Tremonti o Giavazzi, come reagire al declino?
di Alessandro Carpinella*
[02 mar 06]
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
Già settant’anni fa, Joseph Alois Schumpeter si chiedeva come reagire al
declino a cui sembrava condannata la Vecchia Europa. Allora si preferiva
parlare di stagnazione secolare, ma l’analisi era simile a quella che
oggi ricorre. In primo luogo tassi di crescita della produzione prossimi
allo zero, e soprattutto ben inferiori a quelli messi a segno dalle
economie dell’Est (ieri quella sovietica, oggi quella cinese). In
secondo luogo, la percezione delle economie dell’Est come minaccia per
l’assetto economico europeo (ieri, per la pressione interna esercitata
dai movimenti socialisti e comunisti sui governi, oggi, per la
liberalizzazione del commercio mondiale).
Per uscire dalla stagnazione, Schumpeter propone una strada verso lo
sviluppo fondata su tre pilastri: le regole, l’imprenditore, la banca.
Ovvero: una concorrenza ben regolata, che favorisca la cooperazione tra
imprese ma che rifugga tendenze stataliste; il rilancio del ruolo
sociale dell’imprenditore, motore dell’innovazione e del progresso; la
centralità della banca per un accesso efficace al mercato dei capitali
da parte dell’impresa. Nella chiacchiera attuale sul declino, non è
facile trovare una posizione così ricca, e al tempo stesso così chiara e
attuale. Quasi sempre, in Italia si finisce infatti a parlare solo delle
regole, nell’errata convinzione che solo ad esse attengano le scelte
della politica. Capita così che anche due proposte di ampio respiro
siano ricondotte, nel dibattito pubblico, alla vecchia antinomia tra
liberismo e protezionismo (oggi battezzato, con un certo vezzo,
colbertismo). Parliamo dei due bei libretti che Francesco Giavazzi e
Giulio Tremonti hanno appena pubblicato (Giulio Tremonti, Rischi fatali,
Mondadori, 2005; Francesco Giavazzi, Lobby d’Italia, rcs Libri, 2005).
Pamphlet a tesi quello di Tremonti, raccolta tematica di articoli
pubblicati dal 1997 al 2005 quello di Giavazzi, i due testi meritano di
essere letti assieme per diverse ragioni. L’analisi di partenza: il
problema italiano è parte del più generale problema europeo. La bassa
crescita e la perdita di posizioni nella competizione geo-economica sono
collegate a una regolamentazione eccessiva nel fronte interno. Troppe
regole, troppa burocrazia, depressione dello spirito imprenditoriale.
Il modello di riferimento: gli Stati Uniti, anche se talvolta appare un
modello di maniera. Tremonti ammira gli usa che non hanno paura di
proteggersi con dazi e quote, di sostenere la produzione ricorrendo al
debito pubblico, di ritardare l’apertura del proprio mercato alla Cina.
A Giavazzi, invece, piacciono gli usa in cui i taxi costano meno perché
non serve una licenza, il sistema universitario non perpetua il baronato
tramite i concorsi, le banche sono libere di crescere.
I fili espliciti e impliciti che collegano le due proposte: Tremonti e
Giavazzi si confrontano, si stimano anche quando dissentono. La linea di
Giavazzi rispetto all’azione politica di Tremonti è tutta giocata
sull’apertura di credito e l’attesa delusa, sull’auspicio di radicali
azioni liberalizzatrici e la constatazione delle difficoltà di imporle
al paese (una curiosità: il nome di Tremonti è quello più citato nel
libro di Giavazzi). Tremonti non cita, ma di Giavazzi condivide
l’afflato liberalizzatore nel mercato interno dell’Europa e dell’Italia.
Altri sono i mercatisti suicidi attaccati nel suo pamphlet:
intellettuali e commis di formazione marxista che hanno troppo
repentinamente forzato gli equilibri tra i mercati europei e quelli
asiatici.
La contingenza politica: pubblicati entrambi nel settembre passato, i
due libri ci accompagneranno, con le loro tesi, nella lunga campagna
elettorale che ci attende. Pur nella sua visionarietà, Rischi fatali è
il manifesto di un tremontismo di governo attorno al quale si sta
coagulando la prospettiva della gran parte di Forza Italia, della Lega
Nord, e forse in misura minore anche di Alleanza Nazionale. Lobby
d’Italia è oggi la summa divulgativa del giavazzismo, già adottato come
base del programma economico dalla Rosa nel Pugno, e più in generale
punto di riferimento dei settori riformisti-liberisti dei Democratici di
Sinistra e della Margherita.
La ricchezza delle proposte, che muovono dal tema delle regole
(liberismo versus protezionismo), ma lo integrano aprendo ai problemi
già di Schumpeter: su quali attori economici e sociali scommettere (e
quindi su quale constituency politica puntare), come rilanciare il
rapporto tra risparmio e investimento, tra finanza e impresa. Fin qui le
ragioni di una lettura parallela: ma le strade indicate per reagire al
declino, pur intersecandosi, sono diverse.
Le regole: troppe e troppo poche
Per Tremonti, l’ultimo decennio è stato caratterizzato da un doppio
movimento. Da una lato la repentina liberalizzazione del commercio
mondiale (1994: accordi wto; 2001: adesione della Cina), che ha
accelerato i processi di globalizzazione. Dall’altro, l’inarrestabile
corsa alla regolamentazione nei mercati interni dell’Unione Europea
(gustose le pagine sulle regole di welfare delle galline o sull’indice
rifrattometrico della polpa dei cocomeri). La qualità e la quantità
della regolamentazione sono elementi fondamentali per la competizione: è
pericoloso imporre a se stessi regole costose da rispettare, e liberarsi
da quelle che governano la competizione con sistemi economici (la Cina)
che non ne rispettano alcuna. È un vero e proprio suicidio farlo
repentinamente, senza quel gradualismo che Tremonti molto esattamente
pone al centro della teoria e della pratica della tradizione liberale.
Che fare? Con un uso accorto dell’utopia come retorica politica,
Tremonti lancia un programma in sette punti (chiamiamolo
neo-protezionista, per intenderci) e una provocazione: per cinque anni
ogni iniziativa economica sia libera se non viola il codice penale. Meno
regole verso l’interno, più regole verso l’esterno.
Anche per Giavazzi l’Italia è ingessata dalle regole, ma il bersaglio è
diverso: non la nuova burocrazia europea ma le vecchie corporazioni
italiane, non le direttive sulla produzione agricola ma il proliferare
di albi professionali e di licenze. L’utopia negativa non è il
superstato mercatista che pretende di regolare i bisogni dei cittadini e
la loro soddisfazione secondo un modello astratto di perfezione, ma una
comunità neomedievale fatta di privilegi, storici abusi che diventano
legge, corporazioni che perpetuano nel tempo il controllo sulle
decisioni politiche. Non c’è gradualismo efficace contro questo
schieramento di forze: ci vogliono riforme nette, anche simboliche, che
mirino al cuore dei vecchi poteri che bloccano il paese. Bisogna
tagliare il cordone che ancora lega le banche alla politica riformando
le fondazioni; abolire gli ordini professionali e il valore legale del
titolo di studio per creare un mercato libero dei servizi; imporre agli
Enti territoriali la privatizzazione delle imprese controllate e
completare la cessione delle partecipazioni statali.
La constituency sociale ed economica
Nell’antropologia economica tremontiana, la figura negativa è il
burocrate, il commis con il suo bagaglio di dogmatismo mercatista. Meno
esplicito, ma altrettanto evidente, è il polo opposto. L’imprenditore,
vessato da norme che gli impongono standard costosi, spiazzato nella
competizione con i cinesi, che non rispettano altre regole se non quelle
di una produttività esasperata. Con l’imprenditore, dalla stessa parte e
con lo stesso aleggiante spettro della povertà, l’operaio. Quando
Tremonti invoca dazi e quote per proteggere transitoriamente l’economia
in nome del primum vivere delle nostre imprese – ammiccando al
pragmatismo craxiano, col quale ha intrecciato una fase del proprio
percorso intellettuale e politico – pare di sentire l’eco delle
preoccupazioni non rassegnate dei piccoli e medi imprenditori (e dei
loro operai) che da molti anni ascolta e difende, e che costituiscono
oggi una sua specialissima base di consenso. È all’imprenditore, e
all’imprenditore manifatturiero in particolare, che Tremonti affida
ancora il ruolo di trainare l’Europa e l’Italia. La terziarizzazione
dell’economia non convince Tremonti: una grande economia avanzata non è
solida senza un forte (prevalente?) contributo dell’impresa
manifatturiera, che dà lavoro e sostiene la bilancia commerciale.
L’economia della produzione trova credito anche nelle pagine di
Giavazzi, ma il modello è diverso: da un lato i notabili della vecchia
Italia che non vuole cambiare, notai, avvocati, banchieri, baroni
accademici. Dall’altro, i tecnici e gli specialisti al servizio della
via alta alla competizione: ricercatori (di formazione rigorosamente
scientifica), ingegneri, designer, fisici dei materiali. A Giavazzi
piacerebbe un paese in cui i ventenni ambissero a progettare i freni
della Brembo e non a fare l’avvocato nello studio del padre. Il
giavazzismo considera l’italianità delle imprese un falso problema: il
paese prospera non tanto se proliferano gli imprenditori, ma i
ricercatori e gli ingegneri che permettono alle imprese che operano in
Italia di competere sulla frontiera dell’innovazione, della qualità, del
valore aggiunto, piuttosto che su quella dei volumi e del prezzo.
L’equivoco bancario
Una visione critica nei confronti dell’assetto del sistema bancario e
finanziario attuale accomuna le due visioni. Tremonti è meno esplicito,
ma c’è almeno un elemento illuminante: la polemica già richiamata verso
l’opzione della terziarizzazione dell’Europa e dell’Italia. Rischi
fatali liquida senza una vera argomentazione la praticabilità di un
percorso come, ad esempio, quello britannico. Contando, certo, sulla
lingua, sulla tradizione imperiale, sulla City, la Gran Bretagna della
Thatcher e di Blair ha saputo convertirsi da potenza dell’industria a
potenza del terziario. Oggi esporta cultura e servizi finanziari.
Uscendo dalle pagine del libro, e cercando di illuminare con esse la
prassi politica (esercizio complesso, ma ineludibile quando si abbia a
che fare con libri-manifesto), è più facile comprendere perché Tremonti,
così attento alla difesa delle manifatture nazionali, in questi anni non
sia stato certo un difensore delle ragioni delle banche italiane. Non è
un caso che il tremontismo che Giavazzi più ama sia quello sovversivo
degli assetti bancari: battaglia sulle fondazioni; polemica con il
Governatore nazionalista; linea liberal e consumerista sugli
investimenti dei risparmiatori (Cirio, Argentina, Parmalat); spazio
all’Antitrust. Giavazzi è se possibile ancora più critico: in un recente
articolo, è arrivato a descrivere i banchieri italiani come un consesso
di volpi che hanno appena visitato i pollai. Certo, piace l’operazione
Unicredit-hvb, piacciono le Generali che crescono in Cina, ma il
giudizio di fondo non muta: il mercato bancario non è concorrenziale,
danneggia i risparmiatori, frena lo sviluppo. La ricetta è conseguente:
rimozione del Governatore, ridimensionamento delle fondazioni, maggiore
concorrenza.
Alla ricerca di una forza economica, di una constituency per reagire al
declino, il tremontismo e il giavazzismo preferiscono affidarsi
all’imprenditore manifatturiero o al tecnico iperqualificato: del
banchiere non si fidano. Una simile scelta deriva, probabilmente, da una
prospettiva non interna sul sistema bancario italiano: esso è già molto
più internazionalizzato e molto più competitivo di quanto possa
apparire. In Italia operano da anni diverse banche straniere, alcune con
reti molto rilevanti. La finanza cosiddetta strategica per le imprese di
maggiori dimensioni è di fatto in mano a banche estere. La quota di
capitale di istituti esteri in banche italiane è allineato ai livelli
europei. Che non si tratti di semplici investimenti finanziari, è
suggerito da una circostanza su tutte: la sola grande banca italiana che
ha fatto una fusione cross-border da posizione di forza, è anche la sola
a non avere quote rilevanti di capitale bancario estero nella propria
compagine sociale. Sono proprio le fondazioni, azioniste di controllo di
Unicredit, ad avere dato forma alla banca italiana più dinamica
all’estero.
C’è altro: la finanza internazionale sta prendendo il controllo delle
crisi industriali italiane. Solo nel 2005 sono finiti nelle mani di
grandi banche straniere crediti in sofferenza per circa 15 miliardi di
euro. Molti fallimenti si decidono, già oggi, a Londra.
In questo scenario, nell’ultimo decennio le banche italiane sono state
protagoniste di uno straordinario percorso di ristrutturazione
industriale: fusioni e incorporazioni per perseguire economie di scala,
drastico taglio dei costi, riduzioni di personale e forte turnover a
favore di risorse qualificate. Oggi il settore occupa direttamente
350.000 persone, con una percentuale di laureati che non ha eguali in
altri comparti. È per queste ragioni – non perché qualche istituto ha
rifilato a risparmiatori non informati bond ad alto rischio, o perché i
conti correnti costano di più che in paesi in cui le banche possono
fallire – che il sistema ha saputo mantenere un discreto livello di
redditività anche negli ultimi anni, così duri per la nostra economia.
Una sintesi politica
Modello delle regole, forze economiche di riferimento, ruolo delle
banche: le visioni tremontiana e giavazziana non sono incompatibili per
alcuno dei tre aspetti. Una sintesi riformista tra le due prospettive è
possibile senza snaturarle, e può trovare consenso nel paese. I primi
segnali di dialogo politico tra i due riformismi si vedono già, e vanno
incoraggiati. Riforma degli albi, delle tariffe e delle professioni,
rilancio delle privatizzazioni specie negli Enti territoriali, uso
transitorio e pragmatico di protezioni per alcuni settori industriali,
riduzione degli oneri che gravano sul costo del lavoro. Su punti come
questi le due constituency di riferimento possono trovare un’intesa.
Su un punto la sintesi politica dei due riformismi potrebbe però essere
più avanzata rispetto alle proposte che la animano: il coinvolgimento
delle banche italiane nel percorso. Sarebbe un grave errore politico
lasciare alle banche il ruolo di bersaglio polemico. Il sistema bancario
italiano non deve essere solo un serbatoio di credito a buon mercato per
imprese più o meno in difficoltà, e di distribuzione di piccole (grandi)
rendite a risparmiatori che hanno accumulato piccoli (grandi) gruzzoli:
questa è semmai la logica delle banche cinesi.
Oggi il settore bancario italiano è un’industria ristrutturata e
dinamica, che come e meglio di altri settori industriali può competere
all’estero esportando i propri prodotti: credito, finanza, servizi. La
banca moderna è nata in Italia, e la via dei banchieri, a Londra, si
chiamava Lombard Street. Non potremo in breve tempo competere alla pari
degli usa e dell’Inghilterra, ma la politica, se cerca una strada per
reagire al declino, può trovare nella banca un compagno di viaggio.
02 marzo 2006
* Alessandro Carpinella, è senior manager kpmg advisory
dove si occupa principalmente di pianificazione strategica per il
settore bancario e il settore pubblico. Si è laureato in Filosofia
politica alla Scuola Normale Superiore di Pisa
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