Radicali a sinistra e l’Unione zapateriana
di Eugenia Roccella*
[08 feb 06]
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
Dalla sua fondazione (o meglio rifondazione) ad oggi, il Partito
radicale di Marco Pannella ha mantenuto una fortissima e riconoscibile
impronta identitaria, riuscendo sempre a porsi con grande libertà nel
gioco degli schieramenti politici.
Prima del referendum che ha introdotto il sistema maggioritario in
Italia, i radicali rivendicavano con insistenza, ma con qualche fatica,
una sicura collocazione all’interno della sinistra. Con l’avvento del
bipolarismo, di cui sono stati accesi e precoci fautori, l’atteggiamento
è cambiato. Rifiutando un irrigidimento e impoverimento della propria
identità anomala, i radicali hanno scelto di non scegliere. Impossibile
appiattirsi su uno dei due poli, entrambi poco inclini alla costruzione
di una vera forza politica liberale, liberista e libertaria; meglio di
volta in volta contrattare richieste e convergenze parziali,
sottolineando la propria inconciliata diversità, quello che Pasolini
definiva lo scandalo radicale.
Come è possibile che una forza che non aspira affatto a occupare
l’ambitissimo centro, possa indifferentemente oscillare tra destra e
sinistra? Il partito radicale, religiosamente anti-ideologico, si
riconosce in primo luogo nelle proprie lotte, negli obiettivi
d’elezione. E questi sono grossolanamente classificabili in due aree:
quella dei temi socioeconomici, orientati in senso liberista, e l’area
dei diritti civili, dei temi eticamente sensibili, imparentati oggi con
le opzioni di biopolitica. Insomma, se il referendum sull’articolo 18
sposta i radicali a destra, quello sulla procreazione assistita li
conduce a sinistra; il “meno stato più mercato” è a destra, mentre
l’anticlericalismo e la rivendicazione di un’illimitata
autodeterminazione per l’individuo sono a sinistra. La politica estera,
classico cavallo di battaglia radicale, è meno caratterizzante: essendo,
per tradizione, solidamente filo-occidentale, tenderebbe a destra, ma
con l’emergere di nuove posizioni nel centro-sinistra, le differenze si
fanno più sfumate. Altrettanto si può dire per il garantismo, altro
pilastro della cultura politica radicale, che dovrebbe collocarsi a
destra. Ma l’eccessiva personalizzazione del conflitto tra Berlusconi e
le procure militanti, ha fatto sì che i radicali facessero un passo
indietro; d’altra parte, la contiguità tra magistratura e sinistra non è
più quella degli anni trionfanti di Tangentopoli.
Dunque tutto si potrebbe restringere a una semplificazione che vede il
liberismo a destra e lo zapaterismo a sinistra, e i radicali un po’ di
qua e un po’ di là, secondo le opportunità e le priorità dell’agenda
politica, secondo ciò che si sceglie di privilegiare o mettere in
sordina. In realtà mentre il liberismo della Casa delle Libertà è sempre
meno accentuato, e soprattutto sempre meno costituisce un tratto
identitario dello schieramento di centrodestra, lo zapaterismo è
diventato elemento fondamentale della cultura del popolo di sinistra, se
non dei suoi dirigenti. Oggi i radicali sono con l’Unione, e questo
ritorno del figliol prodigo non solo è logico, ma probabilmente
inevitabile, nonostante le prevedibili occasioni di conflitto.
La traversata nel deserto degli anni Settanta
Per chi ricorda gli anni Settanta e l’isolamento in cui furono condotte
allora le battaglie radicali per i diritti civili, la svolta ideologica
della sinistra postcomunista è sorprendente. La lunga campagna di
Pannella per il divorzio fu davvero una traversata del deserto. Allora
il leader radicale raccoglieva consenso solo ai margini, dalla disperata
pattuglia dei “fuorilegge del matrimonio”, e da qualche irregolare, come
Enzo Sabàto, avventuroso editore di Abc, o il deputato socialista Loris
Fortuna. La televisione e la stampa ignoravano Pannella, i partiti lo
ritenevano un pericoloso outsider, il pci considerava il divorzio un
rischio per la politica di dialogo con la dc e la Chiesa (il ventilato
compromesso storico). Anche sul piano dei comportamenti, tra i comunisti
vigeva un ideale di morigeratezza privata, di sobrio rigore dei costumi
sessuali, che spingeva alla cautela nei confronti del divorzio,
considerato un po’ sprezzantemente come un diritto borghese. Bisognava
tutelare l’integrità della famiglia proletaria, la dedizione e la
fiducia della base popolare, legata tradizionalmente a valori cattolici,
verso il partito. Tutte queste ragioni raffreddavano ogni entusiasmo nei
confronti dei radicali, che erano visti, persino dalle organizzazioni
extraparlamentari nate intorno al Sessantotto, come un corpo estraneo,
disomogeneo rispetto alla dilagante ideologia marxista. Solo quando il
referendum e la sconfitta democristiana resero chiara la portata
dirompente del divorzio nei confronti degli equilibri immobili della
politica italiana, l’atteggiamento cominciò a mutare.
Non di molto, però. Durante la campagna per le elezioni del ’76, che
portarono per la prima volta quattro deputati radicali in Parlamento,
l’usciere di Botteghe Oscure mollò un sonoro ceffone a Pannella mentre,
accompagnato da un esiguo gruppo di militanti, chiedeva di entrare, per
parlare con qualche dirigente del pci. Il gesto fu immortalato da un
reporter, e la foto, corredata da un commovente comunicato del leader
radicale («La guancia mi si sta gonfiando, ma non è questo il dolore più
grande…») fece il giro delle redazioni. Il povero usciere, che non
sapeva di aver regalato a Pannella, con quello schiaffo, quel tanto di
polemica elettorale che gli serviva per far scattare il quorum, era
sicuro di interpretare correttamente l’insofferenza che l’elefante
comunista nutriva per il provocatorio topolino radicale.
A lungo il ritornello della natura borghese – e non di classe – della
cultura politica radicale avrebbe relegato i diritti civili tra le
battaglie di serie B della sinistra istituzionale ed extraparlamentare,
con poche eccezioni. A distanza di trent’anni, però, l’atteggiamento si
è rovesciato, Pannella e i suoi hanno vinto, e i vecchi diritti borghesi
fanno integralmente parte del bagaglio culturale della sinistra; di più,
sono un intoccabile totem. Dopo la fine dell’utopia comunista, coloro
che a quell’utopia avevano, in vario modo, fatto riferimento, non hanno
trovato altre identità forti in cui riconoscersi. Il sociale non basta,
soprattutto in una parte del mondo dove le differenze di reddito non
colpiscono la fantasia. Il nuovo terzomondismo no-global e no-logo
rimane sullo sfondo, i vecchi slogan sulle 35 ore si sono dimostrati in
Francia burocratici e fallimentari, la bandiera multiculturalista
sventola tra gli intellettuali ma si affloscia quando si cerca di
coagularle intorno il paese reale, l’antiberlusconismo, collante buono
per tutti gli usi, è destinato a finire con Berlusconi.
Zapatero non è dunque solo l’ultimo mito fugace di una sinistra in cerca
di eroi, ma l’interprete di un’anima profonda, l’unica e l’ultima che
davvero unifichi l’elettorato ulivista, cattolici adulti compresi.
Rassegnati, questi ultimi, a un mondo nuovo, di matrimoni gay e nascite
tecnologiche, con cui bisogna aprire un’inevitabile contrattazione (vedi
la posizione di Rosy Bindi a proposito del referendum sulla legge 40).
Se i leader sono più cauti, coscienti che con il risveglio cattolico e
le sensibilità antiche del paese è necessario fare i conti, il
cosiddetto popolo di sinistra trova, nell’ampliamento dei diritti del
singolo, il nuovo segno dell’identità progressista, capace di una
contrapposizione forte e irriducibile con il conservatorismo
veteroumanista. E trova anche rivendicazioni che danno corpo
all’individualismo desiderante in cui le generazioni post-sessantottine
sono cresciute, e che la sinistra di un tempo aborriva come la peste.
Il liberismo, invece, dopo un effimero momento di splendore, non ha
dimostrato alcuna capacità unificante nel centrodestra, anzi, è stato
causa di fallimenti, delusioni e divisioni. Secondo un’analisi condotta
dalla swg (Miss Melandri e le parole magiche, a cura di Roberto Weber,
Battello, Trieste, 1996), il Polo ha addirittura perso le elezioni del
’96 per le intemperanze antistataliste di Antonio Martino, rimbeccato da
una Giovanna Melandri pro-welfare, in una tribuna televisiva che pare
aver segnato il destino del centrodestra. Il liberismo è stato l’utopia
di una minoranza culturale, che si è illusa su una generalizzata (in
realtà generica) voglia di liberalismo italiana, su una rivoluzione
reaganiana o thatcheriana che Berlusconi avrebbe dovuto somministrare al
nostro paese dopo che già, nei paesi d’origine, si era conclusa.
Lo strano (ed equivocato) liberismo delle partite iva
In Italia, il popolo delle partite Iva, chiedendo meno tasse, non
esprimeva una cosciente domanda di ridimensionamento dello Stato. La
spinta all’iniziativa individuale che ha prodotto l’imprenditoria
diffusa su piccola scala ha avuto altre matrici culturali, era legata a
solidi valori familiari, e si ribellava più all’invadenza partitocratica
(percepita come elemento frenante) che alla presenza statale. Nel nostro
paese, le deregolamentazioni e le liberalizzazioni sono cose che devono
avvenire not in my backyard, non sotto casa, esattamente come l’alta
velocità. Cose che si invocano astrattamente, ma che devono riguardare
qualcun altro, altrimenti vengono violentemente rifiutate. Si dirà che
questo accade dappertutto, e che è impossibile fare riforme sostanziali
senza ledere gli interessi di alcuni gruppi sociali; un abile politico
giocherà la partita bilanciando gli interessi contrapposti,
appoggiandosi di volta in volta al gruppo che ricava vantaggi da una
riforma. Ma in Italia l’intreccio corporativo è così ramificato e
radicato, così abituale e strutturale, che nessuno è immune. È quasi
impossibile, cioè, schierare un interesse contro l’altro: il
consociativismo, defunto in politica, è sempre rimasto vivo nel cuore
della società, nelle famiglie, nel coacervo indistricabile di privilegi
grandi e piccoli, tutelati o dispensati dall’amministrazione pubblica.
Per avere conferma di questa difficoltà basta verificare il risultato di
alcuni referendum: non tanto quello, il cui esito era più scontato,
sull’articolo 18, ma, per esempio, i quesiti del 1995 sulla
liberalizzazione delle licenze e degli orari degli esercizi commerciali.
Siamo tutti consumatori, e tutti trarremmo benefici da orari dei negozi
meno rigidi; sarebbe stato logico prevedere un consenso massiccio alla
liberalizzazione. Invece, il quorum viene raggiunto (57 per cento), ma
il no all’abrogazione supera il 60 per cento dei votanti. Sembra un
risultato autolesionista, ma è l’effetto del sistema di protezioni
incrociate che gli italiani tendono a rispettare: perché togliere a un
altro (che tiene famiglia) una tutela consolidata? Contro questa
stratificazione di garanzie corporative piccole e grandi si è scontrata
sia la sinistra che la destra, e adesso, nel momento in cui si scopre
che i vantaggi della globalizzazione economica per la vecchia Europa, e
in particolare per l’Italia, non sono quelli sperati, meno che mai è
possibile immaginare una tensione di massa verso una politica liberista.
Il destino zapateriano dell’Unione e quello progressista di Pannella
Il nostro orizzonte, invece, è affollato di temi e proposte (pacs,
eutanasia, divorzio veloce, selezione genetica, nuove tecnologie
abortive e contraccettive, eccetera) a cui i radicali daranno voce e
forza, grazie alla straordinaria capacità di sfruttare al meglio gli
spazi di risulta politico-mediatici, i territori interstiziali che gli
altri non occupano.
Sarà difficile per la sinistra, priva oggi di obiettivi che scaldano il
cuore, smarcarsi dalle posizioni pannelliane, che nel paese forse non
sono maggioranza, ma lo sono tra le élite intellettuali e urbane, e in
tutta l’area di pensiero che più influenza e condiziona l’Unione. Ma
sarà difficile anche, per i radicali, continuare a proporsi come
sostanzialmente estranei agli schieramenti in campo, alleati possibili
di chiunque – a destra o a sinistra – condivida la battaglia che
scelgono di condurre. Nel nostro bipolarismo anomalo, anche il partito
di Pannella è costretto dall’aria dei tempi a scegliere un alleato.
08 febbraio 2006
* Eugenia Roccella, giornalista e saggista, fa
parte del comitato di direzione di Ideazione. Collabora regolarmente ai
quotidiani Il Foglio e Avvenire. Il suo ultimo libro, scritto a quattro
mani con Lucetta Scaraffia, s’intitola Contro il cristianesimo ed è
stato pubblicato da Piemme.
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