Il Sudamerica no-global
di Giuseppe De Bellis
[16 mar 06]
da Ideazione di marzo-aprile 2006
La frontiera è il Messico. E’ un confine politico, perché la geografia
non c’entra più. Al di là di quella linea c’è un mezzo continente che
sta cambiando, che svolta verso il populismo tendenzialmente
anti-americano. Sono cambiate le cose: non c’è solo Cuba e Fidel Castro,
adesso. C’è il Venezuela, la Bolivia, l’Argentina, il Paraguay,
l’Uruguay. Il Messico è in mezzo. Il Messico che sente il richiamo del
Sud, ma sa che senza l’aiuto del Nord avrebbe difficoltà a reggersi. E’
membro del nafta (North American Free Trade Agreement) e quindi è
integrato economicamente agli usa, ma senza la spinta che arriva dal
meridione e dal Chapas. Allora è un paese diviso che sta per andare a
votare per il suo futuro: il 2 luglio ci sono le elezioni presidenziali.
E’ una data fondamentale anche per gli Stati Uniti e di riflesso anche
per l’Europa.
All’inizio dell’estate prossima la frontiera dirà da che parte sta, se
vuole seguire la strada disegnata da Chavez e oggi da Evo Morales,
oppure se vuole restare un cuscinetto, un ponte tra Nord e Sud: legato
agli Stati Uniti e allo stesso tempo vicino ai paesi del Sudamerica.
Alle elezioni si arriva così: il presidente liberal-democratico Vicente
Fox è a fine mandato e in base alla Costituzione non può ripresentarsi.
Oggi il favorito per la successione è Andres Manuel Lopez Obrador,
attuale sindaco di Città del Messico. E’ un populista di sinistra che
promette di tutto e di più ai diseredati, uno che si atteggia a Robin
Hood, senza spiegare però a chi toglierà denaro e beni per distribuirne
a chi non ne ha. Lo chiamano tutti Amlo, acronimo del suo sterminato
nome, ed è il candidato del Partido de la Revolución Democrática, prd. I
sondaggi gli attribuiscono un buon 35 per cento delle preferenze
elettorali, con un margine di circa sei punti sui più vicini
concorrenti, Roberto Madrazo del Partido Revolucionario Institucional (pri,
di centro-destra, che ha governato il paese per 70 anni e conserva un
buon numero di governatori e la maggioranza nel Parlamento) e Felipe
Calderón, del Partido Acción Nacional (pan, di destra, che nel 2000 ha
conquistato la presidenza con Vicente Fox Quezada).
Il sindaco populista alla conquista del Messico
Amlo è in testa, ma ha una strada in salita: deve rispondere di alcune
accuse della magistratura e della estrema sinistra. Contro gli si è
scagliato anche il subcomandante Marcos: lo ha accusato di essere l’uovo
del serpente, il cavallo di Troia dell’imperialismo, colui che, se
eletto, non ripudierà le politiche neoliberali che «da oltre vent’anni
stritolano il Messico», ma, al contrario, le approfondirà ancor più,
«riordinandole ed intensificandone l’efficacia». L’attacco del leader
zapatista ha scombinato i piani di Amlo, convinto di avere l’appoggio
della massa che s’imbeve della dottrina del nuovo leader rivoluzionario.
Invece no. La divisione a sinistra ha scombussolato i piani di Lopez
Obrador, ma non ha cancellato il seguito che è riuscito a conquistare.
E’ un politico astuto, nato nel pri e diventato uno dei leader del
centrosinistra messicano per convenienza, perché nel centrodestra non
trovava spazio. La sua pagina web informa che è nato nel 1953 a
Macuspana, una cittadina del Tabasco, nel profondo sud-est messicano. E’
d’origine umile, si è laureato in scienze politiche e ha rotto con il
pri nel 1988 per unirsi alla campagna elettorale di un altro ex priista,
Cuauthémoc Cárdenas, fondatore e del prd. Poi è stato candidato al
governo del Tabasco e presidente del prd tra il 1996 ed il 1999.
Giudicato un capopopolo è temuto per la capacità di fomentare le folle.
E’ anche così che ha conquistato Città del Messico. E’ accaduto nel 2000
e ha retto fino a luglio del 2005, quando ha deciso di rinunciare per
dedicarsi alla campagna presidenziale. Come governante della città più
grande del mondo, Amlo ha avuto alti e bassi. Apprezzato per gli
investimenti nel campo dell’edilizia, dell’educazione, della sanità e
dell’assistenza agli anziani e criticato per i suoi programmi di
ristrutturazione del centro storico e d’ampliamento della rete stradale
urbana. Adesso vorrebbe estendere il suo modello al resto del Messico.
Contenuta in 50 punti, la piattaforma di Lopez Obrador promette di
aumentare il salario minimo, frenare la privatizzazione del settore
energetico, riattivare l’economia, creare impiego, risanare le
disastrate campagne.
Come ancora non si sa, a pochi mesi dalle elezioni il programma racconta
le cose da fare, ma non accenna alle modalità. Poi ci sono dei buchi:
Amlo tace su questioni importantissime come la problematica delle donne
e il narcotraffico. Le sue intenzioni in politica estera non sono
chiare: «Bisogna approfittare della globalizzazione e non solo
soffrirla». Al Financial Times ha detto anche che se sarà eletto
rispetterà l’ordine macroeconomico internazionale, manterrà la
disciplina finanziaria, il controllo del deficit pubblico,
dell’inflazione e del debito estero. Il tema del Mercosur – il polo
economico sudamericano che comprende Venezuela, Paraguay, Argentina,
Brasile, Uruguay e Bolivia – non figura nel suo programma, dove neppure
si esige di rinegoziare il nafta, il trattato di libero commercio tra
usa, Canada e Messico che nel 1994 fu alla base della ribellione
zapatista.
Detto così non sembra neanche un candidato del centrosinistra, Lopez
Obrador. Non sembra ma lo è. Ed è anche molto intelligente e allora sa
che in campagna elettorale in Messico non è saggio fare sfoggio di
radicalismo. La verità si potrà sapere solo dopo il 2 luglio. Nel
frattempo la Alianza por el bien de todos (la sua coalizione che oltre
al prd comprende anche due partiti minori, in precedenza legati al Pri,
il Partido del Trabajo, Pt, e Convergencia, presieduto dall’ex
governatore di Veracruz e antizapatista, Dante Delgado) ingrana e
calamita l’attenzione di diverse classi sociali. La forza sta
nell’appoggio delle masse proletarie urbane di sinistra e zapatiste.
Sono convinte che López Obrador sia il futuro, nonostante faccia il
politico da sempre. E anche qui sta il problema: Amlo dice di non voler
abbattere le strutture che hanno portato il Messico a vivere
decentemente, ma sa che senza l’appoggio delle masse proletarie non
potrebbe mai vincere. Allora è tendenzialmente destinato a scegliere la
via del chavezismo. Tanto più che sa di avere garanzie economiche. Dalla
sua parte ha Carlos Slim, tycoon al quarto posto della lista Forbes
degli uomini più ricchi del mondo, il quale ha finanziato alcune delle
opere pubbliche di Città del Messico. Slim, però, ha fissato le
condizioni: pace sociale e crescita economica. E’ praticamente l’opposto
di quanto chiedono i proletari che tirano per la giacchetta il candidato
del Prd.
Mentre il Messico deciderà a Nord e a Sud staranno a guardare. L’America
Latina spera di portare anche i messicani sulla sua nuova strada. Quella
strada battuta la prima volta nell’ottobre del 2002, quando Ignacio Lula
da Silva, leader del partito dei lavoratori, venne eletto presidente del
Brasile con più del 60 per cento dei voti. In Europa molti pensarono che
Lula fosse la nuova sinistra. Non si sa bene perché, ma divenne una
specie di modello. Si ricordano leader di partito italiani volati a
Brasilia per omaggiarlo, si ricordano dichiarazioni della sinistra
internazionale in pellegrinaggio provinciale: tutti alla scoperta del
signore che aveva sconfitto la storia. Oggi Ignacio da Silva detto Lula
è stato un tantino emarginato. Sconfessato perché il Brasile non ha
preso la deriva populista che invece hanno preso altri paesi. Come il
Venezuela di Chavez e come oggi la Bolivia di Evo Morales. E infatti
oggi il problema di Lula non è lui, ma quello che ha creato. Perché
quella vittoria della sinistra in Brasile è stata un lasciapassare, la
chiave che ha aperto la porta a un processo politico che rischia di
modificare radicalmente il volto dell’America Latina. Anzi, forse l’ha
già cambiato: dal Canale di Panama in giù, fino alla Terra del Fuoco e a
Capo Horn la sinistra estrema e anti-americana s’è presa il potere. A
volte con metodi poco chiari, altre con elezioni importanti e giocate
male dai candidati moderati e liberali. Qualcuno negli Stati Uniti parla
di un ritorno del comunismo. Ecco, di comunista è rimasto solo Fidel
Castro. Né Chavez né Morales si dichiarano comunisti. Non sono
abbastanza folli da commettere un errore simile.
Il ritorno degli anni Settanta ma senza la coperta del comunismo
Forse è proprio questo il problema principale. In Sudamerica torna in
modello degli anni Settanta, ma più intelligente. Si dichiarassero
comunisti davvero, i nuovi presidenti poco democratici dei paesi latini
sarebbero sconfitti in partenza. Invece predicano le stesse cose, ma si
chiamano diversamente. Spingono sull’acceleratore della insoddisfazione
delle masse per dire che è tutta colpa degli Stati Uniti e del loro
imperialismo. Washington è preoccupata e per questo guarda al Messico
come un argine. Perché se salta quello sono guai veri.
Perché di fatto il Nicaragua è già saltato. Si vota anche lì e si
profila un ritorno al potere attraverso le urne di Daniel Ortega
Saavedra, già capo dei sandinisti. Il suo gruppo aveva già governato
alla fine degli anni Settanta. Aveva l’appoggio di Castro e di tutto il
blocco sovietico. Allora fu combattuto da Ronald Reagan e furono
sconfitti alle elezioni del 1990. Stavolta è diverso: le priorità di
Washington sono necessariamente cambiate: l’11 settembre ha cambiato
tutto, ha stravolto i piani, ha portato l’America da un’altra parte. Il
Sudamerica era un punto importante della politica estera di Bush Jr.
All’inizio del suo primo mandato aveva indicato i rapporti con i paesi
latini fondamentali per lo sviluppo del sistema panamericano. Al Qaeda e
Osama bin Laden hanno fatto cambiare rotta. Così oggi a sud del Messico,
oltre quella frontiera geografica e politica, comanda il presidente
venezuelano Hugo Chavez, che ha ormai preso il posto di Fidel Castro
come paggetto della sinistra nell’America Latina: si dichiara erede di
una “rivoluzione bolivariana” che, nei suoi bizzarri piani, dovrebbe
aprire la strada a un grande ritorno del socialismo reale. E’ un ex
golpista, ma è diventato presidente attraverso le elezioni. Per questo
formalmente il Venezuela è una democrazia, anche se in realtà la
situazione è un po’ più complicata.
Di Simon Bolivar, Chavez si sente discendente diretto con lo stesso
atteggiamento avuto dai peggiori dittatori del Novecento. Ogni passo,
ogni dichiarazione, ogni uscita pubblica sono un’offesa agli Stati Uniti
d’America, al liberismo, al capitalismo. Il richiamo con l’Unione
Sovietica va oltre gli slogan. Di recente ha espulso un funzionario
dell’ambasciata usa di Caracas ed è in continua agitazione. Washington è
il nemico da abbattere e da umiliare. Così durante durante un discorso
televisivo, un giorno ha spiegato che il problema di «Condoglianza Rice»
(così chiama il segretario di Stato Usa) non è soltanto il fatto di
essere ignorante, ma di «non avere un uomo».
Politicamente usa un populismo militare: gerarchico, controllato,
rigoroso. Hugo è un personaggio da anni Settanta. Nei modi e nelle
movenze scimmiotta Fidel Castro, con il quale condivide idee e
atteggiamenti anti-americani. Più del Lìder Maximo, però, è accecato
dalla sete. Forse di Castro è anche più intelligente. Di sicuro più
moderno. Conosce i metodi di comunicazione, sa come gestire il popolo.
Incredibilmente vuole trasportare il modello arabo in Sudamerica. E’
stata sua l’idea di creare la televisione satellitare Telesur. Ha
trovato il consenso di Argentina, Cuba e Uruguay, per quella che Chavez
vuole che sia la Al Jazeera dell’America Latina. La sua irruenza
pubblica e il suo modo di comportarsi mascherano tutto. Mascherano la
condizione di un paese che sta male. Perché grazie a Chavez oggi il
reddito dei venezuelani è diminuito di una percentuale che va dai 15 ai
20 punti. Eppure quello che viene fuori è uno Stato forte e in salute,
esattamente come facevano i dittatori del blocco sovietico.
L’influenza di Chavez spinge ancor di più il Sudamerica verso sinistra e
forse verso un buco nero. La Bolivia ha eletto presidente Evo Morales
che con Hugo condivide un’amicizia personale e l’affinità politica in
nome dell’anti-americanismo e dell’anti-liberismo. Evo Morales in
prospettiva potrebbe far più danni di Chavez, perché oltre all’identità
politica, lui aggiunge il fatto di appartenere a una minoranza razziale.
Morales è un indio di razza Aymara ed è anche il leader storico dei
cocaleros, i coltivatori di coca. Aveva già provato a essere eletto
presidente, ma venne sconfitto. Da parlamentare ha avuto un percorso
pieno di problemi: espulso dall’Assemblea per aver aizzato la folla
contro i deputati prima di una seduta. Qualche mese fa, invece, ha
vinto. Al secondo tentativo. E ha vinto con una campagna che ha fatto
dell’alleanza con Venezuela e altri paesi vicini il perno centrale.
Altri temi: stop all’influenza americana al Sud, lotta alle
privatizzazioni, alla liberalizzazione dei commerci e al capitale
straniero. Morales ha vinto con una battaglia di retroguardia che ha
entusiasmato le popolazioni degli altipiani e conquistato centinaia di
migliaia di nuovi adepti al suo partito, Movimento verso il socialismo
(mas). Morales è giudicato peggio di Chavez. In un report del Pentagono
Evo il Cocaleros viene definito il più pericoloso leader popolare dalla
rivoluzione cubana in poi. Questo perché mobilita le folle come nessun
altro. Ha scelto la diplomazia del maglione, ma ha dichiarato che
diventerà «il peggiore incubo degli Stati Uniti». Tanto per essere
preciso, a meno di venti giorni dall’assunzione è arrivato a Caracas. La
seconda tappa in un giro del mondo che in undici giorni l’ha portato a
visitare sette paesi di quattro continenti. La prima era stata Cuba.
Ovviamente i primi due passi non sono stati casuali. Ad aspettarlo
all’aeroporto c’era Hugo Chavez.
Prima dichiarazione: «Sono arrivati tempi nuovi e siamo entrati in un
nuovo Millennio per i popoli e non per l’Impero, per risolvere i
problemi sociali ed economici della gente». Chavez annuiva tranquillo e
quando ha preso la parola è andato a rimorchio: la vittoria di Morales è
un segno della resurrezione dei popoli che si svegliano e riemergono dal
fondo della storia. «Venezuela, Bolivia e Cuba non formano un asse del
male. L’asse del male sono Washington e i suoi alleati nel mondo, che
minacciano, invadono ed assassinano. Noi invece stiamo formando l’asse
del bene, l’asse nuovo, del secolo nuovo». Altro dettaglio: nello scalo
di otto ore a Caracas, il leader aymara boliviano ha anche deposto un
omaggio floreale alla statua di Simon Bolivar e al mausoleo del cacicco
Guaicaipuro. Poi è andato nel Palazzo di Miraflores, dove ha preso la
penna e ha firmato il primo accordo internazionale. Quello di
cooperazione in campo politico, sociale ed economico. Accordi
strategici, così li ha definiti.
L’alleanza con Chavez, non è l’unico guaio. Morales ha anche un altro
problema. Viene dalle origini e dalla coca. E’ sempre stato ostile alla
strategia antidroga di Washington ed ha proposto alla Casa Bianca un
approccio basato non sul principio di “coca zero”, ma di “droga zero”,
con una depenalizzazione della produzione della foglia di coca, usata
dagli indios in Bolivia e nella regione anche per l’industria
farmaceutica. Dal punto di vista economico, il Cocacolero chiude le
frontiere. Non vuole stranieri nei giacimenti di gas, ha annunciato che
tutte le riserve saranno nazionalizzate.
Non ci sono soltanto Venezuela, Bolivia e in parte Brasile. La svolta
populista sudamericana viaggia anche in Perù, dove Ollanta Umala, un ex
militare espulso dall’esercito per le sue idee troppo estremiste, è uno
dei favoriti per la successione al presidente Toledo. L’altro è Lourdes
Flores Nano. Fino a oggi il Perù ha fatto un po’ come il Cile. A
sinistra, ma moderata. Buoni rapporti con gli usa ed economia di
mercato. Il futuro è un’incognita. Si vota il 9 aprile e se vincerà
l’estrema sinistra anche Lima finirà nell’asse che Chavez e Morales
chiamano del bene, ma che assomiglia tanto a quello del male.
Problema che l’Argentina si porrà nel 2007 quando il popolo andrà a
votare per confermare o meno Nestor Kirchner. Anche lui viaggia sui
canoni del populismo di stampo latino, s’imbeve di demagogia e quando
può attacca l’imperialismo statunitense. Non ha l’immagine rozza di
Chavez e Morales, però ha governato l’Argentina come se il mondo non
esistesse: ha rifiutato di pagare tutti i creditori stranieri. Quando è
arrivato lui al potere l’Argentina era al minimo, sgonfiata dalla crisi
del 2002. Oggi s’è ripresa. Non si sa se per merito di Kirchner o per
cause naturali, per quel classico andamento che quando hai toccato il
fondo ti porta comunque a risalire. Anche in Uruguay il populismo ha
attecchito. Al governo c’è Tabarè Vazquez, del Frente Ampio, partito di
sinistra e discendente dei guerriglieri che una ventina di anni fa
cercarono di prendere il potere con un colpo di Stato. Vasquez governerà
fino al 2010 questo piccolo paese di 3,4 milioni di abitanti e che ha un
debito molto alto.
Le preoccupazioni degli analisti statunitensi
Resta la Colombia, allora. E’ governata da Alvaro Uribe che chiede al
paese di essere rieletto a maggio. E’ il favorito nelle elezioni perché
ha lavorato bene. Ha pacificato un paese in perenne guerriglia civile e
ha saputo dare slancio all’economia. Così ha un indice di consenso
dell’80 per cento e viene dato per vincitore al primo turno con più del
55 per cento dei consensi. Ma Uribe è solo. E’ accerchiato. Tutti i
confinanti hanno svoltato. Così il populismo rosso che avanza sul
continente suscita preoccupazioni a Washington. Nell’ultimo numero di
Foreign Affairs, Peter Hakin si chiede se ormai gli Stati Uniti abbiano
perso tutta la loro influenza, se la Cina in futuro possa intromettersi
e fare quello che l’Unione Sovietica faceva durante la guerra fredda.
Adesso comincia a porsi qualche domanda anche l’Europa. Perché questa
tendenza che parte dal Brasile e si diffonde a macchia d’olio (anzi
petrolio, quello di Chavez e dei suoi miliardi) va capita prima di
essere spiegata, invece oggi nessuno ha voluto comprenderla. Allora oggi
ci si pongono domande banali, con risposte complicate. Ci si chiede
perché il Sudamerica non abbia imparato nulla dall’esperienza cubana,
perché i centinaia di migliaia di esuli non contino nulla, perché le
svolte liberali degli anni Novanta non abbiano attecchito, perché la
vera democrazia sia un bene che l’America Latina non sa apprezzare. Il
potere al proletariato, poi. La privatizzazione cancellata e la
ri-nazionalizzazione dell’economia. Dalla frontiera del Messico alla
Pampa il 2006 sembra uguale al 1970, o al 1975, o al 1977: l’imitazione
di un’epoca che doveva essere già sepolta. Invece c’è. Ritorna e lascia
quasi impotenti, alla ricerca di una medicina che possa curare questa
malattia. Oggi che non c’è più il modello sovietico da contrastare, non
ci sono antidoti, non c’è un vaccino contro il passato. Allora accade
l’incredibile: la fine di Castro si avvicina, ma qualcuno ha già preso
la sua eredità.
16 marzo 2006
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