Sinistra e burocrazia
di Alessandro Bezzi
da Ideazione di marzo-aprile 2006
“Reinventare l’Italia”: lo slogan elettorale – di sapore clintoniano –
della Margherita (che pure si vanta di essere il polo moderato
dell’Unione) appare evocativo ed accattivante. Il sogno di una grande
stagione riformatrice nella quale vengano affrontati gli storici nodi
del nostro paese, quelli che ne hanno ritardato i processi di sviluppo
al punto che oggi l’Italia appare in ritardo in tutte le graduatorie
internazionali di misurazione della libertà economica e della
competitività.
In realtà, si tratta di un’impostazione vecchia e pericolosa. L’idea
sottesa è che per avviare un processo virtuoso nella gestione della cosa
pubblica, occorra ripartire da zero. Del resto, il sogno di ogni
dittatore – di destra come di sinistra – è sempre stato quello della
tabula rasa: far ripartire il calendario e bruciare le biblioteche.
Ovviamente, non siamo in presenza di una riedizione dei miti
palingenetici propria della rivoluzione culturale maoista o alle
aberrazioni sanguinarie di Pol Pot: il ceto politico del centrosinistra
oggi è certamente abbastanza imborghesito da tranquillizzarci circa
eventuali cadute di natura estremista. Ciononostante, il segnale
derivante da quello slogan non va sottovalutato: nella cultura politica
della sinistra rimane, ineliminabile, un fondo di costruttivismo e di
ingegneria sociale, che neanche la frequentazione dei salotti buoni è
riuscito a far dimenticare.
In realtà, in un’ottica politica liberale non occorre reinventare
alcunché, è necessario semmai rimboccarsi le maniche per fronteggiare
processi sociali complessi, introducendo nel sistema elementi positivi
in grado di innescare una spirale virtuosa. La politica è cioè l’arte
del possibile, nella quale, più che grandi progetti da realizzare, conta
avere a disposizione una bussola in grado di orientarci con sicurezza
nell’incessante attività di scelta e di ponderazione degli interessi. E
va da sé che la bussola sarà tanto più efficace quanto più chiari e
lineari saranno i principi sottostanti.
Il mito inutile della riforma
Applicato alla organizzazione burocratica, lo slogan ulivista diventa
“Reinventare la Pubblica Amministrazione”, che altro non è se non la
riedizione di quel riformismo amministrativo permanente che già ha
contraddistinto i governi di centrosinistra. I risultati raggiunti, in
realtà, sono stati scarsi e soprattutto sproporzionati rispetto agli
sforzi profusi ed alla retorica sviluppata: secondo un paradigma
classico della scienza dell’amministrazione, i processi di riforma della
burocrazia producono rilevanti effetti positivi essenzialmente
sull’immagine politica di chi li sponsorizza. Il problema, infatti, in
materia di pubblica amministrazione, non è certo quello di implementare
grandi strategie di riforma, le quali rischiano di risultare sterili
quando non controproducenti, ma quello di svolgere un’opera paziente e
tenace di manutenzione della macchina burocratica, introducendo i
correttivi necessari per migliorarne il rendimento.
Tale opera richiede naturalmente un chiaro quadro dei principi di
riferimento: ed è proprio su questi che la sinistra sconta tutto il
proprio ritardo. Andando un po’ a grattare sotto la vernice del grande
riformismo amministrativo à la Bassanini, si scopre infatti che del
tutto immutata è la filosofia di fondo: la pubblica amministrazione come
potente strumento di pianificazione, programmazione e controllo dei
processi sociali. La pubblica amministrazione diventa centrale perché
profonda è la sfiducia verso i processi di mercato. Il formalismo,
l’eccessivo carico burocratico, la lentezza dei procedimenti non sono
infatti il frutto del genio maligno della Storia, il mero risultato di
un’organizzazione scadente dal punto di vista tecnico, ma derivano anche
(e direi soprattutto) da una concezione sospettosa verso l’autonomia
della società civile e del mercato. Basti pensare alle reazioni
scomposte di alcuni esponenti della sinistra di fronte all’introduzione
da parte del governo e del parlamento della regola del silenzio-assenso
nei procedimenti amministrativi, finalizzata essenzialmente a garantire
tempi certi al cittadino e all’impresa di fronte ad un apparato
burocratico lento e macchinoso. Le obiezioni in quell’occasione furono
tutte rivolte a sottolineare la necessità di garantire piena effettività
ai poteri pubblici nella tutela degli interessi collettivi: il fatto che
in tal modo sarebbero stati sacrificati, in modo del tutto
sproporzionato ed irragionevole, i legittimi interessi dei singoli che
entrano in contatto con la burocrazia apparve del tutto irrilevante.
In materia di organizzazione amministrativa si confrontano, infatti,
essenzialmente due concezioni: la burocrazia come strumento di garanzia
degli interessi pubblici, di fronte ai quali devono inevitabilmente
soccombere i diritti e gli interessi dei privati, la burocrazia come
fattore strategico per la competitività di un paese. La burocrazia, in
questa seconda prospettiva, gioca un ruolo decisivo poiché contribuisce
a definire i confini e le regole all’interno delle quali si svolgono i
processi spontanei del mercato e della società civile. Quanto più la
burocrazia saprà infondere al sistema certezza e prevedibilità (nei
tempi e nei contenuti), quanto più favorirà la diffusione di un assetto
degli interessi di carattere positivo (orientati al profitto e non alla
rendita), tanto più risulterà un fattore decisivo per il sistema, un
vero e proprio volano per lo sviluppo. Il centrosinistra, così come è
assortito, appare culturalmente inadeguato a guidare la pubblica
amministrazione in tali processi.
La relazione pericolosa con i sindacati
Se questa è la “parte nobile” della concezione della pubblica
amministrazione propria della sinistra, la situazione si presenta in
modo anche più preoccupante se dai piani alti scendiamo negli
scantinati. Ciò che da sempre ha ostacolato i processi di riforma della
burocrazia nel nostro paese è sicuramente il ruolo esorbitante che in
questo settore giocano i sindacati del pubblico impiego: non semplici
rappresentanti degli interessi dei dipendenti ma soggetti forti di
governo del sistema. Tale situazione ha inevitabilmente comportato che
tutti i tentativi di modernizzazione della pubblica amministrazione
succedutisi negli anni sono stati costruiti non in funzione delle
esigenze degli utenti dei servizi amministrativi, ma essenzialmente
avendo di mira la tutela degli interessi dei dipendenti. La forza dei
sindacati del pubblico impiego è cosa nota, ma non v’è dubbio che un
governo di sinistra ha capacità di resistenza assai ridotte.
L’incestuoso legame fra partiti della sinistra e organizzazioni
sindacali ha finito per conferire ai sindacati un ruolo improprio che
spesso si traduce in un vero e proprio potere di veto nei confronti
delle scelte della politica.
Tale situazione si è sviluppata anche grazie alla scelta, operata nel
1993 dal governo Amato, di privatizzare il rapporto di pubblico impiego:
in tal modo si è finito per indebolire ulteriormente il datore di lavoro
pubblico, costringendolo a ricercare una mediazione (talvolta
impossibile) con i sindacati su tutte le questioni attinenti la gestione
del personale pubblico. In questo senso, il problema centrale non è
neanche quello degli aumenti retributivi, anche se appare difficile
immaginare un governo di sinistra in grado di resistere in modo efficace
a rivendicazioni salariali spropositate, quali quelle che da alcuni anni
caratterizzano il pubblico impiego. La crisi nella quale versa il
modello di relazioni industriali delineato dall’accordo di luglio 1993
certamente non aiuta. Il problema più spinoso è però un altro: la
completa sindacalizzazione del pubblico impiego non si è infatti
limitata ai profili retributivi ma ha investito in pieno anche la
disciplina del rapporto. Con il risultato che oggi risulta assai arduo
introdurre elementi di modernizzazione e di efficienza dell’ordinamento
del pubblico impiego, poiché occorre in ogni caso raggiungere l’accordo
con i sindacati: mobilità, flessibilità, efficienza, meritocrazia sono
tutti obiettivi il cui perseguimento è demandato per lo più alla fonte
contrattuale.
Una situazione di anomalia negoziale, con un soggetto – il datore di
lavoro pubblico – in posizione di particolare debolezza, che trova
evidente conferma nel processo di capture che ha subito l’aran negli
ultimi anni. L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni era stata istituita proprio nella speranza di conferire
maggiore forza negoziale alla parte pubblica, grazie ad una struttura
dedicata dotata di competenze tecniche specialistiche. Nel corso della
scorsa legislatura, le scelte compiute dal governo hanno in via di fatto
trasformato l’aran nel dominio riservato dei sindacati è ciò non ha
certo giovato alla qualità dei contratti del pubblico impiego.
Dirigenza pubblica: territorio di conquista
Assai cupo si presenta anche lo scenario di un governo di sinistra con
riferimento al tema delicatissimo della dirigenza pubblica. In questo
caso, la tradizionale impostazione culturale della sinistra in termini
di primato della politica e di egemonia del partito si traduce in un
atteggiamento esplicito di conquista. Anche se qualcuno ha cercato di
imputare al ministro Frattini un disinvolto disegno di spoil system, la
verità è che fu il governo di centrosinistra ad attuare uno spietato
rimescolamento degli incarichi dirigenziali. Infatti, nel 1999 l’allora
ministro della Funzione pubblica azzerò con un colpo di bacchetta magica
regolamentare tutti gli incarichi dirigenziali delle amministrazioni
centrali dello Stato (circa 4500 dirigenti) e provvide a conferire
nuovamente i suddetti incarichi per un periodo fino a sette anni.
L’obiettivo evidente era quello di garantirsi dirigenti fidati per tutta
la legislatura successiva, nella quale – con ogni probabilità – il
centrosinistra sarebbe finito all’opposizione. La situazione fu anche
aggravata dalla sistematica azione di rinnovo degli incarichi di vertice
di enti, agenzie e società controllate dallo Stato che aveva l’obiettivo
evidente di insediare una nomenklatura di partito in posizione di
responsabilità pubblica.
Si trattò evidentemente di uno strappo grave alla delicata trama che
disciplina la dirigenza pubblica. Il ministro Frattini si limitò a
ridurre il danno subìto prevedendo – con legge – un rimescolamento dei
soli incarichi dirigenziali di prima fascia (440 dirigenti) al termine
del quale solo 29 dirigenti si trovarono con un mero incarico di studio.
Al termine della legislatura in corso la dirigenza pubblica sembra
finalmente aver trovato un assetto stabile dopo un decennio di
tribolazioni. Il rischio che inevitabilmente correrebbe il sistema con
un governo di centrosinistra è trovarsi di nuovo di fronte ad un atto di
prepotenza che finirebbe per umiliare i dirigenti, minando alla base il
funzionamento della macchina amministrativa.
I pericoli di una coalizione disomogenea
Le vicende della burocrazia spesso registrano un andamento speculare a
quelle della politica, essendo condizionate in modo decisivo dalla
concezione culturale delle maggioranze parlamentari. L’eventuale ritorno
di una maggioranza di centrosinistra che chiaramente paga, in nome del
minimo comune denominatore anti-berlusconiano, il prezzo di una
disomogeneità nella impostazione culturale e nella concezione della
propria mission nell’azione di governo, comporterebbe inevitabili
pesanti conseguenze.
E’ in gioco il ruolo che la pubblica amministrazione potrà svolgere
nella prossima legislatura in termini di efficacia ed effettività
dell’azione di governo. Vi è il rischio che venga sminuito quel processo
che propone la pubblica amministrazione quale elemento promotore dello
sviluppo del paese. La mancanza di una comune visione sulle opportunità
e sulle capacità dell’apparato statale di attrezzarsi in tal senso
favorisce, grazie anche a un certo collateralismo con il mondo
sindacale, una propensione all’immobilismo, ancorché verniciata da un
modernismo sterile quanto superficiale.
I provvedimenti adottati nella presente legislatura hanno – anche se non
in maniera compiuta – favorito, non senza difficoltà, un opportuno
dinamismo amministrativo cercando di superare la diffusa apatia che per
anni ha contraddistinto la pubblica amministrazione dandole una veste
rinnovata e adatta alle sfide tipiche di una società globalizzata dove
il mercato gioca il ruolo primario, rispettando il fondamentale
principio dell’imparzialità nel processo dialettico tra amministrazione
e politica. Interrompere questo processo, per i motivi che ci sono noti
– tra i quali emerge nella sua imponenza la disomogeneità del
centrosinistra – insieme al rischio di una “relazione pericolosa” tra
politica e sindacati significa ridurre la pubblica amministrazione a
zavorra del paese. Reinventare la pubblica amministrazione non solo è
affermazione irragionevole, ma inadeguata per chi la pronuncia. Semmai
da reinventare, se fosse possibile, sarebbe la sinistra.
28 marzo 2006
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