Sinistra e cultura
di Giovanni Orsina
da Ideazione di marzo-aprile 2006
Che in Italia fra quanti svolgono professioni intellettuali il voto a
sinistra sia molto più diffuso del voto a destra, ovvero che gli
equilibri politici in quel settore della popolazione siano ben diversi
da come sono nel resto del paese, pare difficilmente contestabile. E
quando parlo di “professioni intellettuali” intendo riferirmi a un
settore piuttosto ampio della classe dirigente: professori universitari
e docenti delle scuole, giornalisti e magistrati, funzionari delle
amministrazioni pubbliche, scrittori e teatranti, attori, registi e
sceneggiatori. D’altra parte, se così è, non è certo a causa di un
destino cinico e baro, né di una qualche cospirazione maligna e segreta.
Ma dipende da ragioni storiche ben precise, alcune assai generali, altre
invece più specificamente nazionali.
Sul livello più alto di astrazione troviamo la repulsione “naturale” che
gli intellettuali provano per il regime capitalistico – col suo
disordine, la sua amoralità, la sua insofferenza per la pianificazione
razionale, la sua tendenza a retribuire tycoon televisivi, scalatori di
banche, yuppies di Piazza Affari, letterine e centravanti
incommensurabilmente meglio di quanto non remuneri raffinati esegeti di
Parmenide o dottissimi conoscitori della Sicilia normanna. Su questo ha
scritto pagine acutissime – e per quel che consta mai smentite – Joseph
Schumpeter già nel lontano 1942, e non pare che vi sia altro da
aggiungere. Scendendo un gradino più in basso troviamo il clima
culturale degli anni Sessanta e Settanta, nel quale si è formata la
maggioranza di quanti oggi svolgono professioni intellettuali, e che in
tutto l’Occidente ha certamente avuto un colore progressista. Seppure di
progressismi assai differenti: tecnocratici e programmatori in alcuni
casi, figli del trionfo di una cultura neoilluministica convinta del
potere della ragione; iconoclasti ed eversivi in altri, figli della
degenerazione d’una cultura neoilluministica che nel nome della ragione
ha messo sotto accusa i propri stessi presupposti razionalistici.
Scendendo al di qua delle Alpi arriviamo poi a una Repubblica italiana
che fin dalla sua nascita trova delle élite intellettuali
tendenzialmente antimoderate. E un robusto partito comunista quanto mai
convinto della necessità di trarre il massimo vantaggio da
quell’antimoderatismo tendenziale. Una repubblica nella quale la formula
centrista, che è invece moderata lo è, e anticomunista per giunta, pur
prevalendo ampiamente negli anni 1948-53 e di misura fino al 1962 sul
terreno politico, rimane tuttavia assai debole su quello culturale. E
nella quale infine alla svolta degli anni Sessanta le forze moderate di
governo – maggioranza Dc, repubblicani e socialdemocratici –
nell’intento di legittimare l’apertura a sinistra favoriscono o quanto
meno non ostacolano il rilancio dell’antifascismo. Ovvero di
un’ideologia radicale fondata sul rifiuto sostanziale della precedente
storia d’Italia, e sul rilancio di certe aspirazioni resistenziali alla
trasformazione profonda dell’assetto economico, politico e sociale del
paese.
Una cultura egemone intrinsecamente debole
Per ragioni “strutturali” e occidentali così come per motivi contingenti
e nazionali, dunque, a partire dagli anni Sessanta, pure in presenza di
una politica tanto prudente da apparire spesso immobile,
l’intellettualità italiana si sposta quasi per intero su posizioni
progressiste. Tanto che, come accennato in precedenza, la dialettica
culturale finisce per concludersi quasi per intero all’interno del campo
progressista – ossia per svolgersi fra progressisti moderati e
progressisti radicali. Tanto che dobbiamo guardare a sinistra, a
sinistre eterodosse quali la radicale di Pannella e la socialista di
Craxi, per trovare chi sfidi il blocco partitocratico fondato
sull’antifascismo. Tanto che negli anni Sessanta la richiesta d’una
commissione che valuti e in qualche modo epuri i manuali scolastici di
storia contemporanea proviene dall’ambiente degli istituti per la storia
della Resistenza – là dove al principio del nuovo secolo la dobbiamo al
partito postfascista.
Il fatto che sia riuscita a diventare egemone non toglie d’altra parte
che questa cultura progressista fosse, e sia rimasta, per più d’una
ragione assai debole. Debole in primo luogo perché profondamente divisa
al proprio interno: divisa dalla guerra fredda, generatrice d’una
frattura profonda che l’antifascismo non era certo in grado di sanare,
pure se riusciva quanto meno a far parlare le due “sponde”; e dopo il
1968 divisa dalle accelerazioni radicali e movimentiste della sua ala
sinistra: accelerazioni largamente sterili, e davanti alle quali però il
progressismo si trovava in larga misura disarmato, perché almeno in
parte le riconosceva come creatura propria. Debole, poi, perché
scarsamente in contatto con un paese che rimaneva nella sua stragrande
maggioranza moderato. Debole perché fondata assai spesso –
nell’interpretazione storica del fascismo e delle origini della
repubblica, ad esempio – su presupposti deformati, ossia su forzature,
esagerazioni e reticenze necessarie proprio a coprirne le divisioni
interne e il carattere elitario. Debole, infine, perché dovendosi
proteggere dietro una cospicua batteria di tabù ha perduto assai presto
il contatto con i mutamenti storici, trasformandosi in un ostacolo serio
alla modernizzazione della Penisola.
Questa intellettualità progressista già strutturalmente fragile, la
crisi della prima repubblica e l’emergere del fenomeno Berlusconi
l’hanno posta davanti a sfide mortali. L’antifascismo non poteva che
essere seriamente messo in questione dal crollo del sistema
partitocratico e consociativo che su di esso si fondava. Anche se la
storiografia mainstream è stata ben attenta a non trarre tutte le
conseguenze da certe considerazioni sulla recente storia d’Italia che
pure, spinta dall’urgenza degli eventi, non poteva fare a meno di
elaborare, non vi è tuttavia dubbio che Tangentopoli abbia portato
naturalmente il paese a chiedersi se non vi fossero nell’ordine politico
repubblicano delle tare originarie.
La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi ha introdotto poi, se
possibile, una frattura ancora più profonda col received wisdom
progressista: da un punto di vista personale, essendo un personaggio
radicalmente estraneo ai “buoni salotti intellettuali e politici”; da un
punto di vista ideologico per il suo populismo antipartitocratico, e
soprattutto per l’anticomunismo, strutturalmente incompatibile con le
interpretazioni progressiste della Resistenza e della Costituzione; da
un punto di vista politico, avendo dato vita ad uno schieramento che non
era più, com’era la dc, «di centro però rivolto a sinistra», ma che si
collocava esplicitamente, talvolta orgogliosamente, sul versante di
centrodestra – tanto da “sdoganare” il msi, il capro espiatorio su cui
si fondava l’intero ordine politico repubblicano.
A queste sfide, tuttavia, l’intellettualità progressista non ha reagito
rinnovandosi – se non in misura marginale e con notevole ritardo –
abbandonando quelli fra i suoi tabù che si stavano rivelando meno
difendibili e mettendosi in condizione di affrontare i tempi nuovi. Non
ha risposto insomma, per dirla con una battuta, “alla Blair” –
indubbiamente anche perché Berlusconi tutto è stato tranne che Margaret
Thatcher, e l’Italia assomiglia alla Gran Bretagna soltanto perché ha
tanto mare intorno, ma è il mare politicamente “sbagliato”. Al
contrario, di fronte alle sfide dei primi anni Novanta l’intellettualità
progressista ha fatto leva su Berlusconi per consolidarsi e raccogliersi
a difesa del proprio patrimonio ideologico. Ovvero, piuttosto che fare
dell’avversario nuovo uno stimolo per rinnovarsi, ha preferito
interpretarlo come se fosse una mera riedizione dell’avversario vecchio,
e riproporre con variazioni minime le battaglie già combattute e vinte
nel passato. Ovvero ancora, ha aggiornato l’antifascismo in
antiberlusconismo.
La mutazione è avvenuta già nel 1994, dopo un instante di perplessità
coincidente più o meno con le elezioni municipali romane del 1993, alle
quali com’è noto si candidò Fini. Questione morale, affarismo, conflitto
di interessi, interessi privati in atti pubblici, e soprattutto lesione
videocratica del circuito rappresentativo: questi sono stati gli
strumenti attraverso i quali l’antifascismo (non facile da rivolgere
nella sua forma “pura” contro un personaggio con la storia di
Berlusconi) è stato “modernizzato”. Modernizzato, però, nella permanenza
dei suoi caratteri di fondo: il manicheismo, il moralismo, la
definizione e manutenzione dei confini della legittimità, la divisione
dell’arena politica in una sinistra e una destra coincidenti
rispettivamente con il democratico e l’eticamente commendevole,
l’antidemocratico e l’eticamente deteriore. E soprattutto, una sempre
più evidente incapacità di fornire risposte efficaci e aggiornate alle
esigenze poste dal nuovo secolo.
Il rischio di una deriva conformista
Riassumendo il ragionamento fin qui svolto, mi pare che oggi i rapporti
fra cultura e politica in Italia possano essere descritti come segue.
Mentre il paese è diviso esattamente a metà, il ceto intellettuale è
ancora in grande maggioranza schierato a sinistra. Dodici anni di
berlusconismo e cinque anni di governo hanno riequilibrato ben poco la
situazione, e soprattutto hanno posto assai meno di quanto non si
sarebbe potuto le basi perché il riequilibrio avvenga nel prossimo
futuro. Permane dunque uno scollamento alquanto visibile fra
intellettuali e popolo – squilibrio che i risultati dei referendum sulla
procreazione artificiale hanno reso pienamente evidente. Della sfida
berlusconiana la cultura progressista ha approfittato troppo poco per
rinnovarsi (ancor meno di quanto non abbia fatto lo schieramento
politico di centrosinistra), preferendo al contrario trasformare il
Cavaliere in un nemico assoluto e usarlo come scusa per arroccarsi a
difesa del proprio obsoleto patrimonio ideologico.
Questa essendo la situazione, che cosa possiamo aspettarci
dall'intellettualità progressista nell’eventualità che il centrosinistra
prevalga alle prossime elezioni? Per quanto il quadro politico italiano
sia troppo fluido perché si azzardino previsioni, mi pare che almeno
alcune considerazioni, magari in forma ipotetica, sia possibile
avanzarle. Sul terreno della concreta gestione del potere, non vi è
dubbio che un futuro governo di centrosinistra sarebbe accolto
dall’ampio ceto intellettuale italiano in maniera assai più benevola di
quanto non sia accaduto ai gabinetti Berlusconi. I giornali lo
tratterebbero certamente meglio; i rapporti con la magistratura
sarebbero incomparabilmente meno conflittuali; il mondo dell’istruzione
si mostrerebbe ben più malleabile. Detto altrimenti: nel campo della
cultura verrebbero a mancare molti dei contropoteri coi quali il governo
di centrodestra s’è invece dovuto confrontare.
Appoggiato dalle istituzioni, poi, si rafforzerebbe ancora di più il
“politicamente corretto” della repubblica. Per la verità, non è che il
centrodestra questo “politicamente corretto” lo abbia mai davvero
affrontato come si deve: o ci si è inchinato anch’esso, oppure lo ha
attaccato in forma grezza e populista. Tuttavia è pur sempre meglio
gettare nello stagno un sasso grezzo e populista che niente; ed è anche
vero, inoltre, che qualche spazio nella cultura politica italiana i
cinque anni di governo Berlusconi lo hanno aperto, soprattutto sul
terreno dei rapporti transatlantici e della difesa dell’Occidente. La
nuova saldatura fra l’intellettualità progressista e il potere, insomma,
creerebbe senz’altro un clima di maggiore conformismo culturale.
Che cosa ne sarebbe sul medio periodo, di questa saldatura fra
intellettualità e potere, è d’altra parte tutto da vedere. La cultura
progressista, come chiunque ha potuto constatare in questo inizio di
campagna elettorale, rimane profondamente divisa fra un filone
tecnocratico e moderato e uno radicale e movimentista. Non solo: la
frattura si è fatta più profonda in un decennio berlusconiano che del
tutto invano non è trascorso. Al di sotto della difesa politicamente
corretta dei tabù progressisti, il mero passare del tempo, le dinamiche
intrinseche al progredire di alcuni saperi specialistici (storiografico,
economico, giuspubblicistico), e certamente anche l’opera di rottura
svolta dal centrodestra qualche effetto l’hanno avuto. Benché, come ho
già accennato, gli studiosi dell’Italia novecentesca evitino spesso di
tirare le conseguenze ultime dei loro ragionamenti, non c’è tuttavia
dubbio che sul fascismo, la Resistenza, la fondazione della Repubblica,
il sistema dei partiti e la guerra fredda siano ormai largamente
condivise interpretazioni che negli anni Settanta sarebbero parse ai più
inaccettabili.
Sul terreno costituzionale il programma dell’Unione per le elezioni
politiche del 2006 si schiera con forza sul versante della tutela e
della conservazione della Carta del 1948. L’Unione tuttavia, e la
cultura ad esso sottesa, sono in larga maggioranza favorevoli al
bipolarismo, a un sistema elettorale che abbia quanto meno una
componente maggioritaria, a una qualche forma di designazione diretta e
di rafforzamento istituzionale del premier. Se poi a questo aggiungiamo
che la devolution l’ha fatta proprio il centrosinistra, possiamo
legittimamente chiederci, credo, che cosa ne sia infine rimasto dei tabù
costituzionali della cultura progressista. Che l’economia italiana abbia
urgente bisogno di essere rilanciata, infine, e che il rilancio debba
passare per l’ampliamento, non certo la riduzione, degli spazi del
mercato, è un dato ormai acquisito da larga parte dell’intellettualità
italiana, seppure certamente non da tutta.
Oltre l’anti-berlusconismo
Se da un lato la cultura progressista moderata, magari senza darlo
troppo a vedere, ha cominciato a reagire alla crisi dei propri
presupposti, soprattutto economici, accettando la sfida della modernità,
dall’altro non è impossibile che il baricentro d’un eventuale futuro
gabinetto di centrosinistra finisca invece per gravitare maggiormente
verso la cultura progressista radicale. Sul terreno economico, infatti,
sarebbe per varie ragioni assai difficile a quel governo scavalcare
l’opposizione politica e sociale, robusta e trasversale, che frena o
impedisce le riforme necessarie e dolorose. La relativa indisponibilità
del riformismo economico costringerebbe dunque l’esecutivo a mostrare
maggiore dinamismo sul terreno della politica estera e, soprattutto, di
quella sociale – seguendo in sostanza, seppure non necessariamente nei
dettagli, l’esempio di Zapatero. In politica estera è lecito perciò
aspettarsi una svolta antiatlantista – in parte già annunciata, del
resto, nel programma elettorale – pure se dopo il fallimento del
trattato costituzionale e l’ascesa di Angela Merkel in Germania questa
svolta non troverebbe più in Europa l’appoggio che vi avrebbe trovato un
paio di anni fa. Mentre la politica sociale – dai pacs all’immigrazione
alla procreazione artificiale – potrebbe diventare per il governo il
luogo privilegiato nel quale fare “qualcosa di sinistra”. Del resto, le
politiche sociali stanno diventando sempre di più il terreno sul quale
si misurano le identità degli schieramenti politici – basti pensare alla
polarizzazione che si è verificata con gli scorsi referendum, o anche
alle leggi sulla legittima difesa e sulla droga approvate in extremis
dal governo Berlusconi.
Sul rapporto fra intellettualità progressista e potere, infine, influirà
non poco la situazione politica – e non soltanto quella italiana.
L’eventuale uscita di scena di Berlusconi metterebbe in serio pericolo
un’alleanza politica e intellettuale che oggi appare cementata
prevalentemente dall’antiberlusconismo. D’altra parte, un evento di
questo tipo rimescolerebbe a tal punto le carte da rendere possibile
qualunque esito. Ad esempio un ridimensionamento dello schieramento di
centrodestra talmente marcato che la dialettica politica e culturale
tornerebbe a svolgersi tutta all’interno del progressismo. Oppure,
magari, un sussulto di creatività da parte dell’intellettualità
progressista moderata, che avendo perduto per rinnovarsi l’occasione
rappresentata dalla discesa in campo di Berlusconi, potrebbe infine
approfittare della sua uscita dal campo per affrettare il processo di
depurazione dai più stantii tabù del politicamente corretto
repubblicano.
28 marzo 2006
|