I ragazzi in pigiama che
stanno cambiando gli Stati Uniti
di Christian Rocca
da
Ideazione, settembre–ottobre 2005
Ne avete sentito parlare così tanto che probabilmente vi è già venuto a
noia. Eppure non avete ancora visto nulla. Sappiate, anzi, che in
America la rivoluzione dei weblog è ancora nella sua fase di gestazione.
Siamo soltanto all’inizio, insomma, del fenomeno blog e soprattutto del
suo impatto nella vita sociale e politica d’Oltreoceano. E non solo
perché ogni minuto nasce un nuovo giornale-diario personale on line.
Piuttosto, considerate questo: fino all’anno scorso quasi tutti dicevano
che Internet avrebbe cambiato la politica, quantomeno quella americana,
per sempre. Ora, con l’esperienza delle elezioni presidenziali alle
spalle, sappiamo che quelle non erano chiacchiere al bar e ci siamo resi
davvero conto che Internet ha modificato alcuni importanti aspetti della
politica americana. Ora resta da capire se il cambiamento sia stato in
meglio o in peggio. La risposta non è, come potrebbe apparire, scontata.
Intanto dividerei la questione in due punti, cioè distinguerei l’effetto
che i blog hanno avuto sulla politica dall’impatto sul mondo
dell’informazione.
Cominciamo dalla politica. Credo che, fin qui, l’impatto sia stato
enorme, ma negativo. Se è vero, infatti, che il flusso di informazioni
sui candidati, sui loro programmi, sulle loro idee ha certamente
migliorato il rapporto tra elettore e candidato, nonché le capacità di
autofinanziamento e organizzative dei comitati elettorali, è altrettanto
vero che aver spostato il baricentro della campagna politica sulla Rete,
a danno delle più tradizionali forme di comunicazione e del classico
porta a porta, ha fatto perdere ai candidati il contatto con la realtà,
una realtà che quasi sempre è molto diversa da quella rappresentata o
che ha voce nella comunità virtuale. Il punto è che non c’è niente di
più lontano dalla vita reale del mondo descritto sulla Rete. Chi non se
ne accorge entra in un vicolo cieco che finisce necessariamente per
corrompere il messaggio politico, specie se ci si lascia convincere che
quel mondo telematico sia un microcosmo di quello reale. L’ha spiegato
molto bene Markos Moulitsas, proprietario e fondatore del più cliccato
blog politico d’America, Daily Kos, seicentomila contatti quotidiani per
un sito che, secondo i canoni americani, è di estrema sinistra.
A un certo punto, e a malincuore, Moulitsas ha dovuto ammettere che la
comunità dei blogger «vive in un mondo diverso» da quello popolato da
gente in carne e ossa. La prova di tale affermazione, Moulitsas l’ha
trovata in un sondaggio pubblicato da Time Magazine secondo cui il 79
per cento degli americani non ha mai sentito nominare Ann Coulter, la
corrosiva columnist di destra che è al centro di ogni battaglia
culturale tra i blogger conservatori e quelli liberal. Quella ricerca
dimostrava come il personaggio più noto, più amato e più odiato della
blogosfera americana (e non solo) fosse totalmente sconosciuto
all’America vera. Ma a voler metter di fila gli aspetti negativi della
svolta internettiana della politica, una rivoluzione peraltro accelerata
dall’esplosione dei blog, c’è di più e anche di peggio. L’esempio è
quello dei Democratici. Alla fine del 2003, il velleitario candidato
dell’ala liberal del partito, Howard Dean, grazie al suo manager Joe
Trippi, ha deciso di sfidare l’establishment del partito puntando tutte
le sue scarse carte politiche su Internet, sui blog, sulla mobilitazione
telematica dei giovani trasformati in militanti a distanza e,
soprattutto, sulla formidabile idea di usare la Rete come collettore di
finanziamenti dal basso.
Una mossa geniale, anche perché ha consentito ai Democratici di accedere
ai piccoli contributi dei singoli cittadini che sono sempre stati uno
dei punti di forza del fund-raising dei Repubblicani. In questo modo, e
da questa sua nuova costituency di giovani, carini e incavolati neri con
George Bush, Dean ha raccolto circa 40 milioni di dollari e per alcuni
mesi è sembrato inarrestabile. I giornali non hanno perso occasione per
dimostrare di essere a loro volta scollegati dalla realtà, e hanno
sprecato pagine per annunciare l’ineluttabile vittoria di Dean. Eppure
alla prima prova fuori dal mondo virtuale, vale a dire in occasione del
caucus in Iowa e delle primarie in New Hampshire, la bolla di Dean si è
sgonfiata come si era sgonfiata la bolla speculativa di Internet qualche
anno prima. Nonostante tutti quei soldi e quel can can telematico, Dean
è stato letteralmente sepolto dai voti di John Kerry e di John Edwards e
non si è mai più ripreso. La sua campagna sarà ricordata per quell’urlo
belluino successivo alla sconfitta, un segnale di inaudito stupore che
dimostrava come Dean proprio non si aspettava che l’America liberal
fosse così diversa da quella che gli raccontava la Rete. Fin qui poco
male.
Ma il danno che la rivoluzione internettiana ha fatto alla politica dei
Democratici non si è fermato a Dean. Quel patrimonio di conoscenza e di
indirizzari Internet e di collaboratori e di militanti mobilitati sulla
Rete si è trasferito, sebbene senza entusiasmo, sul candidato
considerato il più “presidenziale” tra i Democratici, cioè su John
Kerry. Eppure, nonostante il vento della rivoluzione in poppa, Kerry ha
perso lo stesso. Il fronte Bush, dal canto suo, ha utilizzato Internet
in modo più tradizionale, se così si può dire di uno strumento nuovo:
per costruire cioè un indirizzario di 7 milioni e mezzo di elettori. A
differenza dei Democratici, i Repubblicani non hanno finanziato siti e
blog politici per mobilitare gli elettori. Con i soldi, piuttosto, hanno
costruito una fenomenale rete di volontari locali che ha sezionato,
analizzato e mobilitato il paese contea per contea. Nel partito di Bush
non c’è stato l’equivalente innamoramento per siti come meetup.org e
moveon.org, giudicati dall’altra parte come la chiave di volta per
entrare alla Casa Bianca.
E nessuno ha finanziato blog indipendenti come hanno fatto i Democratici
con Daily Kos. Le voci del 2 novembre, a seggi ancora aperti, di una
vittoria imperiosa di John Kerry su Bush, le stesse che hanno convinto
tutti i giornali italiani (tranne uno) a sbagliare titolo e presidente,
sono nate esattamente da questa dipendenza della politica dai blog. è
stata Ann Marie Cox di Wonkette, un weblog liberal di gossip politico, a
raccontare al resto del mondo, compreso quello reale che c’è cascato in
pieno, di un “un uccellino” che le aveva dato per certa la vittoria di
Kerry. L’uccellino, si è scoperto dopo, era un funzionario del Partito
democratico. Sarebbe bastato dare un’occhiata attenta a quei dati per
capire che non potevano essere rappresentativi di alcunché, eppure la
notizia diffusa da un blog amico dei Democratici ha fatto un istantaneo
e inarrestabile giro del mondo. I blog quindi hanno vinto la partita,
sono diventati fonti autorevoli, ma essersi affidati a loro è stato un
disastro strategico e politico: i Democratici non hanno soltanto
sprecato denaro ed energie, ma all’improvviso si sono trovati a essere
dipendenti, politicamente e finanziariamente, da un settore della
società americana molto più radicale ed estremista della sua media
nazionale.
Sulla Rete, infatti, i siti e i blog di sinistra hanno un unico
collante, l’odio nei confronti di Bush, e un unico obiettivo, quello di
attaccare senza se e senza ma tutto ciò che fanno i Repubblicani e
mettere all’indice ogni politico Democratico che non impugni la spada
contro l’usurpatore texano. I blog di sinistra rappresentano una specie
di Girotondo virtuale che detta e impone un’unica politica ai suoi
rappresentanti: l’odio e il disprezzo assoluto per l’avversario. Una
politica che difficilmente può portare alla vittoria. Uso l’indicativo
presente perché il fenomeno è ancora in corso, e non solo perché Howard
Dean è stato eletto presidente del Comitato nazionale del partito. Ci
sono casi più recenti, come quello del senatore Dick Durbin, noto alle
cronache per aver paragonato il campo di prigionia di Guantanamo ai
lager e ai gulag nazisti e comunisti. Grazie a tali stupidaggini, Durbin
è diventato l’eroe dei blog di sinistra, di quei siti dove ogni accusa
nei confronti di Bush – anche la più strampalata e la più iperbolica –
viene presa in considerazione, rilanciata e moltiplicata fino a quando
non ne arriva un’altra ancora più fantasmagorica. Durbin e il suo staff
hanno provato a cavalcare l’onda, a sintonizzarsi con quel mondo, a
sentirsi moderni, ma ne sono rimasti travolti.
Come ha scritto Dean Barnett sul Weekly Standard, non c’era bisogno di
raffinati consulenti elettorali per capire che inseguire chi sostiene
che le politiche di Bush sono simili, se non peggiori, a quelle di
Hitler, Stalin o Pol Pot avrebbe trasformato chiunque in un perdente.
Eppure Durbin e i suoi erano convinti di aver trovato una nuova base
elettorale quando il titolare di Daily Kos scrisse: «Sto orgogliosamente
con Durbin». Il senatore organizzò anche una conference call con molti
blogger di sinistra. Era certo di essersi guadagnato la loro fiducia
eterna, così quando fu costretto dai sondaggi e dal partito a chiedere
scusa nell’aula del Senato per quelle sue frasi su Guantanamo, non si
aspettava che sui blog gli elogi dei giorni precedenti si trasformassero
in insulti inverecondi. Insomma, se è vero che seicentomila lettori al
giorno sono un risultato straordinario per Daily Kos, non bisogna mai
dimenticare che si tratta pur sempre di una goccia insignificante se
questi seicentomila contatti si contano in una prospettiva elettorale
nazionale.
Altra cosa è l’impatto dei blog sull’informazione. I blog non hanno
soltanto cambiato il modo di fare i giornali, l’hanno migliorato. E il
merito è dei blogger conservatori. A differenza di quelli liberal,
interessati soltanto ad abbattere Bush e la sua Amministrazione, i
blogger di destra sono i veri rivoluzionari della Rete. Il loro
obiettivo non è l’avversario politico né il sostegno al proprio partito.
Ciò che li unisce è l’odio nei confronti della stampa tradizionale e dei
giornalisti professionisti, giudicati come una quinta colonna degli
interessi liberal. Spesso a ragione, sono convinti che il New York
Times, la Cnn, la Cbs e quasi tutti gli altri grandi organi di stampa,
abbiano un pregiudizio di sinistra. Il loro gioco, la loro ragione
sociale, è smascherare questo bias, questo pregiudizio. Così mentre i
blog liberal hanno spostato a sinistra l’asse dei Democratici,
indebolendoli, quelli conservatori hanno assestato un’infinità di colpi
alla credibilità della stampa liberal. Il risultato più evidente di
questo ruolo di cane da guardia della correttezza dei Mainstream Media
(Msm) è quello di aver convinto la stampa tradizionale a stare più
attenta prima di imbarcarsi in operazioni ideologiche e di scarsa etica
giornalistica.
Dentro le redazioni ora si avverte il fiato sul collo dei blog e i
giornalisti sanno che le scorrettezze avranno vita breve. Si deve ai
blog conservatori Free Republic, Power Line e Little Green Footballs,
per esempio. la campagna che sotto elezioni ha costretto alle dimissioni
Dan Rather della Cbs. Il decano dei telegiornalisti americani aveva
fatto uno scoop anti-Bush, mostrando in tv un documento del 1972 della
Guardia Nazionale che svelava i favoritismi ricevuti dal presidente ai
tempi del suo servizio militare. Poche ore dopo lo scoop, i tre blogger
hanno avanzato dubbi sull’autenticità di quel documento e hanno scoperto
che si trattava di un falso. Rather e la Cbs prima hanno prima accusato
i Repubblicani di complotto, poi hanno negato, infine dopo 11 giorni di
bombardamento telematico hanno dovuto ammettere il falso. I Msm avevano
cercato di abbattere Bush, ma sono soltanto riusciti a screditare se
stessi. I blog conservatori sono più credibili dei loro dirimpettai
liberal anche per un altro motivo: a destra non c’è un sito dominante
come Daily Kos e non c’è un’ortodossia conservatrice da rispettare. I
primi quattro o cinque blog conservatori viaggiano intorno ai cento o
duecentomila lettori al giorno.
Il principale è Istapundit, curato dal professore di Legge
all’Università del Tennessee, Glenn Reynolds. Istapundit sostiene la
guerra al terrorismo di Bush, ma dissente dal presidente su aborto,
ricerca sugli embrioni e matrimonio omosessuale. Stessa cosa per
un’altra blogstar conservatrice come Andrew Sullivan: alle elezioni ha
addirittura sostenuto Kerry. Il livello di dibattito e di discussione
che si trova su The Corner, il blog della National Review, non si trova
da nessuna altra parte del lato sinistro della blogosfera. Su quel
fronte piuttosto è nato The Huffington Post, un blog collettivo scritto
da ricchi, belli, famosi di Hollywood, guidati da Arianna Huffington,
una saggista e giornalista di origine greca. Nel collettivo di Beverly
Hills ci sono Diane Keaton, Norman Mailer, Larry David, Walter Cronkite,
Warren Beatty, Bill Maher, Al Franken, Bob Kennedy junior, attori,
produttori, autori televisivi, comici, giornalisti, politici e finanche
l’editrice di Playboy, Christie Hefner. Tutta gente che non ha certo
bisogno di un mezzo indipendente e alternativo come il blog per far
conoscere il proprio pensiero.
Ma i liberal sono fatti così: controllano l’editoria, i giornali, la
televisione e il cinema eppure sono sinceramente convinti di essere dei
diseredati senza voce. Molto più interessante, invece, è la fase 2
immaginata dai blogger che svelarono il falso scoop di Rather: un
progetto di business chiamato Pajamas Media. La nuova fase sarà in
pigiama perché un alto dirigente della Cnn aveva definito i blogger dei
«ragazzini in pigiama seduti in tinello». Un modo sprezzante per dire
che il parere di questi pischelli non interessa a nessuno. Eppure i
pischelli avevano visto giusto, tanto che ora sia il New York Times sia
il gruppo Murdoch hanno deciso di investire nel settore e di sfruttare
le potenzialità del mezzo. L’idea di Pajamas Media è mettere insieme
quanti più blog possibili, e in tutto il mondo, per provare a vendere
gli spazi pubblicitari in blocco, sfruttare l’onda lunga dei
piccolissimi blog e speculare sulla forza d’urto dei venti milioni di
lettori quotidiani. Pajamas Media non vuole soltanto raccogliere
pubblicità, ma pensa di attaccare i Mainstream media sul loro terreno,
invadendo a pagamento gli spazi di giornali, tv e radio grazie a un Blog
News Service, una specie di agenzia di stampa che fornisca ai media
tradizionali i contenuti dei loro blog.
25 ottobre 2005
Christian Rocca,
giornalista e saggista, è inviato speciale de Il Foglio. E’ titolare del
blog
Camillo. |