare così?». La
chiave della risposta è in un altro concetto fondamentale per capire la
complessità del mondo di oggi: l’«emergenza», ovvero «l’idea che un
ordine significativo emerga da sé nei sistemi complessi». Non è un
concetto da sottovalutare. Ironicamente Jervis paragona la prospettiva
relativista al gioco proposto da Dodo di Alice nel paese delle
meraviglie, gioco in cui tutti vincevano. «Ma i premi doveva metterli
Alice». Eppure questi sistemi emergenti sembrano prescindere dalla
seconda legge della termodinamica «in quanto creano e aumentano l’ordine
nonostante la mancanza di un controllo centrale. Questo è possibile
perché i sistemi aperti possono estrarre informazione e ordine
dall’ambiente».
Apologia del relativamente stupido
Oggi possiamo riconoscere come sistemi emergenti i grandi network, ma
anche moltissimi modelli presenti in natura: le colonie di insetti, le
cellule neuronali, i sistemi immunitari. Secondo Steven Johnson tutti
questi sistemi risolvono problemi facendo affidamento su masse di
elementi relativamente stupidi invece che su un singolo centro
intelligente. La definizione tecnica corretta è «sistemi adattivi e
complessi che mostrano comportamenti emergenti». Un esempio classico è
la swarm intelligence delle formiche: ciascuna esegue il suo compito di
ricerca verso il cibo, senza coordinamento. Deposita delle informazioni
(feromone) che altre formiche leggono, riuscendo ad individuare il
percorso più breve. In questo modo iniziano a produrre comportamenti che
vengono adottati al livello superiore al loro. I singoli individui del
formicaio prestano attenzione ai loro vicini (anziché a direttive
dall’alto) e ne assumono le scelte, producendo un accrescimento
culturale dell’intero sistema. Agiscono, di fatto, come una comunità di
pratiche. Le formiche creano colonie, le città creano i vicinati, i
software imparano a consigliarti libri.
Questo movimento dai livelli più bassi verso quelli più alti è ciò che
viene chiamato emergenza o auto-organizzazione. Allo stesso modo milioni
di persone, usando i blog, fanno emergere le informazioni più
interessanti dal grande calderone del web. In quel caso ciascun
individuo cerca le informazioni per lui interessanti e le
re-distribuisce per i suoi lettori. Come il cibo per le formiche, le
informazioni che l’intelligenza distribuita ritiene più valide risultano
quelle più raggiungibili, poiché ad esse punta il maggior numero di
link. Anche in questa situazione, l’individuo agisce come «essere
collettivo». Ma la nostra società ci regala migliaia di altri esempi
simili: dall’organizzazione della Cnn, che lascia molta autonomia alle
sedi locali, all’evoluzione dei movimenti no-global, ad al Qaeda. Fino
alla società digitale nel suo complesso che, a differenza di tutte le
altre grandi epoche della Storia, non nasce dall’intuizione di pochi ma
dalla collaborazione di milioni di persone. Si disegna a livello di
individuo e paradossalmente trova resistenze, spesso solo
incomprensione, man mano che procede verso i livelli più alti.
In questo caso, per citare Keynes, la difficoltà non sta nel credere
alle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie. Facciamo un altro
esempio. Dopo l’11 settembre Valdis Krebs, un analista di
organizzazione, scoprì che il team di 19 terroristi che portò a termine
l’attentato contro le torri gemelle aveva una struttura simile a quella
che oggi riconosciamo nell’architettura di Internet. Anche bloccandone
alcuni, il sistema avrebbe continuato a funzionare, poiché non c’era un
centro a dirigere e i singoli terroristi avevano relazioni solo con un
altro paio di loro. E fu tra i primi ad indicare una soluzione per
battere al Qaeda: «per vincere la battaglia contro il terrorismo sembra
che i buoni abbiano solo una possibilità: costruire un network di
informazione e di condivisione della conoscenza migliore di quello dei
cattivi» Parallelamente Albert Lazlo Barabási, lo stesso fisico cui si
devono i primi principi utili per cominciare a comprendere l’ordine di
molte reti (tra cui il web), dimostrava che come per Internet, solo la
distruzione di un numero sufficiente di nodi con molti collegamenti
(tecnicamente hub) può portare al crollo strutturale della rete di bin
Laden.
Ma avvisava anche che non sarebbe servito a nulla. Bin Laden non ha
inventato le reti terroristiche, ha cavalcato solo la rabbia degli
estremisti islamici sfruttando le leggi dell’autoorganizzazione. «Se
vogliamo un giorno vincere la guerra, la nostra unica speranza è
combattere le radici sociali, economiche e politiche che alimentano la
rete [terroristica]. Dobbiamo riuscire a fermare ogni bisogno e ogni
desiderio che i nodi nutrono di creare dei link verso le organizzazioni
terroristiche: dobbiamo offrire delle possibilità di appartenenza a
ragnatele più ricche e costruttive.» In questa analisi sono contenute
diverse implicazioni interessanti. La prima è che un modello
semplicistico come quello antirelativista «duro e puro» (si pensi
all’intemerata, come l’ha definita il Corriere, del presidente del
Senato Marcello Pera) non sarà mai in grado di battere il terrorismo. La
seconda è che se l’aggregazione spontanea, priva di centro, dà luogo non
all’anarchia, ma a sistemi complessi ed autoregolanti, il motore è la
motivazione. La terza è che se vogliamo comprendere la società digitale,
per costruire modelli nuovi e più interessanti, dobbiamo cominciare,
anche a livello politico, a capire Internet, che è la grande
infrastruttura della conoscenza e delle dinamiche di questa società. E
dobbiamo cominciare a prendere atto delle motivazioni.
Il desiderio di link
La complessità che oggi riusciamo a gestire ed a riconoscere è solo
parzialmente quella che vedremo nei prossimi anni. Si tratta,
evidentemente, di processi sociali di assimilazione noti e codificati,
che richiedono i loro tempi. E ci sono in gioco probabili nuove scoperte
scientifiche e soluzioni tecniche per orientarci nella crescente mole di
conoscenza condivisa (si pensi ai progetti di web semantico, alle reti
neurali, alla tecnologia dell’HumanML language o a diavolerie che ancora
nemmeno immaginiamo). La tendenza verso il dominio della complessità non
mi sembra in discussione, e nessuno (a livello della ricerca come a
livello di partecipazione individuale) ipotizza di tornare indietro
verso «semplificazioni sociali».
Quello che oggi ci appare funzionante ma imperfetto, domani sarà
migliore. Persino i cineasti ci hanno messo dieci anni a capire bene
come utilizzare bene il loro giocattolo. Ma c’è un’altra tendenza che
non dovremmo trascurare. La società che si sta delineando attraverso
Internet (ma non solo su Internet) è una società molto più ricca di
attrattive di quella precedente. Non è più una società di massa, perché
al suo interno non c’è più spazio per il «generalismo» di tipo
televisivo, ma anche di tipo politico. E’ una società i cui membri sono
connessi tra loro e con i centri di potere in un modello che consente
comunicazioni bidirezionali, laddove non ne avevamo mai avute. Si pensi
al mercato, che non prevedeva l’opinione pubblica dei consumatori, oggi
in grado di far crollare un titolo in borsa.
Oppure si pensi alla politica, al «vecchio» unilaterale broadcast e alla
costruzione della fiducia degli elettori. La società digitale è un
modello con i propri rapporti di forza interni, che bisogna imparare a
comprendere, ma fondamentalmente più equo di quelle cui siamo abituati.
E’ una società in cui le multinazionali si vedono costrette a discutere
di comportamenti etici, a comportarsi come Stackelberg leader e ad
ascoltare i consumatori per mantenere le loro quote di mercato. E’ una
società in cui l’individuo ha la possibilità, i canali e il supporto per
discuterne l’organizzazione e per intervenire e modificarla. A partire
dal disegno delle cosiddette «applicazioni di social software» che ne
determinano le regole. E il social software, per usare una felice
espressione di Clay Shirky, è «scienza politica fatta applicazione».
La grammatica delle Reti
Marshall McLuhan, quarant’anni fa, osservava che il grande merito di
Tocqueville fu di aver compreso la grammatica della stampa, riuscendo ad
interpretare i cambiamenti in atto in Francia ed America, mentre
l’Inghilterra, ancorata alla tradizione orale delle common laws restava
al palo. Oggi, a mio parere ci troviamo di fronte ad una sfida simile.
Comprendere la grammatica delle Reti, ci aiuta a riconoscere un ordine
nel cambiamento che percepiamo come disordine. A cominciare dalla prima
regoletta semplice, che mette in crisi l’auctoritas tradizionale. Sul
web, a differenza che negli altri media, prima si pubblica poi si
filtra. L’auctoritas, con buona pace degli antirelativisti, è ciascuno
di noi col suo senso critico e le sue preferenze. E se in questo stato
di fatto vediamo dei problemi (ad esempio una carenza nella nostra
istruzione, che ancora non contempla la navigazione o l’information
literacy come parte sostanziale dell’alfabetizzazione), probabilmente è
una buona occasione rimboccarci le maniche e tentare di risolverli.
25 ottobre 2005
Giuseppe Granieri, saggista, è uno dei maggiori esperti
italiani di comunicazione e culture digitali. Quest’anno ha pubblicato
per Laterza il libro Blog generation. Titolare del blog Blog notes. |