E Israele fondò la Palestina
di Daniele Bellasio*
[11 gen 06]
da
Ideazione, gennaio-febbraio 2006
La storia racconterà che fu un generale israeliano il fondatore dello
Stato palestinese. Perché nella terra dei paradossi mediorientali
succede anche questo. Accade che il premier israeliano Ariel Sharon
metta in atto una strategia ferma, giusta ed efficace di contrasto, per
quanto possibile, al terrorismo, creando però – attraverso il ritiro
unilaterale da Gaza, come primo passo e primo test per un futuro
disimpegno pure dalla Cisgiordania – anche una prospettiva politica per
i palestinesi, che ora si ritrovano con la piena sovranità su un tratto
della loro terra e con un confine, il valico di Rafah, sotto il loro
diretto controllo. Ma nel fondare, indirettamente, l’embrione del futuro
Stato palestinese, Ariel Sharon sta rifondando anche la politica
israeliana, con la nascita di un partito “Kadima” (Avanti) che raccoglie
leader e militanti e consensi a destra, a sinistra e al centro. Dopo il
no arafattiano a Camp David e la seconda Intifada palestinese, da leader
del Likud Sharon ha proposto al suo paese un piano chiaro basato su
principi netti e azioni concrete: nessuna trattativa sotto le bombe,
operazioni militari contro le reti e le basi di Hamas e dintorni,
barriera di difesa per fermare le infiltrazioni terroristiche, uccisioni
e arresti mirati dei leader dei gruppi armati del jihad, ritiro
unilaterale da Gaza. Per ora, con tutti i rischi e i pericoli e i costi
in viste umane propri di una zona di guerra a bassa (e a volte alta)
intensità, ha funzionato, magari anche grazie al fatto che non arrivano
più i lauti assegni di Saddam Hussein per le famiglie dei kamikaze che
si immolano per uccidere ragazzi israeliani in un ristorante di
Gerusalemme.
Ma per far funzionare il suo piano il premier ha dovuto rivoluzionare
molte delle idee sue, dell’opinione pubblica israeliana e soprattutto
del suo vecchio partito. Il principio non è più – dopo il rifiuto della
mediazione Clinton da parte di Yasser Arafat non poteva più esserlo –
“pace in cambio di territori”, ma “sicurezza per arrivare alla pace”.
Ispirandosi a questo criterio, Sharon ha più volte detto che Israele
avrebbe dovuto e sta già facendo “dolorose concessioni”. Il suo partito
fino a un certo punto lo ha seguito, ma poi il rivoluzionario Sharon ha
capito che un cambiamento siffatto di prospettiva chiamava anche un
nuovo scenario politico in Israele, soprattutto in vista delle elezioni
anticipate alla fine di marzo del 2006. Anche perché a sinistra, in gran
parte della sinistra, non veniva offerta alcuna alternativa alla nuova
strategia sharoniana, anzi si faceva sempre più forte l’idea che il
piano del premier fosse l’unico possibile, il piano giusto. La
sicurezza, il ritiro, la pace, in quest’ordine e con questa
determinazione. Ecco che cosa hanno condiviso con il premier molti degli
esponenti del Likud che lo hanno seguito in Kadima. Ecco su che cosa
anche il premio Nobel Shimon Peres è stato d’accordo con Sharon, al
punto di entrare nel suo partito. Ecco che cosa ha attratto perfino il
partito più pacifista e più legato al processo di Oslo, cioè il Meretz
di Yossi Beilin, pronto a considerare la scelta di entrare in una futura
coalizione con Kadima.
Opportunità che dovrà prima o poi vagliare anche il partito laico e
nazionalista e liberista Shinui, che si vede un po’ in imbarazzo di
fronte a una nuova forza politica come quella di Sharon che forse non
può essere definita di centro, ma comunque quella zona del campo occupa
e occuperà in futuro. Il Likud (quel che ne resta dopo la fuoriuscita di
Sharon e dei molti sharoniani) un po’ è rimasto legato al sogno della
Grande Israele e un po’ ha preferito continuare a parlare soltanto di
sicurezza, non volendo nemmeno immaginare ulteriori ritiri unilaterali.
I laburisti, invece, hanno per ora saputo scegliere soltanto – e
comunque, visti i loro recenti travagli interni non è poco – un nuovo
leader, il sindacalista baffuto e robusto di personalità Amir Peretz, ma
sono ancora alla spasmodica ricerca di un’idea, di una visione
alternativa a quella di Sharon. Così ora i sondaggi (e presto gli
elettori) danno ragione a Kadima, mentre Israele sta per avere uno
scenario politico completamente rivoluzionato dalle rivoluzioni
politiche e strategiche del suo premier. Così ora la stampa
internazionale, le diplomazie di tutto il mondo, perfino la sinistra
europea sono costrette a rivedere i loro giudizi sul bulldozer Arik.
Così ora i paesi arabi hanno sempre meno alibi per disinteressarsi della
causa palestinese, addossando tutte le colpe al piccolo Satana
israeliano. Così ora i palestinesi sono di fronte alla prova decisiva:
hanno la possibilità, intanto a Gaza ma poi anche in Cisgiordania, di
dimostrare di saper governare l’embrione del loro Stato, di voler
combattere il terrorismo, di desiderare una democrazia che viva in pace
a fianco alla democrazia israeliana.
Il presidente palestinese Abu Mazen per ora fa poco perché poco può
fare, ma il tempo stringe. E’ suo interesse, è interesse del suo popolo
disarmare Hamas e dintorni, e in questo Israele con le operazioni
anti-terrore e le uccisioni mirate del recente passato gli ha dato un
oggettivo aiuto. E’ suo compito ripulire il proprio partito, al Fatah,
dalle corruzioni finanziarie e terroristiche. Il sostegno degli Stati
Uniti per ora al rais non manca, ma non è più tempo di rais tentenna. Il
Medio Oriente sta cambiando a velocità inimmaginabili, grazie anche alla
strategia dell’amministrazione Bush. Israele si trasforma e si sta
preparando, politicamente e culturalmente, ad accogliere la nascita del
vicino Stato palestinese. Qualche paese arabo, come l’Egitto e la
Giordania, inizia a capire che è giunto il momento di far qualcosa per
il bene dei suoi fratelli. L’Europa non ha mai fatto venir meno il suo
sostegno alla causa palestinese, fino anche a punte eccessive di
incrostazioni diplomatiche sulla messa fuori legge (poi decisa) di Hamas
e (non ancora decisa) di Hezbollah e di rivoli finanziari finiti chissà
dove nelle tasche del jihad. Ci sono le condizioni perché l’Autorità
nazionale palestinese di Abu Mazen inizi a fare quei passi che l’Israele
di Sharon finora è stato costretto a fare da solo.
11 gennaio 2006
*
Daniele Bellasio, vicedirettore de Il Foglio, si occupa di politica
estera e Medio Oriente.
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