Sinistra e informazione
di Arturo Diaconale
[16 mar 06]
da Ideazione di marzo-aprile 2006
Piero Badaloni ha festeggiato in anticipo. Alla fine di gennaio, per
celebrare il suo ritorno a Roma dopo gli anni dell’“esilio” a Bruxelles
ed a Berlino, ha riunito i suoi amici del Tg1, della rai e della
politica in un pub del quartiere Prati. E, con il pretesto formale del
tanto sospirato “ritorno”, ha brindato ad una sorta di pre-investitura
alla direzione della corazzata informativa della prima rete del servizio
pubblico radiotelevisivo, quel tg1 che ormai da più di cinquant’anni
viene considerato lo specchio politico del paese. Alla festa, infatti,
c’erano tutti i giornalisti di area ulivista della testata ancora
temporaneamente diretta da Clemente Mimun, il consigliere di
amministrazione “unionista” Nino Rizzo Nervo, l’ex consigliere di
amministrazione ed attuale senatore prodiano Luigi Zanda, l’ex
presidente della rai artefice della “guerra santa antiberlusconiana”
durante le elezioni del 2001, Roberto Zaccaria. Ed a tarda sera,
salutato da canti inneggianti alla sicura vittoria del prossimo 9
aprile, è giunto il leader di riferimento dell’intera compagnia, Romano
Prodi, che nell’abbracciare il suo vecchio corrispondente personale da
Bruxelles negli anni della presidenza della Commissione ue, lo ha di
fatto investito alla suprema carica del Tg1.
A voler fare una mappatura classica dei rivolgimenti che potrebbero
verificarsi nel mondo dell’informazione italiana nel caso il
centrosinistra dovesse vincere le elezioni politiche di primavera,
bisognerebbe partire proprio dal Tg1 e dalla rai. Badaloni, che è stato
redattore del telegiornale prima di essere eletto con il centrosinistra
alla presidenza della Regione Lazio ed essere stato successivamente
inviato come corrispondente di fiducia di Prodi a Bruxelles, dovrebbe
essere il successore naturale di Clemente Mimun. Il manuale Cencelli non
scritto della lottizzazione stabilisce, infatti, che a dirigere il
principale telegiornale del servizio pubblico sia un giornalista di
fiducia del presidente del Consiglio. E, quindi, al primo posto della
mappatura del mondo dell’informazione nella legislatura del
centrosinistra dovrebbe naturalmente figurare Piero Badaloni in quanto
pupillo di Prodi.
Ma il condizionale è d’obbligo. E non perché l’ex presidente della
Regione Lazio potrebbe essere bruciato sul filo di lana da un qualche
altro superprotetto del leader dell’Unione. Durante gli anni del comune
soggiorno a Bruxelles Prodi e Badaloni hanno stabilito rapporti di
ferro. Ma perché, anche se apparentemente tutto è rimasto immutato nel
mondo dell’informazione nazionale dai tempi della lottizzazione
ufficiale e trionfante, una serie di modificazioni sotterranee si è
verificata. Ed è facile prevedere che gli effetti di questi sommovimenti
tellurici incominceranno a mostrarsi in superficie proprio nel caso il
centrosinistra dovesse conquistare il governo del paese.
Partiamo proprio da Badaloni e dalla regola secondo cui il Tg1 va
diretto da un giornalista di fiducia del leader del partito vincitore.
Durante la prima repubblica l’applicazione della regola era scontata.
Visto che il principale partito di governo, qualsiasi governo, era la
Democrazia Cristiana, l’editore di riferimento del tg1 era la dc e la
designazione del direttore del telegiornale spettava al segretario dello
scudo crociato. Nella seconda repubblica, cioè negli anni del
maggioritario, la regola ha trovato una analoga applicazione. Il
direttore del tg1 è sempre stato designato dal leader della coalizione
vincente. Ma che succede se il leader della coalizione non coincide con
il leader del partito più forte della coalizione stessa? Chi diventa
l’editore di riferimento del Tg1? Il leader della Coalizione o il leader
del partito?
La questione non è di lana caprina. E la conferma viene dal fatto che in
rai non tutti danno per scontato l’avvento della direzione Badaloni in
caso di vittoria elettorale dell’Unione. Prodi è un leader anomalo. Non
ha un partito di riferimento alle spalle. Ed il partito più forte della
sua coalizione è rappresentato dai Democratici di sinistra, forza
politica con alle spalle una lunghissima tradizione di egemonia
culturale e di pratica “occupazione” della rai. Di conseguenza, dallo
“specchio politico” del paese incominciano a riflettersi bagliori fin
troppo significativi. Da New York Giulio Borrelli, che è già stato
direttore del Tg1 in quota ds, lancia messaggi di pronta disponibilità a
lasciare la “grande mela” per piombare a Saxa Rubra e rialzare la
bandiera diessina sul pennone della corazzata informativa della rai. A
sua volta, da Parigi, dove è appena arrivato dopo una lunga e piacevole
permanenza a Londra, il brillante Antonio Caprarica, in nome del fatto
che oltre ad essere stato “comunista” è anche “bravo”, si candida a
mostrare la propria bravura in nome e per conto del proprio partito al
posto del prodiano Badaloni, da tutti considerato un pesce lesso.
Dietro il balletto dei nomi, ovviamente, c’è la questione politica. Chi
comanderà all’interno del centrosinistra? Il leader senza partito che
non può esprimere un leader alla guida del governo? A sua volta, dietro
la questione politica si nasconde una questione ancora più complessa.
Che riguarda non solo la rai ma anche il resto del mondo
dell’informazione nazionale. E tira in ballo gli assetti strutturali dei
media nazionali facendo saltare tutti i criteri tradizionali della
vecchia lottizzazione.
La questione degli assetti riguarda la proprietà dei mezzi
d’informazione ed il loro rapporto con la politica. Negli anni della
prima repubblica ed in quelli della seconda il rapporto tra politica e
proprietà editoriali è stato di sostanziale dipendenza delle seconde
dalla prima. Alla lottizzazione della rai, che rispondeva ad un criterio
esclusivamente e squisitamente politico, corrispondeva una lottizzazione
pressoché analoga delle televisioni commerciali e della carta stampata.
Nel servizio pubblico la dipendenza ha fissato un criterio che è stato
sostanzialmente conservato sia con il centrosinistra, sia con il
centrodestra. Cioè il criterio del due a uno. Dal ’96 al 2001 il
centrosinistra ha controllato Tg1 e Tg3 lasciando al centrodestra il Tg2
(e sul resto dell’azienda pubblica è stato applicato lo stesso schema).
Dal 2001 al 2006 è avvenuto il contrario (due terzi al centrodestra ed
un terzo al centrosinistra). E nelle reti commerciali e nei grandi
giornali d’informazione (con le scontate eccezioni dei quotidiani
nazionali d’opinione la Repubblica e il Giornale) il meccanismo è stato
analogo. Negli anni dell’Ulivo anche le testate giornalistiche di
Mediaset hanno seguito l’esempio della rai. E nessuna proprietà dei
grandi giornali d’informazione ha mai cambiato un direttore senza prima
consultarsi ed avere la benedizione e l’avallo dei responsabili delle
principali forze politiche al governo. Lo stesso è avvenuto negli anni
iniziali del centrodestra. Per la verità più per inerzia imitativa di un
governo che non avendo la cultura dell’informazione egemonica ha
abbandonato a se stesso il settore dei media, che per una autentica
volontà di rispettare le regole del pluralismo.
Ma dalla metà della legislatura berlusconiana in poi (volendo fissare
una data si potrebbe indicare quella dell’avvento di Luca Cordero di
Montezemolo alla guida della Confindustria), il rapporto tra politica e
proprietà editoriali si è radicalmente modificato. Alla vecchia
subordinazione delle seconde alla prima è subentrata la scelta dei
grandi gruppi industrial-finanziari-bancari che controllano la grande
stampa d’informazione italiana, di trasformarsi essi stessi in soggetti
politici attivi e di utilizzare i propri giornali come armi con cui
combattere le proprie battaglie politiche.
Il fenomeno che si è determinato è stato la generalizzazione e la
moltiplicazione dei “giornali-partito”, che però non sono come quelli
tradizionali l’espressione di filoni di pensiero radicati nella società
italiana ma solo gli strumenti di difesa degli interessi dei gruppi
industriali, finanziari e bancari che controllano i pacchetti azionari
dei giornali stessi. L’esempio più eclatante è quello del Corriere della
Sera, quello più significativo è invece l’esempio del Sole 24 ore, il
giornale della Confindustria diventato organo di battaglia del gruppo
egemone dell’associazione degli industriali italiani. E la casistica può
continuare toccando tutti gli altri quotidiani i cui editori di
riferimento hanno interessi diversi rispetto a quelli semplicemente
editoriali.
Il potere economico, finanziario e bancario ha di fatto ribaltato il
rapporto con la politica. E quando la politica ha tentato di resistere o
ha cercato di ritagliarsi uno spazio vitale all’interno del potere
economico, finanziario e bancario, ha dovuto vedersela con una reazione
durissima fatta di micidiali colpi mediatici e giudiziari. Il caso
Unipol e quello della scalata alla rcs sono fin troppo indicativi delle
modificazioni in atto e di quanto potrà avvenire nel corso della
prossima legislatura. A partire dalla stessa rai che, dopo essere stata
lo specchio del trionfo della politica su ogni altro potere, potrebbe
diventare lo specchio della vittoria dell’economia, della finanza e
delle banche sulla politica e sulle istituzioni.
Non va dimenticato, a questo proposito, che il tema della
privatizzazione del servizio pubblico è destinato a diventare il nuovo
terreno di scontro tra politica ed economia, tra partiti e “poteri
forti”. E che la battaglia per l’ingresso nella rai di questi “poteri
forti” (o, se vogliamo, lo smembramento della rai a vantaggio di
componenti del patto di sindacato rcs, di Carlo De Benedetti, di Franco
Caltagirone e via di seguito) rischia di diventare più accesa e più
dirompente di quella sulla bnl o sulla scalata fallita al Corriere della
Sera. Chissà, allora, da quale nome si dovrà partire tra qualche anno
per la nuova mappatura del mondo dell’informazione italiano. Da Badaloni
o da Paolo Mieli?
16 marzo 2006
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