Pacs, obiezioni liberali
di
Raffaele Perna
[14 dic 05]
da
Ideazione, novembre-dicembre 2005
Il vivace dibattito in materia di riconoscimento e tutela giuridica
delle coppie di fatto cui assistiamo da qualche tempo appare per molti
versi viziato da un elevato tasso di astrattismo e di ideologismo. Sul
terreno sembrano confrontarsi esclusivamente due posizioni nette quanto
inconciliabili: da un lato una concezione laicista che rivendica sic et
simpliciter un’estensione dei diritti dei soggetti (eterosessuali ed
omosessuali) che danno vita a stabili convivenze e dall’altro una
visione theocon che ribadisce una visione della famiglia come cellula
fondamentale del nostro sistema sociale e, conseguentemente, rifugge da
ogni innovazione giuridica e legislativa che possa indebolirne il ruolo.
In realtà, il tema merita un approccio più analitico che punti ad andare
più in profondità per verificare se vi siano ragioni sufficienti per
giustificare un intervento legislativo che porti ad una qualche (e
quale) formalizzazione dell’istituto delle coppie di fatto. Il punto non
è infatti quello di definire la legittimità delle convivenze, quanto di
verificare puntualmente quali siano le ragioni che dovrebbero rendere
necessaria o almeno opportuna una formalizzazione giuridica di una
situazione di fatto, presente nel sistema sociale senza alcun bisogno di
un riconoscimento da parte dello Stato.
Preliminarmente, può essere utile una rapidissima riflessione sui
caratteri essenziali del regime giuridico della famiglia, nonché sulle
ragioni che ne hanno determinato lo sviluppo storico. La tutela della
famiglia, in questa prospettiva, si traduce in un coacervo di previsioni
normative di varia natura che possono essere in modo estremamente
sintetico suddivise in tre gruppi: le norme che disciplinano i rapporti
interni alla famiglia, fornendo ad alcuni componenti tutele nei
confronti di altri (particolarmente rilevanti quelle previste nel caso
di crisi della relazione coniugale); le norme che disciplinano le
situazioni in cui terzi entrano in contatto con la famiglia, la
posizione dei quali viene in qualche modo compressa rispetto alla
generale disciplina dei rapporti civilistici (si pensi alla disciplina
dei rapporti negoziali posti in essere da un soggetto coniugato); le
norme che tutelano diritti, potestà, interessi ed aspettative che i
componenti della famiglia possono vantare nei confronti dello Stato o in
generale dei poteri pubblici (come, ad esempio, la disciplina fiscale e
previdenziale che si applica ai soggetti coniugati).
Il tratto comune dei tre gruppi di norme, sommariamente enucleati, è di
costituire una tutela rafforzata rispetto alla ordinaria disciplina
civilistica ed amministrativa: si tratta cioè di norme le quali
forniscono una posizione differenziata e più favorevole ai soggetti in
quanto componenti di una famiglia. Tale rafforzamento non è naturalmente
privo di costi: alla tutela rafforzata del coniuge corrisponde
inevitabilmente un indebolimento della posizione del soggetto che entra
direttamente o indirettamente in contatto con lui (l’altro coniuge, i
terzi, i contribuenti). Il problema, quindi, non può essere
semplicisticamente risolto invocando un’estensione dei diritti,
richiamando impropriamente il principio liberale dell’autonomia
dell’individuo.
Occorre verificare in modo più preciso se vi siano ragioni per estendere
(anche parzialmente, come chiedono i sostenitori dei Pacs) la tutela
giuridica tipica della famiglia ad altre situazioni e se sia
corrispondentemente giusto comprimere la sfera giuridica dei terzi che
vengano in contatto con i soggetti componenti una coppia di fatto.
Occorre sempre ricordare che al riconoscimento di diritti corrisponde
inevitabilmente l’introduzione di doveri o di divieti a carico di altri
soggetti. Per dirla con Milton Friedman: nessun diritto è gratis (there
is no such thing as a free rights). L’istituto della famiglia ha origini
antichissime, addirittura precedenti la nascita degli ordinamenti
statali più antichi. La disciplina e la tutela della famiglia rispondono
ad esigenze fondamentali del consesso civile, ed in particolare alla
necessità – propria di ogni organizzazione sociale evoluta – di
garantire una cornice giuridica affidabile per consentire lo sviluppo di
un processo di procreazione ordinato, nella convinzione che un sistema
sociale e culturale solido non possa prescindere dalla diffusione di
forme stabili di relazioni di coppia finalizzate (almeno in potenza)
alla procreazione. In tal senso, l’esigenza spontanea dei soggetti che
decidono di dare vita a coppie stabili si incontra con l’esigenza
sociale di rendere (per quanto possibile) ordinato e prevedibile lo
sviluppo delle relazioni interpersonali finalizzate alla procreazione.
Infatti, l’attività procreativa coinvolge inevitabilmente interessi
altamente sensibili che non possono essere rimessi unicamente
all’autonoma regolazione dei soggetti interessati.
Si pone, inoltre, l’esigenza di agevolare la posizione di quanti
decidono di mettere al mondo figli, fornendo al contempo ai figli nati
da tali unioni una affidabile cornice giuridica di riferimento. Se non
temessimo di apparire materialisti ed economicistici, potremmo dire che
l’attività procreativa presenta forti esternalità positive per la
società e ciò definisce lo spazio per un intervento pubblico a tutela e
sostegno. Inoltre, a partire da una certa età storica il regime
giuridico della famiglia si è sviluppato anche in relazione alla
necessità di garantire una specifica tutela al coniuge economicamente e
socialmente più debole, il quale dedicando maggiore energia e maggior
tempo all’attività di allevamento dei figli aveva evidentemente
necessità di un adeguato sistema di garanzie.
Partendo da tale inquadramento essenziale, non è facile trovare ragioni
giustificatrici per l’estensione di alcune tutele proprie dell’istituto
famigliare anche alle convivenze di fatto, sia che si tratti di coppie
eterosessuali che nel caso di coppie omosessuali. Le convivenze
eterosessuali in effetti presentano un assetto di interessi per molti
versi assimilabile a quello tipico dei nuclei familiari: si pone la
necessità di garantire un ordinato svolgimento della funzione
procreativa, vi è l’esigenza di una tutela della parte più debole e di
una stabilità nella posizione dei figli. Ciò che rimane però da spiegare
è perché mai l’ordinamento dovrebbe fornire una tutela analoga a quella
dei rapporti familiari a coloro che pur avendo a disposizione un idoneo
istituto, specificamente destinato a tutelare la convivenza e a
disciplinare i rapporti interni alla coppia, hanno liberamente deciso di
non avvalersene. La (agevole) reversibilità della scelta matrimoniale,
introdotta in Italia da più di trent’anni e recentemente rafforzata
ulteriormente, ha fatto venire definitivamente meno l’unica ragione che
poteva supportare l’esigenza di tutelare i conviventi che decidono di
non sposarsi.
Il vero problema della tutela delle coppie di fatto non è quindi quello
delle coppie eterosessuali ma, evidentemente, quello delle coppie
omosessuali, alle quali non è invece consentito l’accesso al matrimonio
e che potrebbero pertanto avere necessità di una tutela da parte
dell’ordinamento. In questo caso, però, oltre alla generale esigenza di
garantire a ciascuna persona il libero sviluppo delle proprie relazioni
sociali ed affettive (che si pone per le coppie omosessuali come per
tutti gli altri soggetti: si pensi ai rapporti di amicizia o alle
relazioni affettive delle persone singole), non sembra ricorrere nessuna
delle specifiche ragioni che giustificano la tutela rafforzata propria
dell’istituto matrimoniale (non vi è esigenza di procreazione ordinata,
né di stabilità per i figli e nemmeno di tutela del coniuge debole). La
compressione della sfera giuridica dei terzi che inevitabilmente
deriverebbe dalla tutela rafforzata della coppia omosessuale sarebbe
pertanto ingiustificata (basti pensare al proprietario di casa che
affitta l’immobile ad un conduttore che successivamente avvia una
relazione di coppia, al contribuente che dovrebbe sopportare l’onere di
una pensione di reversibilità, allo stesso convivente che cessata la
convivenza dovrebbe sopportare oneri per il sostentamento dell’altro).
Tutto ciò non esclude che vi possano anche essere alcune (limitate)
situazioni, nelle quali il mancato riconoscimento delle coppie di fatto
pone effettivamente problemi che meritano una soluzione: si pensi al
consenso per la donazione di organi, all’aspettativa per malattia del
convivente, alle visite in carcere, all’assistenza in ospedale, alla
libertà testamentaria. In realtà, si tratta di fattispecie molto
ingigantite nella polemica politica, che il più delle volte sono già
risolte negli ordinamenti specifici dei diversi settori. In ogni caso,
tutte queste fattispecie, più che attraverso una più o meno fedele
estensione alle copie di fatto delle norme di diritto familiare, possono
essere meglio affrontate mediante un rafforzamento della tutela delle
libertà individuali. Sarebbe, cioè, assolutamente opportuno che ciascuno
di noi potesse, indipendentemente dalla formalizzazione di rapporti di
convivenza, indicare, ad esempio, una persona alla quale affidare alcune
scelte in situazioni di emergenza, ovvero disporre liberamente in sede
testamentaria di tutti i propri beni (come avviene ad esempio negli
Stati Uniti). In un’ottica liberale, il problema non è quindi
riconoscere giuridicamente le coppie di fatto, ma semmai rafforzare – in
alcune specifiche situazioni – la tutela della volontà e dell’autonomia
della persona, a prescindere che si tratti di convivente, omosessuale o
eterosessuale. L’obiettivo deve cioè essere quello di un ampliamento
della sfera delle libertà individuali, rispetto al quale è inutile, ed
anzi controproducente, costruire simulacri o imitazioni della famiglia,
laddove famiglia non vi è e non vi può essere.
14 dicembre 2005
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Raffaele Perna, consigliere della Camera dei deputati
è, attualmente, capo di gabinetto del ministro della Funzione Pubblica.
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