Un arsenale per la democrazia
di Federico Punzi
da Ideazione,
settembre–ottobre 2005
Che mondo ci stanno raccontando? Per le nostre televisioni e la maggior
parte dei giornali, gli arabi, i musulmani, tutti gli altri abitanti non
occidentali di questo pianeta, siano essi indiani o africani, esistono
solo se muoiono o se uccidono. Sugli schermi e sulle prime pagine
vediamo cadaveri di innocenti o volti di terribili assassini al soldo
del terrorismo islamista. La politica, la società, l’umanità spesso in
lotta dei paesi non occidentali vengono raramente raccontate. Oltre che
razzistica, questa distorta rappresentazione mediatica di regioni che
sembrano condannate allo status quo e di popoli incapaci di sviluppo
democratico e progresso costituisce un impoverimento innanzitutto per
noi. L’orizzonte che ci viene dischiuso è fatto di violenza e morte,
dell’assenza di un’umanità in cui poterci almeno in parte riconoscere
per desideri e “normalità” delle aspirazioni. Non stupisce se poi la
reazione dell’opinione pubblica è quella di volersene tirare fuori, e
quella dei governi di ritirarsi dalle proprie responsabilità
internazionali, perdendo volontà e capacità di governare gli eventi e
lasciando spesso mano libera alle forze dell’oppressione.
E’ un orizzonte disumanizzante dell’“altro da noi”, che rischia di
diventare anche il nostro orizzonte interiore. Per fortuna c’è Internet,
ci sono i blog, a rappresentare una dimensione umana del mondo non
occidentale. Apprendiamo da
Publius Pundit e
Gateway Pundit che in Egitto esiste un’opposizione che
manifesta e viene repressa con la violenza dalla polizia e dai
“teppisti” di Mubarak; che in Bahrain in diecimila scendono in piazza
chiedendo riforme politiche, contro le leggi liberticide delle autorità.
Se qualcosa va per il verso giusto in Iraq o in Afghanistan, le good
news le leggiamo su
Chrenkoff, su
Wind of
Change o su
Belgravia Dispatch. I “lavori in corso”
della democrazia in Iraq e in Afghanistan, eventi unici in tutto il
Medio Oriente – fatti di elezioni libere, partiti, giornali e tv
indipendenti, bozze di costituzioni – un processo politico scandito non
solo da bombe e stragi, ma anche da dibattiti pubblici sul futuro del
paese e lavori parlamentari, non meritano le prime pagine né
l’attenzione di inviati e telecamere fisse. Eppure, con i suoi
compromessi e le sue divisioni, c’è da raccontare il funzionamento di un
nuovo sistema politico che interessa anche noi, la nostra sicurezza, il
nostro benessere.
Lo raccontano i blog, americani e iracheni, europei e arabi. Alì, il
blogger iracheno che cura
Iraq The Model, tra i fondatori del
Partito iracheno per la democrazia, alcuni mesi fa ci ha raccontato
l’emozione del recarsi a registrare il suo partito, l’entusiasmo e lo
stupore perché per la prima volta cambiare il governo non è considerato
un atto sovversivo, non si rischia l’impiccagione. Sotto Saddam Hussein,
«ogni volta che cercavamo di organizzare un gruppo che non comprendesse
soltanto noi e i nostri amici più intimi, non riuscivamo a ottenere
l’appoggio di più di 5-10 persone. Fidarsi degli altri era quasi
impossibile e molto rischioso. Dovevamo tenere conto del fatto che non
rischiavamo solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri familiari».
Oggi è diverso. Quando la paura non ha più il volto della legalità, ma
al massimo quello del terrorismo, è già cambiato tutto. Per quanti
orrori potranno ancora spaventare Alì e i suoi amici, il risultato
incancellabile dell’“occupazione” anglo-americana è stato quello di aver
bandito il terrore esercitato dal potere legittimo: nel nuovo Iraq
esprimere le proprie idee e associarsi liberamente non è più
fuori-legge, e questo già basta a togliere speranza e futuro al
terrorismo e riconsegnarli agli iracheni. Storie di «alta lotta umana».
I blog, oltre la
notizia
Le elezioni in Iraq e Afghanistan; la rivoluzione dei Cedri e il ritiro
delle truppe siriane dal Libano; le controverse riforme dall’alto di
Mubarak verso un sistema multipartitico e la pressante richiesta di
riforme dal basso; i giovani iraniani sempre più insofferenti verso il
regime dei mullah; le elezioni municipali in Arabia Saudita; il voto
alle donne in Kuwait. Non è che per caso in Medio Oriente esiste un
embrione di società civile in lotta che, consapevole dei vantaggi della
democrazia, chiede di partecipare al governo del suo paese ed è disposta
a parlare, a scrivere, a mobilitarsi? Questi orizzonti di democrazia e
sviluppo noi li vediamo? I volti di queste lotte ci vengono mostrati dai
media tradizionali? I blog ci informano e ci rendono partecipi di
processi politici più avviati, cambiamenti sociali più diffusi, idee più
radicate di quanto ci venga rappresentato dai media tradizionali. E’
sufficiente una connessione a Internet per pubblicare liberamente
qualsiasi informazione o commento. Ciascuno può farci sapere come vive
nel suo paese, cosa succede, come stanno cambiando le cose. A portata di
click abbiamo fatti e commenti di cui non potremmo mai disporre neanche
guardando per 24 ore i notiziari televisivi o spiluccando i quotidiani
nelle pagine più interne.
Sulla base della semplice constatazione che ogni persona è “esperta” di
qualcosa, conosce meglio di chiunque altro una particolare situazione,
il pubblico – in Occidente e ovunque – da fruitore passivo di notizie
sta sempre più entrando a far parte del processo produttivo
dell’informazione. Una moltitudine di utenti, attraverso blog, siti e
forum, può amplificare l’eco di fatti, e portare all’attenzione temi che
i media tradizionali sottovalutano. Il New York Times ha ammesso che
«per i vividi reportage dall’enorme zona del disastro dello tsunami, è
stato difficile battere i blog». I blogger entrano facilmente in
contatto tra loro e interagiscono, si scambiano commenti e mail, si
linkano e si citano a vicenda, fino a costituire delle comunità virtuali
i cui singoli terminali sono disseminati in tutti i paesi. Sono
aggregazioni di tipo nuovo, basate non sulla vicinanza geografica, sul
fattore anagrafico, culturale, o linguistico, bensì su interessi comuni,
una lotta, una causa, un’iniziativa, o semplicemente su un orientamento
culturale condiviso. Si dipana così, dai blog, un potenziale di
informazioni, relazioni, interscambi, persino di azione e mobilitazione
comuni, che è politica, anzi politica estera a misura di cittadino del
villaggio globale.
Dagli ultimi eventi in Medio Oriente passando per la orange revolution
in Ucraina e i movimenti democratici nelle ex Repubbliche sovietiche, il
ruolo delle nuove tecnologie è stato preminente. Internet, i blog,
telefonia mobile e tv satellitari, sono le armi stipate negli arsenali
dei movimenti democratici dall’Egitto all’Ucraina, nel doppio ruolo di
catalizzatori dell’attenzione all’interno e dall’esterno del paese.
Secondo i dati diffusi da John Chambers (Cisco Systems), tra il 2000 e
il 2004 l’utilizzo di Internet in Medio Oriente ha fatto registrare un
incremento del 219 per cento. In particolare, in Giordania del 273 per
cento, in Qatar del 320, in Bahrain del 389, in Egitto del 500 e in
Arabia Saudita del 650 per cento. Parabole, lettori dvd, computer,
telefoni cellulari e Internet mettono a dura prova le capacità dei
regimi del Medio Oriente di controllare ciò che i loro popoli pensano e
desiderano. Soprattutto i più giovani scaricano musica, giocano,
bloggano, chattano. Quando con l’avvento della stampa, ama ripetere
Hugh Hewitt,
la Chiesa ha perso il controllo sui testi, gli individui hanno
cominciato a scegliere per proprio conto. Oggi i grandi media hanno
perso il monopolio del flusso di informazioni. Ronald Reagan nel 1989 ne
era certo: «La tecnologia renderà sempre più difficile per lo Stato
controllare l’informazione che il suo popolo riceve. [...] Il Golia del
totalitarismo sarà abbattuto dal Davide del microchip».
Tv satellitari e Internet hanno portato milioni di persone che vivono in
società chiuse più vicine al resto del mondo. In Egitto, in
Libano, e altrove, come in Ucraina e negli altri paesi ex
sovietici gli attivisti si servono di telefoni cellulari e siti per
organizzare dimostrazioni anti-regime.
Ayman
Noor ha riunito migliaia di sostenitori attraverso il suo
sito internet; anche il movimento “Kifayah” (Basta!), che raccoglie
democratici come Noor e islamisti legati ai Fratelli Musulmani, si è
dotato di un
sofisticato sito. Piattaforme come
The Egyptian
Blog Ring e l’aggregatore
Manalaa.net, in lingua sia araba che inglese; blog come
Big
Pharaon,
Baheyya e
Arabist,
dimostrano la vivacità della blogosfera egiziana, anche se i blogger sul
Nilo non hanno ancora attirato la stessa attenzione dei loro colleghi
iracheni:
The Mesopotamian, gli splendidi
reportage di
Michael Yon e
Friends of Democracy, iniziativa nonprofit
iracheno-americana, che raccoglie resoconti di corrispondenti da tutto
l’Iraq, audio, foto, testi da zone diverse. In Iran quello dei blog è un
fenomeno esploso da tempo e le nuove tecnologie hanno contribuito alla
crescita di un’opposizione al regime dei mullah riconoscibile
dall’esterno del paese.
I frequenti scontri fra polizia e dimostranti; le proteste per l’arresto
di giornalisti e blogger; le contestazioni agli ayatollah; il
boicottaggio delle elezioni-farsa; la lotta del movimento studentesco.
Troviamo tutte le informazioni e le mobilitazioni su blog iraniani come
Hoder,
Iran Va
Jahan,
Regime Change Iran e
Lilit,
o italiani come
Free Thoughts e
Iran.Watch. Internet, i blog, e le nuove tecnologie della
comunicazione hanno espresso tutte le loro potenzialità nei paesi
dell’Est europeo. Infatti, le “rivoluzioni” in Ucraina e Georgia non
sono state guidate dai tradizionali partiti politici di opposizione, o
non solo, quanto piuttosto da grandi movimenti democratici di giovani
attivisti ben organizzati che hanno occupato le strade e hanno fatto di
Internet il principale strumento informativo, organizzativo e persino di
aggregazione, aggirando i divieti delle autorità. Se la “rivoluzione
delle rose” guidata da Mikhail Saakashvili a Tbilisi, alla fine del
2003, poteva sembrare un caso isolato, i fatti di Kiev hanno reso chiaro
che è in gioco un effetto di grande portata, almeno regionale. In
Bielorussia, Kirghizistan, Azerbaijan sono sorti in pochi mesi movimenti
che si ispirano alla orange revolution ucraina e alle campagne
nonviolente.
Movimenti come
Otpor (Serbia) e
Pora
(Ucraina) costituiscono un modello organizzativo, di controinformazione
e attivismo politico esportato ai paesi confinanti:
Zubr (Bielorussia),
Kelkel(Kirghizistan),
Yox (Azerbaijan),
Oborona
(Russia). Non troviamo ancora corrispettivi in Medio
Oriente, con l’eccezione del
movimento studentesco per la democrazia in Iran.
Vladyslav
Kaskiv, uno dei coordinatori di Pora,
ha dichiarato a Diego Galli,
responsabile di RadioRadicale.it, che «gli strumenti più importanti per
la mobilitazione sono stati senz’altro internet e la comunicazione
tramite cellulari e sms». Tramite il sito sono stati raccolti circa
2.500 nuovi militanti. Mailing list e sms sono stati usati per convocare
manifestazioni e per comunicare in modo istantaneo con i responsabili
regionali di Pora. Il sito
Maidan ospita notizie inviate su base
volontaria da un network esteso di normali cittadini ucraini, a volte
riprese da Radio Free Europe.
Nesam (“Non da solo”) ha sperimentato
una forma di comunicazione peer to peer senza alcuna mediazione. Un
database raccoglie i numeri di cellulare di semplici cittadini che
vivono in diverse parti del paese. Quando ti registri hai il database e
puoi chiamare qualsiasi persona di quella lista, sapere cosa succede,
organizzare iniziative.
Il sito True
Ucraine consente l’invio di articoli, fotografie, file audio
e video, e si presenta così: «Invitiamo ogni persona non indifferente
alle sorti dell’Ucraina a esprimere i propri pensieri, emozioni e a
condividere impressioni sugli eventi che stanno accadendo nel paese.
Abbiamo bisogno dei vostri pensieri, fotografie, materiali video e
audio». Non mancano blog dalla Russia e dall’Europa dell’Est (Le
Sabot Post-Moderne,
Scrap
of Moscow,
BalticBlog), dal Caucaso e dall’Asia
centrale (Registan,
Blogrel,
Ceceniasos,
Central Asia Democracy Project). I blog
non significano solo accesso a un’informazione esterna, ma anche
informazione condivisa e scambiata, idee che circolano all’interno dei
regimi, comunicazione orizzontale fra individui, fino a renderli in
grado di diventare protagonisti della politica nei loro paesi. E’ tutta
qui la forza dirompente dei blog. Rebecca MacKinnon, autrice del blog
North
Korea Zone, ha spiegato che «una persona assorbe e rielabora
l’informazione a un livello assai più profondo se può anche essere
coinvolta in una discussione su di essa, e anche di più se fa il passo
successivo di articolare il proprio pensiero scrivendo in uno spazio
pubblico».
Se una dittatura permette questa circolazione di informazioni e idee ha
i giorni contati. E’ infatti il controllo della produzione, della
distribuzione e della circolazione delle informazioni e delle idee ciò a
cui i dittatori non possono proprio rinunciare per conservare il proprio
potere e, insieme alle strutture militari, la maggiore voce di spesa. Se
nel corso dell’ultimo secolo i regimi hanno sempre più affinato l’uso di
strumenti di controllo e di propaganda nelle loro mani – pensiamo a
mezzi di comunicazione di massa come stampa, tv, radio – i mezzi più
moderni di comunicazione (Internet, tv satellitare, telefonia mobile)
tendono a sfuggire al controllo delle autorità e mettono in crisi il
sistema anche dal punto di vista finanziario, a causa delle risorse e
dei costi sempre maggiori necessari al mantenimento di quel controllo.
Con le stesse dinamiche osservate per il crollo del consenso nell’Unione
Sovietica, assistiamo oggi alla crescita nel mondo arabo della
percezione del proprio sottosviluppo nei confronti non solo del ricco
Occidente, ma anche dell’Oriente asiatico in rapido sviluppo.
Tuttavia, il futuro non è così roseo, i regimi non stanno a guardare con
le mani in mano mentre le nuove tecnologie li privano del controllo
sulle società e si attrezzano per affrontare le nuove sfide, con qualche
successo. Da parte nostra quindi, sarebbe un grave errore adagiarci
sulle conquiste e i cambiamenti che scorgiamo all’orizzonte. Nel libro
Open Networks, Closed Regimes (Carnegie Endowment for International
Peace, 2003) Shanthi Kalathil e Taylor Boas, osservando la situazione di
Cina, Cuba, Singapore, Vietnam, Birmania, Emirati Arabi Uniti, Arabia
Saudita ed Egitto, hanno concluso che «internet non è necessariamente
una minaccia per i regimi autoritari […] che hanno avuto un discreto
successo nel limitarne l’accesso». Al contrario del luogo comune che
vuole Internet di fatto incontrollabile per qualsiasi autorità centrale,
i fatti dimostrano che alcuni Stati, soprattutto la Cina e l’Iran, hanno
messo a segno qualche colpo importante nel controllo dell’uso dei blog e
di Internet in generale.
Le contromisure dei
regimi
Un esempio emblematico è quello cinese, illustrato dal blog
Phastidio.net.
La Cina conta attualmente 94 milioni di navigatori Internet, agevolati
dall’ampia disponibilità di linee telefoniche: tra fisso e mobile se ne
contano 667 milioni, una ogni 1,9 abitanti. Quando un utente digita, nel
titolo di un post, le parole cinesi che equivalgono a “libertà” o
“democrazia”, ottiene un messaggio d’errore che recita: «Dovete inserire
un titolo per il vostro contenuto. Il titolo non deve contenere
linguaggio proibito. Si prega di digitare un titolo differente».
BlogChina.com, l’operatore di un servizio blog basato a Pechino, che
negli ultimi due anni ha aumentato il numero degli utenti registrati da
trecentomila ad oltre 2 milioni, impiega 10 dei 210 dipendenti al
monitoraggio a tempo pieno dei contenuti dei post, per verificarne la
rispondenza alle leggi sulla censura. La censura comprende livelli
multipli di controllo e regolamentazione, tecnica e legale, dai
cybercafè fino al backbone di Rete. Le regolamentazioni proibiscono agli
utenti di «incitare al rovesciamento del governo e del sistema
socialista», «danneggiare l’unità nazionale», «distruggere l’ordine
della società», «promuovere superstizioni feudali» e «danneggiare la
reputazione degli organi dello Stato», secondo quanto pubblicato sul
sito del ministero della Pubblica Sicurezza.
L’Internet-polizia cinese non si limita a monitorare i siti web, ma
dispone anche di software per individuare delle keyword “sovversive”
nelle e-mail e nei download. Il governo dispone anche di squadre di
propaganda che agiscono sotto copertura nelle chat per “pilotare” e
sorvegliare le discussioni. Quando il controllo sulla circolazione di
informazioni e idee è fragile, anche una piccola dose può avere un
effetto dirompente sul comportamento politico dei cittadini, ha
osservato
Daniel Drezner. Solitamente i cittadini
di uno Stato autoritario sono riluttanti ad agire contro il loro governo
per paura di non avere seguito presso il resto della popolazione. Gli
scienziati politici parlano di information cascade, Elisabeth
Noelle-Neumann di “spirale del silenzio”. Per questo nelle società
chiuse i cittadini spesso subiscono l’oppressione senza sapere che ampi
settori dell’opinione pubblica vedrebbero con favore un’azione
coordinata contro l’oppressore. L’uso di Internet e di telefoni
cellulari, favorendo la diffusione di informazione politica e il
coordinamento delle opposizioni, può rompere la “spirale del silenzio”.
Internet e i blog, conclude Drezner, indubbiamente non sono immuni da
nuove possibilità di coercizione dei governi, ma i preesistenti mezzi di
coercizione sono tali per cui il beneficio marginale risulta più basso
per i governi che per gli attori non-governativi: «Il flusso libero di
informazione reso possibile dalle tecnologie odierne non può essere un
elemento positivo per coloro che esercitano il potere sopprimendo la
libertà». Dall’esperienza dei blog e dall’uso delle nuove tecnologie
della comunicazione da parte di tutti coloro, individui o movimenti, che
ritengono la democrazia e lo stato di diritto necessità storica e
diritti naturali del proprio popolo e del resto del mondo, la politica
estera dei governi e i media tradizionali dovrebbe trarre qualche
insegnamento. Basta soldi ai dittatori; sostenere lo sviluppo e la
penetrazione delle “armi” democratiche più temute dalle dittature, le
“bombe” dell’informazione e della circolazione delle idee; rappresentare
alle nostre opinioni pubbliche quelle storie di «alta lotta umana» che è
dovere dell’occidente sostenere, dal punto di vista morale, politico e
finanziario.
25 ottobre 2005
Federico Punzi, collaboratore di Radio Radicale e
titolare del blog
JimMomo |