Il bivio tedesco
di Pierluigi Mennitti
[14 dic 05]
da
Ideazione, novembre-dicembre 2005
La storia della Germania di questi tempi è un po’ come quella del
bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Dipende da come la si guarda. Il
panorama politico seguito alle elezioni anticipate del 18 settembre ci
offre Angela Merkel, ovvero la novità del primo cancelliere donna della
storia repubblicana tedesca. Ma anche lo spettacolo di una delle più
lunghe trattative politiche per la costituzione di un governo. Dopo 18
giorni s’è sbloccata la vicenda della leadership. E c’è voluto più di un
mese perché la Grosse Koalition prendesse il via, ingolfata dalla
contrattazione sui ministri e sul programma con il quale affrontare la
difficile fase riformista. Bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Il
quadro economico evidenzia il dato più alto di disoccupati dalla fine
della seconda guerra mondiale: ormai si è stabilmente oltre la soglia
psicologica dei 5 milioni di senza lavoro. E allo stesso tempo ci
presenta un’industria nazionale in piena ripresa, rivitalizzata dalla
profonda cura di ristrutturazione operata negli anni scorsi che le ha
restituito competitività a livello internazionale e leadership nel
settore delle esportazioni.
Lo scenario sociale è dominato da un pessimismo psicologico che intacca
la fiducia nel futuro e nella possibilità che le cose migliorino e che
fotografa una Jammertal, una valle del lamento per il bel tempo che fu,
che raggiunge picchi grotteschi: ad Ovest si rimpiange l’efficienza
perduta, ad Est non si sa bene cosa, forse gli scenari edulcorati di
cartapesta del film Goodbye Lenin. Poi si dà uno sguardo alla macchina
organizzativa del Mondiale 2006 e si scoprono gli stadi già bell’e
pronti un anno prima, le infrastrutture in gran parte realizzate e viene
da chiedersi quando sia stata l’ultima volta che un paese incaricato di
preparare un evento sportivo mondiale si sia presentato in anticipo di
dodici mesi con tutte le carte in regola.
Mentre nei palazzi del quartiere politico, tirato su di sana pianta
negli ultimi dieci anni, i leader dei partiti discutono gli ultimi
dettagli del governo di compromesso, le gru hanno ricominciato a
saturare del loro operoso ronzio le strade del centro di Berlino. Il
sibilo metallico dei mezzi meccanici è stata la colonna sonora degli
anni della ricostruzione, una sorta di musica ammaliante che
preannunciava le sorti magnifiche e progressive della capitale
ritrovata. Oggi le scavatrici si sono addentrate ancor più nel cuore
della vecchia città orientale, fino all’agglomerato urbano di
Alexanderplatz, l’antico cuore nevralgico decantato da Alfred Döblin
negli anni Venti e che gli urbanisti comunisti avevano trasformato in
una landa vuota e desolata, ornata da un fascinoso orologio
internazionale e dominata da brutti prefabbricati e dalla torre della
televisione. La ripresa degli interventi architettonici segnala che
Berlino s’è rimessa in moto, nonostante la crisi del bilancio comunale
non dia cenni di miglioramento. Nuove costruzioni riempiono gli spazi
vuoti, più moderne facciate disegnano il futuro di una città sempre in
movimento. Ma anche qui, voltato l’angolo, riappare il bicchiere mezzo
vuoto. Che a Berlino Est assume le sembianze della valanga di voti
neo-comunisti rovesciati nelle urne elettorali: il Linkspartei,
l’alleanza tra i comunisti dell’Est di Georg Gysi e i massimalisti
socialisti dell’Ovest di Oskar Lafontaine, ha raccolto il 16,5 per
cento, più 5 per cento rispetto a tre anni prima, con i picchi del 35
per cento nelle tradizionali roccaforti di Lichtenberg e Marzahn dove è
primo partito. Ancora meglio è andata nelle regioni che circondano la
capitale: più 10 per cento in Brandeburgo (26,6 per cento, secondo
partito dopo l’Spd), più 7 e mezzo per cento in Meclenburgo (23,7), più
6 e mezzo per cento in Sassonia (22,8), più 10 per cento in Turingia
(26,1 per cento, anche qui secondo partito dopo l’Spd).
Il bilancio negativo della riunificazione tedesca
L’avanzata dell’estrema sinistra, anticapitalista e antagonista rispetto
alla tradizione democratica della Germania occidentale, è la vera novità
dell’ultima tornata elettorale e rischia di avere ripercussioni di lunga
durata non solo sullo scenario politico contingente ma sull’intero
processo di riunificazione, che è in qualche modo la ragion d’essere
della politica tedesca post-1989. Non si spiega altrimenti la rapida
conversione dei cristiano-democratici e dei socialdemocratici alle
ragioni della Grosse Koalition, dopo anni di contrasti sempre più aspri.
Non è l’emergenza riformista né la preoccupazione avvertita dall’Spd per
un insidioso competitore politico a sinistra a dettare l’agenda di un
governo che ha presentato un programma denso e ambizioso, ma il pericolo
che una forza antisistema possa insinuarsi nella delicata fase di
transizione che l’intero paese ha intrapreso. Transizione politica,
istituzionale, economica e sociale. Una rivoluzione totale per un paese
che per metà aveva fondato il proprio benessere sul modello sociale di
mercato elaborato dal cristiano-sociale Ludwig Erhard, e per metà aveva
subito la durezza di un regime totalitario capace di avvolgere nel
controllo sociale e nella programmazione ogni attimo della vita
quotidiana. Quando nel 1990 Helmut Kohl impostò la politica di
intervento nei nuovi Länder, la mancanza di lungimiranza non fu tanto
nell’aver sottovalutato il peso dell’arretratezza della Ddr, quanto
nell’aver sopravvalutato la forza del modello renano in tempi di
globalizzazione. Un errore di prospettiva che è costato caro al paese,
scivolato nell’ultimo quindicennio nelle classifiche della
competitività, della ricchezza e del dinamismo. La crisi dell’Europa è
in gran parte la crisi della Germania che nel processo congiunto di
allargamento geografico e di unificazione monetaria avrebbe dovuto
svolgere il ruolo di motore. Al contrario, la locomotiva s’è fermata
rallentando l’intero convoglio: invece di riformare il modello renano
per renderlo competitivo rispetto alle nuove sfide dall’America e
dall’Asia, Kohl lo ha esteso alla metà orientale del paese creando i
presupposti del deragliamento.
Quando a Kohl è succeduto Gerhard Schröder, c’è voluto poco per capire
che la formula socialdemocratica del Neue Mitte era pura immagine, una
scatola vuota e priva di contenuto, nulla di paragonabile al concetto di
New Labour blairiano al quale l’ex cancelliere diceva di volersi rifare.
L’immobilismo nella gestione dell’economia è stato, nella prima
legislatura, pari alla mancanza di idee e progetti in politica estera.
Il processo di riunificazione con i Länder orientali è dunque proseguito
come se nulla fosse, semplicemente abbandonando una serie di progetti
infrastrutturali ormai non più finanziariamente sostenibili: nessuna
riflessione di fondo, nessun aggiornamento d’agenda, solo un’ordinaria
amministrazione gestita con sempre meno fondi e sempre maggiori proteste
da parte dei cittadini dell’Est. Per misurare la sfida che attende il
composito gabinetto di Angela Merkel (che oltre ad essere la prima donna
è anche la prima tedesca orientale a diventare cancelliere) è necessario
tuffarsi nelle cifre, perché un viaggio nei nuovi Länder può essere
addirittura fuorviante, tanto belli sono diventati i centri storici di
città come Erfurt e Weimar in Turingia, Dresda e Lipsia in Sassonia,
Rostock e Stralsund in Meclenburgo, restituiti agli splendori
pre-comunisti da eccellenti restauri. I sistemi giudiziario e
amministrativo sono stati riorganizzati, l’eredità culturale delle
regioni ha trovato rinnovato vigore dal rilancio di un turismo di
qualità, il recupero dei disastri ambientali nel periodo del comunismo è
ormai completato e tutte le strutture industriali sono state dotate di
standard tecnologici di avanguardia, l’organizzazione della polizia è
efficace, il sistema educativo ha raggiunto standard occidentali, sia a
livello scolastico che universitario.
Ma sotto la patina della vernice c’è un paese che stenta a ritrovarsi.
Quello che miliardi e miliardi di marchi e di euro, di aiuti e sussidi
non hanno creato è un’adeguata e autonoma base economica. Ancor oggi i
nuovi Länder sarebbero incapaci di sopravvivere senza il volume di
sussidi che arrivano annualmente da Ovest e che, in questi ultimi anni,
ammontano a 70-80 miliardi di euro all’anno. Secondo le stime
dell’Istituto per la ricerca economica di Berlino (il Deutsches Institut
für Wirtschaftsforschung) gli aiuti finanziari che l’Ovest continua a
fornire all’Est sono la causa del negativo ciclo economico della
Germania riunificata. Nei mesi precedenti il voto, un team di consulenti
di Schröder, guidato dall’ex sindaco di Amburgo Klaus von Dohnanyi,
presentò al governo rosso-verde uno scarno rapporto di 29 pagine,
intitolato “Raccomandazioni per un cambio di direzione nello sviluppo
dell’Est”. Il documento descriveva una situazione sempre più difficile:
disoccupazione oltre il 18 per cento con punte di oltre il 20 in
Meclenburgo e Sassonia-Anhalt, fuga dei cervelli verso le regioni
occidentali in cerca di migliori occasioni di lavoro e conseguente
perdita di forze giovani e creative, ulteriore approfondimento del
differenziale di crescita tra Est e Ovest, mancato sviluppo di un
tessuto di medie imprese ed eccessiva presenza di piccole aziende con
capitali modesti. L’analisi: i costi della riunificazione consumano il 4
per cento annuo del Pil della Germania e stanno erodendo la base
economica dei ricchi Länder occidentali. La conseguenza: la politica di
aiuti e sussidi non ha più alcun effetto di incentivo verso l’economia
delle regioni orientali. Il consiglio: cambiare politica.
Le sfide riformiste di Angela Merkel e della Grosse Koalition
È questo lo scenario che la Grosse Koalition deve affrontare. La ripresa
economica della Germania è sotto gli occhi degli osservatori più
attenti, le timide riforme innescate dal secondo governo Schröder hanno
incentivato le grandi imprese tedesche a ristrutturarsi per superare la
crisi produttiva. Si può dire che, in assenza di un’adeguata spinta
riformista della politica e in presenza di una forte opposizione nella
società verso il ripensamento del pesante welfare state tedesco, ci
hanno pensato gli imprenditori a rimodellare almeno la struttura
industriale, con tagli occupazionali in casa, delocalizzazione verso
aree con costo del lavoro più basso (Europa orientale, Asia), ritrovata
aggressività commerciale sui mercati internazionali, specie asiatici. Le
riforme fatte senza l’ammortizzatore della politica possono, però,
risultare dure e inique: così le imprese hanno risolto gran parte dei
loro problemi, scaricandoli tutti sui lavoratori. Ai 5 milioni di nuovi
posti di lavoro creati dalle imprese tedesche nei nuovi stabilimenti
oltre confine, corrispondono quasi specularmente i 5 milioni di
disoccupati in patria. Ecco che, destra o sinistra o destra e sinistra
assieme, la questione occupazionale è divenuta la priorità nell’agenda
governativa di Angela Merkel e la liberalizzazione del mercato del
lavoro è il grimaldello per cominciare a risalire la china su più
versanti, anche quello della riforma del generoso Stato sociale.
Se l’economia riprende a tirare ma la popolazione non lo avverte, i
consumi interni ristagnano e il paese resta al palo. Sarà capace questo
governo di compromesso di attuare politiche impopolari? Ritorna
l’immagine del bicchiere. Chi lo vede mezzo pieno, come il direttore
dell’edizione internazionale di Newsweek Fareed Zakaria, ricorda che
nonostante il calo elettorale, Cdu e Spd hanno ottenuto il 70 per cento
dei consensi e non si può dire che i loro programmi elettorali non
contenessero istanze riformiste. Chi lo vede mezzo vuoto, ed è il caso
di molti commentatori europei, evidenzia come quei programmi siano
tuttavia timidi rispetto alla vastità e alla durezza delle riforme
necessarie: un governo più compatto di centrodestra, con l’apporto dei
liberali, avrebbe dato maggiori garanzie e il grande compromesso, in
realtà, fotografa lo stallo della politica tedesca e promette di
prolungarlo. I prossimi mesi ci diranno chi aveva ragione.
L’altro campo in cui si attendono novità dalla Germania di Angela Merkel
è quello della politica estera. Ci torneremo diffusamente nei prossimi
numeri di Ideazione, perché l’argomento merita un’analisi più lunga e
approfondita di quanto si possa fare in questa occasione. Ma la capacità
di Berlino di ricostruirsi una leadership all’interno della Nuova Europa
è condizione necessaria per dare un senso al destino del nostro
Continente. La politica senza responsabilità che la coalizione
rosso-verde ha perseguito nei suoi sette anni di governo, la rottura
plateale con gli Stati Uniti e il deterioramento delle relazioni
transatlantiche, il privilegio dell’asse conservatore con Parigi, la
ruvidità nelle relazioni con i paesi emergenti dell’Europa
centro-orientale, l’incapacità di rapporti a tutto campo con Gran
Bretagna, Italia e Spagna pre-zapateriana accrescono la nostalgia per la
saggia ed equilibrata politica del vecchio cancelliere Kohl. Su questo
piano Angela Merkel ha certamente le idee più chiare. Meno chiaro è se
il suo nuovo ministro degli Esteri, lo schröderiano Frank-Walter
Steinmeier, vorrà smarcarsi dalla linea politica del suo partito. Sarà
solo una delle tante sfide che attendono la Grosse Koalition.
14 dicembre 2005
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