Tramonto zapateriano
di
Enzo Reale
[21 nov 05]
da
Ideazione, novembre-dicembre 2005
Questa è la cronaca di un disastro annunciato. È la storia di
un’involuzione, di un ripiegamento su se stessi, di una fuga dalla
realtà camuffata da progresso, la sintesi e la proiezione della crisi di
un continente. È il caso spagnolo dentro il dossier Europa.
«Il nostro destino è in Europa», assicurava l’allora leader
dell’opposizione José Luis Rodríguez Zapatero in campagna elettorale;
«La Spagna torna in Europa e con l’Europa», ribadiva un emozionato
Miguel Ángel Moratinos all’indomani dell’inattesa vittoria del 14 marzo.
Non una semplice professione di fede nelle istituzioni comunitarie ma
piuttosto una dichiarazione programmatica ispirata ad una drastica
volontà di rottura con il passato recente: il ritorno in Europa
si inseriva necessariamente – nella concezione di chi lo propugnava – in
quella sistematica opera di demolizione dell’eredità politica di Aznar
che da venti mesi sta segnando l’operato del governo socialista e del
suo presidente. Le parole sono importanti. Ritornare in un luogo
implica l’essersene allontanati in precedenza. Agli occhi di Zapatero e
dell’opinione pubblica maggioritaria nel paese l’alleanza con gli Stati
Uniti significava l’interruzione dei vincoli di solidarietà europea, la
fuoriuscita ingiustificata dai salotti della diplomazia franco-tedesca e
del mondo perbene, quello in cui «non si mettono i piedi sul
tavolo»
(nota 1)
della legalità internazionale con la scusa di abbattere un dittatore.
Bastano ventiquattr’ore per porre fine all’avventura neocoloniale
in Iraq e per conquistare la fiducia dell’asse Parigi-Berlino. Il primo
atto di Zapatero come capo dell’esecutivo è anche il punto di non
ritorno del suo mandato. Con il ritiro immediato delle truppe la nuova
ideologia al potere si presenta alla Spagna e alla comunità
internazionale: ciò che agli spagnoli (compresi quelli che non hanno
votato socialista) viene venduto come il compimento di una promessa
elettorale
(nota 2),
rappresenta allo stesso tempo la violazione di un patto, l’abbandono
degli iracheni alla barbarie terrorista, la resa agli stragisti di
Atocha ed il trionfo della logica del disimpegno e dell’appeasement.
In una parola, lo zapaterismo.
Ma da dove nasce questa malattia infantile del progressismo?
Paradossalmente dalle ceneri di due fasi storiche in apparenza
antitetiche: il franchismo e il felipismo. Con la morte di Franco la
Spagna si riscopre di sinistra: gli anni della transizione sono un
periodo necessario per riorganizzare le forze ma le elezioni del 1982
sanciscono il definitivo passaggio di consegne. Felipe González
governerà per quasi tre lustri. Ma non è tanto nelle istituzioni
politiche quanto nel tessuto sociale che si produce la conversione e con
essa quel ricatto morale di cui questo paese non si è mai liberato:
l’opposizione al franchismo (vera o presunta, attiva o passiva) consegna
a chi l’ha esercitata una patente di legittimità democratica perpetua
attraverso cui riscrivere il passato, modellare il presente e imporre la
propria egemonia culturale in prospettiva futura. Quando vince di misura
le elezioni del 1996 su un Partito socialista piagato dalla corruzione
politica e finanziaria
(nota 3),
Aznar inaugura una parentesi storica certamente significativa e
destinata con ogni probabilità a prolungarsi in assenza delle bombe di
Madrid, ma pur sempre provvisoria nella coscienza collettiva degli
spagnoli. Gli anni di governo del Partito popolare si caratterizzano
essenzialmente per il rilancio di un miracolo economico con pochi eguali
nell’esperienza europea: risanamento delle finanze pubbliche,
spettacolare diminuzione del tasso di disoccupazione, costante aumento
del prodotto interno lordo, riforme fiscali e mantenimento
dell’equilibrio sociale, aspetti che fanno della Spagna un modello
virtuoso di liberalizzazione e sviluppo. In un simile contesto la
schiacciante maggioranza ottenuta da Aznar nel 2000 è il risultato –
oltre che dello stato confusionale dell’opposizione – del voto più utile
che esista, quello del portafoglio: stiamo meglio adesso o quattro anni
fa, si chiesero gli spagnoli? La risposta era chiara.
L’errore di Aznar: non combattere la battaglia
delle idee
Ma in otto anni Aznar non trova il tempo non solo di combattere ma
neppure di concepire un’altra battaglia di fondamentale importanza:
quella delle idee. Un’omissione imperdonabile che costa al suo partito
la continuità al potere e alla Spagna un’opportunità di riscatto. Basti
un esempio: se oggi il Grupo Prisa di Jesús Polanco – attraverso la
concentrazione e il controllo dei principali mezzi di comunicazione del
paese – è una poderosa macchina di formazione del consenso e di
indottrinamento al servizio della sinistra
(nota 4),
lo si deve anche all’acquiescenza dimostrata da Aznar di fronte al
consolidarsi della sua posizione dominante.
Si capisce allora come, senza aver fornito un solo contributo originale
al dibattito politico degli ultimi dieci anni, la izquierda si
ritrovi al governo: forte di un monopolio ideologico quasi
incontrastato, si è semplicemente affidata alle circostanze. Per questo
la definizione di premier per caso
(nota 5)
connota ma non esaurisce il fenomeno Zapatero. È vero infatti che –
nonostante tutto – a catapultarlo alla Moncloa è stata solo l’onda
d’urto degli zainetti esplosivi dell’11 marzo unita ad una
strumentalizzazione politica e mediatica senza precedenti in chiave
antigovernativa: in fondo non aveva altro da offrire agli spagnoli che
un po’ di retorica pacifista (peraltro apprezzata); ma è altrettanto
palese che il 14 marzo il sentimento prevalente nella società si è
ricongiunto con le istituzioni politiche. Non è stato difficile per
Zapatero voltare la pagina dell’era Aznar, un leader della modernità
trattato come un male necessario da un paese destinato a rimpiangerlo: è
bastato dichiarare fallimentare contro ogni evidenza il bilancio del suo
predecessore e, approfittando del vuoto prodottosi nel suo partito nel
dopo-Felipe González, ripercorrere a ritroso le tappe principali
dell’affrancamento della sinistra dalle sue tare ideologiche
(nota 6)
per proporsi in versione caudillesca alla guida del neo-populismo
in salsa iberica.
Il caudillo neo-populista in salsa iberica
Sostiene Carlos Alberto Montaner
(nota 7)
che i neopopulisti hanno rinunciato alla razionalità e all’esame della
realtà perché risultavano loro troppo incomodi. In cambio si sono
appropriati di un discorso dai tratti quasi teologici autoproclamandosi
difensori del bene e del giusto indipendentemente dalle conseguenze
delle loro azioni. Lo scrittore cubano si riferisce alla situazione
latinoamericana ma il discorso è applicabile alla Spagna di Zapatero. Il
paragone farebbe inorridire più di uno da queste parti, però sono i
fatti a parlare: non c’è decisione del governo socialista che non sia
dettata dall’ideologia, si tratti di politica estera, di questione
nazionale o di diritti civili. Se la Spagna fosse una nazione liberale
un esperimento politico di questo genere avrebbe vita breve, ma in un
contesto in cui storicamente i concetti di libertà, responsabilità
individuale e società civile sono sempre stati subordinati ad una
visione organicistica dello Stato, la deriva zapateriana si nutre di
un’elevata dose di conformismo sociale e dell’assenza di una cultura
critica alternativa al pensiero unico. Sullo scenario internazionale la
situazione è francamente sconfortante. Se si pensa al ruolo di primo
piano giocato dalla Spagna a fianco delle grandi democrazie occidentali
fino al ribaltone, si fatica a credere che oggi la politica estera di
Madrid ruoti attorno all’alleanza di civiltà, un concetto così
inconsistente e indefinito da suscitare l’entusiasmo di Kofi Annan e
meritare una menzione d’onore nel documento conclusivo della
sessantesima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Se si trattasse
solo del giocattolo che Zapatero mostra agli amici nelle occasioni che
contano non sarebbe il caso di preoccuparsi troppo. Il problema è che
dietro questo uso disinvolto del linguaggio e dei buoni sentimenti si
cela una pericolosa incapacità di comprendere il fenomeno terrorista e
la guerra in corso. L’alleanza di civiltà vorrebbe essere la
risposta multilaterale a quello che la classe dirigente spagnola
evidentemente considera uno scontro di civiltà alimentato dalle
azioni americane. Morale della favola: il terrore è un accidente della
storia che è inutile o addirittura controproducente provare a
combattere, l’obiettivo è non esporsi, le cause sono sociali e le colpe
occidentali, l’esportazione della democrazia è un atto di prepotenza. Il
terzomondismo di maniera si fa programma di governo. Da qui
all’abbraccio con i dittatori il passo è breve: Moratinos rende omaggio
alla tomba dell’amico Arafat e critica il muro israeliano; la
Spagna promuove all’Unione Europea l’alleggerimento delle sanzioni
diplomatiche contro il regime castrista; le visite istituzionali a
Caracas si fanno sempre più frequenti, la vendita di armamenti anche
(tra pacifisti ci s’intende) mentre Chávez riceve un’accoglienza da
statista a Madrid; le rivendicazioni del Sahara occidentale sono
sacrificate sull’altare della nuova ed eterna alleanza con il Marocco di
Mohammed VI che ricambia con le porte aperte al passaggio di emigranti
alle frontiere di Ceuta e Melilla (dove il muro non è più muro).
Zapatero è l’uomo del dialogo sempre che gli interlocutori non siano gli
iracheni che votano sotto le bombe di al Qaeda o i dissidenti cubani che
chiedono di essere ricevuti nelle ambasciate europee: c’è un mondo fatto
di compromessi morali là fuori, gli individui possono attendere.
Riaperte le ferite della società spagnola
Non poteva attendere invece – per tornare alla teoria del destino
manifesto – il referendum sul trattato costituzionale europeo che la
Spagna ha ratificato nel febbraio scorso. Zapatero ci teneva ad essere
il primo della classe e ha fatto le cose in grande stile con spot
elettorali, discorsi sull’importanza dell’avvenimento, perfino bibite
energetiche per stimolare gli elettori. È mancata una sola cosa ma in
democrazia non è importante: il dibattito pubblico sulle ragioni del sì
e del no. In sostituzione la campagna del governo si è servita degli
illuminati contributi del presidente socialista del parlamento europeo,
il catalano Josep Borrell, che andava in televisione a dire che un no
avrebbe significato la vittoria dei neoconservatori americani. Infatti
ha vinto il sì, con un quarantadue per cento di partecipazione
presentato al pubblico come un grande successo: il primo vagone della
locomotiva Europa era partito. Tutto è relativo, si sa, nel nuovo corso
progressista.
Perfino il sesso. Sì, avete capito bene. Dal 30 giugno scorso l’identità
sessuale in Spagna è una convenzione. Si potrebbe discutere a lungo
sull’opportunità e la necessità della riforma che equipara il matrimonio
omosessuale a quello eterosessuale ma in questa sede è più interessante
capire come si è arrivati all’approvazione della legge. Il primo passo è
stato quello di interpretare come diritto tout court le
rivendicazioni dei rappresentanti del collettivo gay in ambito
matrimoniale, con la conseguenza che l’impossibilità di usufruire della
stessa qualificazione giuridica (perché di questo si trattava) implicava
di per sé una discriminazione da eliminare dall’ordinamento. Occorreva
però superare il problema della diversità biologica tra i sessi. Il
governo ha pensato che fosse più semplice ignorarlo, determinando così
la paradossale situazione per cui, per estendere un istituto giuridico
ad uno specifico settore della società che fino a quel momento non vi
poteva accedere, si è proceduto ad un capovolgimento della teoria
liberale in materia di diritti civili: invece di riconoscere uguali
diritti nella diversità, si è scelto di annullare la diversità in nome
del riconoscimento di un preteso diritto. A questo punto la strada era
aperta ed è stata sufficiente una semplice modifica lessicale: dove
c’erano moglie e marito la neolingua ha previsto il termine di
coniugi, dove padre e madre quello di genitori. Tutto
rigorosamente neutro, tutto concettualmente depurato. Questa operazione
dal nemmeno troppo sfumato sapore totalitario è avvenuta, manco a dirlo,
nella più totale assenza di dibattito e di confronto. Le voci
dissenzienti sono state tacitate senza troppi complimenti. Quando un
milione di persone si sono date appuntamento a Madrid per la
manifestazione in difesa della famiglia, dimostrando che la
normalizzazione delle menti incontra ancora qualche resistenza e che la
pretesa di rappresentare eticamente l’intera società può produrre a
volte un brusco risveglio, la reazione del governo si è limitata alle
sprezzanti considerazioni della vicepresidente María Teresa Fernández de
la Vega: «Chi scende in piazza oggi lo fa per esigere che si neghi un
diritto ad altre persone». Scomunica socialista. Perché nel paese in cui
per avere diritto ad un’opinione rispettabile devi essere di sinistra o
nazionalista, il popolo non è più popolo quando invece che contro la
guerra si esprime contro la pretesa dello Stato di ergersi ad unico
arbitro della convivenza civile. Spesso, anche da posizioni critiche, si
tenta una giustificazione degli eccessi dello zapaterismo in base al
principio della volontà della maggioranza: Zapatero agisce in un certo
modo, si dice, perché interpreta il sentimento prevalente nella
popolazione. Abbiamo già sottolineato come questa coincidenza sia
generalmente riscontrabile ma l’analisi pecca ugualmente di
superficialità. Innanzitutto un liberale dovrebbe inorridire al solo
pensiero che il ruolo della legge sia imporre la volontà della
maggioranza anziché proteggere l’individuo dagli abusi del potere
pubblico: Zapatero ha la società a favore, ciononostante governa
costantemente contro; in secondo luogo va chiarito che nello
schema ideologico dello zapaterismo contano solo le maggioranze conformi
e le minoranze politicamente corrette. Gli spagnoli si dichiarano in
maggioranza cattolici ma questo non impedisce a Zapatero di lanciare la
sua campagna per il laicismo di Stato e per l’emarginazione della Chiesa
dalla vita pubblica. Non si capisce perché, ad esempio, per promuovere
l’emancipazione di omosessuali e transessuali, per rendere il divorzio
una pura formalità, per ridimensionare drasticamente l’insegnamento
della religione, sia necessario etichettare le posizioni ecclesiastiche
come «piene di forfora»
(nota 8),
a meno di non considerare che l’intenzione dell’attuale classe dirigente
sia proprio quella di arrivare ad una resa dei conti con quei settori
della società non inclini all’obbedienza. La sensazione che Zapatero
voglia vincere la guerra civile settant’anni dopo si fa ogni giorno più
concreta: purtroppo è un gioco pericoloso che può anche sfuggire di
mano. In Spagna da sempre il fuoco cova sotto la cenere.
Il cedimento verso le rivendicazioni autonomiste
Per rendersene conto basta osservare cosa resta di quello Stato delle
autonomie che per molti anni è stato considerato un modello di
equilibrio tra poteri centrali e locali. La leggerezza dimostrata da
Zapatero nella gestione delle rivendicazioni nazionaliste provenienti
soprattutto dai Paesi Baschi e dalla Catalogna – ma adesso anche dalla
Galizia – ha contribuito in modo decisivo all’esplosione della più grave
crisi istituzionale che questo paese abbia conosciuto dal ritorno della
democrazia. Una crisi da cui, dopo la recente approvazione del nuovo
statuto catalano da parte del Parlament di Barcellona a
maggioranza social-nazionalista
(nota 9),
appare sempre più difficile individuare una via d’uscita indolore.
L’irresponsabile cedimento del governo sulla questione nazionale e sui
principi essenziali dell’integrità territoriale è determinato
principalmente da tre fattori: la necessità di blindare la maggioranza
parlamentare con l’appoggio delle formazioni nazionaliste; la volontà di
isolare politicamente il Partito popolare; la strutturale incapacità di
rinunciare al discorso demagogico per concentrarsi sull’analisi e la
soluzione dei problemi reali. Sapeva Zapatero quel che stava dicendo
quando in piena campagna elettorale
(nota 10)
promise che – con lui al governo – il parlamento di Madrid avrebbe
recepito senza modifiche qualsiasi riforma statutaria la Catalogna
avesse approvato? Certo, non pensava di vincere quattro mesi dopo. Ma
allora, era cosciente di come sarebbero state lette a Vitoria o a
Barcellona le sue dichiarazioni di presidente del governo quando nel
corso di un dibattito al Senato fece chiaramente intendere che il
concetto di nazione spagnola era da interpretarsi in maniera flessibile
(nota 11)?
Fatto sta che lo statuto catalano votato a fine settembre con la sola
opposizione dei popolari e attualmente in esame al Congresso prevede che
la Catalogna sia una nazione, che disponga di organi superiori di
giustizia, di un’agenzia tributaria propria, di competenze esclusive in
un ampio ventaglio di materie, dall’istruzione al finanziamento
pubblico. Un testo palesemente incostituzionale che, anche se fosse
respinto o approvato con modifiche che lo rendano più digeribile ai
settori non nazionalisti all’interno dello stesso Psoe, è destinato ad
alimentare un fronte di contrasto permanente tra costituzionalisti e
autonomisti. «È solo il primo passo», ci ha tenuto a far sapere
Carod-Rovira, leader della secessionista Esquerra Republicana, e
fondamentale alleato di Zapatero sia a Barcellona che a Madrid
(nota 12).
Giocare con il fuoco del nazionalismo basco
Poi c’è l’eterna questione basca. Da anni la regione governata dal
Partito nazionalista basco (Pnv) e indirettamente dal braccio politico
di Eta (prima Batasuna, poi, per gentile concessione dell’esecutivo,
Partito Comunista delle Terre Basche – Pctv – che è la stessa cosa), è
il buco nero dei diritti civili nell’Europa occidentale. Il clima di
intimidazione ai danni di chi non si riconosce nel progetto
dell’estremismo al potere viene denunciato solo da pochi coraggiosi che
il più delle volte sono poi costretti a vivere scortati o ad andarsene.
Zapatero ne fa una questione di principio: il cosiddetto conflitto
basco deve essere risolto attraverso il dialogo. Con i terroristi, però.
Così, mentre il Patto Antiterrorista stipulato nel 2000 tra le due
principali forze politiche spagnole si rompe per decisione unilaterale
del Psoe il lehendakari Ibarretxe va a Madrid ad esporre il suo
piano secessionista, il governo lavora per fare di Eta – ormai
debilitata dalla linea intransigente di Aznar – un interlocutore
politico a tutti gli effetti. Ufficialmente i contatti non esistono ma
allo stesso tempo Zapatero fa approvare al parlamento una mozione che li
autorizza. Una messinscena recitata ai danni delle vittime del
terrorismo e dei loro familiari che, infatti, scendono in piazza in una
manifestazione multitudinaria per far sentire la voce di quelli che non
ci stanno. Inutilmente, a quanto pare. La risposta del governo è
togliere le sovvenzioni all’Avt (Associazione Vittime del Terrorismo) e
accusare chiunque si opponga alla politica delle concessioni di rompere
il consenso istituzionale.
Questo il quadro per sommi capi, al momento. Se due anni fa c’era
l’Europa nel destino della Spagna, la domanda adesso è quanta Spagna ci
sia nel destino dell’Europa. Da più parti si guarda a Madrid come a un
modello da imitare. È sempre più la Spagna di Zapatero, annunciava
trionfalmente l’Unità lo scorso ottobre citando gli indici di
gradimento degli ultimi sondaggi di opinione. Il problema è che è
proprio così.
Note
1. Così, testualmente, la vicepresidente
del governo María Teresa Fernández de la Vega nel corso di una
conferenza stampa a fine settembre.
2. In realtà Zapatero, sia durante la
campagna elettorale che nelle dichiarazioni successive alla vittoria,
aveva affermato che, nel caso l’Onu non si fosse fatta carico della
situazione in Iraq entro il 30 giugno, avrebbe richiamato i soldati. Una
volta giurato come presidente optò invece per il ritiro immediato. La
risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1546 dell’8 giugno 2004 avrebbe
ribadito l’appoggio al processo politico in corso in Iraq e alla
presenza delle truppe della coalizione già espresso il 16 ottobre 2003
con la risoluzione 1511.
3. Oltre ai numerosi casi di finanziamento
illecito del partito e di arricchimento personale dei suoi membri,
emblematica la vicenda dei Gal (Gruppi Antiterroristi di Liberazione),
impiegati come struttura paramilitare nella lotta contro Eta e autori di
atti di vero e proprio terrorismo di Stato.
4. Appartengono al Grupo Prisa, tra gli
altri, quotidiani come El País, As, Cinco Días, svariate testate locali
e riviste, più di 430 stazioni radiofoniche (la Ser su tutte), 87 canali
televisivi locali, tutta la televisione a pagamento e il gruppo
editoriale Santillana.
5. The Wall Street Journal, editoriale, 25
novembre 2004.
6. Fu con Felipe González che il Psoe
abbandonò definitivamente il marxismo, fu durante il suo mandato che la
Spagna consolidò la sua presenza all’interno dell’Alleanza Atlantica e
partecipò alla coalizione guidata dagli Stati Uniti nella prima guerra
del Golfo.
7. La libertad y sus enemigos, Editorial
Sudamericana, 2005.
8. Dichiarazione radiofonica di José Blanco, segretario
organizzativo del Psoe, l’8 novembre 2004.
9. La Catalogna è governata da una
coalizione di sinistra formata dal Partito socialista, dai Verdi e dagli
indipendentisti di Esquerra Republicana.
10. Comizio al Palau Sant Jordi di
Barcellona, elezioni autonomiche catalane, 14 novembre 2003.
11. Sessione di controllo, 17 novembre
2004.
12. L’uomo della tregua separata con Eta.
All’inizio del 2004 si incontrò a Perpignan con i vertici della banda
per concordare la fine degli attentati, ma solo in Catalogna.
21 novembre 2005
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