Il percorso di un francese atipico
di Paolo Modugno
da Ideazione di gennaio-febbraio 2005
Jean-François Revel è un intellettuale dalla verve polemica e
anticonformista che, fin dai suoi esordi alla fine degli anni Cinquanta,
ha costantemente suscitato passioni. In occasione dell’uscita del suo
ultimo libro, L’Obsession anti-américaine, nell’inserto letterario di Le
Monde è descritto come «l’onore degli intellettuali» francesi. Mentre
Serge Halimi, in un articolo intitolato parafrasando il titolo del
libro, “une obsession philo-américaine”, lo apostrofa come «uno dei
saggisti francesi che si sono maggiormente sbagliati su tutto»
precisando che «alcune delle sue tecniche retoriche meritano di essere
qualificate come stalino-reganiane». Sono questo tipo di giudizi che
permettono a Ulderico Munzi di individuare in Jean-François Revel «una
sorta di perseguitato» verso il quale «la rabbia dell’intellighenzia
parigina schiuma sempre di più». Malgrado le costanti avversioni, il suo
brillante cursus honorum (durante il quale è stato nominato: Cavaliere
della Légion d’honneur, Ufficiale dell’ordine della Croce del Sud del
Brasile, Grande Ufficiale dell’ordine di Enrico il navigatore del
Portogallo) ha trovato l’apice nell’ingresso nel 1997 nel ristretto
circolo degli “immortali” che siedono all’Académie Française. Nel
discorso di accoglienza pronunciato alla cerimonia di ricevimento in
questa prestigiosa istituzione, il celebre letterato Marc Fumaroli per
descrivere la sua vita traccia una galleria di una decina di personaggi.
Nel breve spazio di questo articolo ci limiteremo a dare qualche spunto
permettendoci di rinviare le persone interessate ad approfondire i
differenti aspetti di questa folgorante personalità, alla lettura delle
memorie pubblicate, sempre nel 1997, con il titolo Le voleur dans la
maison vide.
Jean-François Ricard, noto con lo pseudonimo di Revel (vedi infra), è
nato nel 1924 a Marsiglia. Il padre di modeste origini perviene, grazie
alla sua «naturale intelligenza» e ad un «bel matrimonio», a far parte
della borghesia della città e la famiglia abiterà una bella dimora
provenzale, “La Pinède”. Dopo il liceo presso i gesuiti a l’Ecole libre
de Provence, entra nella prestigiosa Ecole Normale Supérieure della rue
d’Ulm a Parigi dove porta a compimento i suoi studi di filosofia.
Partecipa, in quegli anni, alla resistenza con lo pseudonimo di Ferral
un personaggio della Condition humaine di Andrée Malraux («un libro che
ho amato un tempo. Alcuni romanzi appassiscono»). Gli anni
dell’immediato dopoguerra son quelli di un giovane bohémien alla ricerca
della propria identità. In questo periodo Revel compie numerosi viaggi
ed incontra diverse personalità della vie parisienne tra cui André
Breton con il quale resterà profondamente legato fino alla morte del
poeta avvenuta nel 1966. Un unico denominatore comune alle sue
molteplici attività: «sfuggire a tutte le irreggimentazioni pedantesche,
che si tratti di preparare un concorso, o del tesseramento
dell’intelligenza nello stalinismo o nello stalino-sartrismo».
Dopo l’aggrégation di filosofia, e dopo un primo incarico di professore
in Algeria negli anni 1947-48, lascia la Francia per soggiornare
dapprima in Messico e poi in Italia. Il nostro autore ha ottenuto, in
effetti, nel 1950 un posto al Liceo francese e all’Institut français di
Città del Messico. Durante questo soggiorno stringe amicizia con alcune
personalità quali Mario Vargas Llosa o Octavio Paz e scrive nella
rivista Esprit, il suo primo articolo «uno studio al vitriolo sulla
società politica messicana». Nel 1952 si trasferisce poi a Firenze dove
insegnerà, fino al 1956, sempre all’Institut français ed alla Facoltà di
Lettere dell’Università. È in Italia che comincia la redazione dei suoi
primi manoscritti e che nasce la sua passione per la storia dell’arte.
All’Italia degli anni Cinquanta, il nostro autore consacrerà anche un
pamphlet piuttosto acido nel quale, malgrado un amore che traspare fin
dal titolo, Pour l’Italie, egli fustiga non solo la morale bigotta e
bacchettona o un sistema politico amministrativo i cui vizi sono ben
conosciuti, ma anche le diverse manifestazioni della sua creatività,
come la pittura, il cinema, la letteratura e la canzone. Secondo Marc
Fumaroli bisogna riconoscere come: «questa satira provocante, e vera
all’epoca, dell’Italia democristiana del dopo-guerra, appaia, oggi,
piuttosto invecchiata. Essa non faceva sufficientemente intravedere,
sotto la superfice, il reale stato di salute di un popolo di grande
esperienza e molto più accorto di quanto l’ammirazione convenzionale o
l’accondiscendenza dei francesi non dia a intendere».
Il rientro in patria segna l’inizio di una lunga carriera letteraria che
lo porterà, in pochi anni, a lasciare il mondo universitario per
consacrarsi prevalentemente alla scrittura. A partire dal 1963
Jean-François Revel potrà, in effetti, «vivre de sa plume» come
giornalista (prima a France Observateur, poi a l’Express di cui
diventerà il direttore dal 1978 al 1981 ed infine a Le Point) e,
soprattutto, come autore di saggi di grande successo. Pubblicato nel
1957 con lo pseudonimo di Revel, Pourquoi des philosophes? è il primo
della trentina di libri (trentuno per l’esattezza) che il nostro autore,
tradotto in più di quaranta lingue, ha pubblicato fino ad oggi. Non è
facile riassumere in poche righe una tale opera che spazia dalla
filosofia alla storia dell’arte, passando per la politica, l’economia,
la poesia e la gastronomia! Per darne un’idea utilizzeremo la risposta
data da Jean-François Revel nel 1997 a Olivier Todd in un’intervista
pubblicata dal mensile Lire (permettendoci di aggiungere le date alle
opere citate). Quando il suo amico e collega negli anni dell’Express gli
chiede quale sia, tra i suoi libri, quello da lui preferito, Revel
risponde: «quello che mi è più caro: Pourquoi des philosophes? (1957),
con il suo complemento, La cabale des dévots (1962). Con questo libro,
la spina dorsale della mia opera è costituita da Ni Marx ni Jésus
(1970), La tentation totalitaire (1976), Comment les démocraties
finissent (1983) e La connaissance inutile (1988). Per comprendere la
difficoltà del dopo-comunismo, raccomanderei altresì Le regain
démocratique (1992). In questo libro analizzo a lungo l’esperienza di
Gorbaciov. Parlo anche dei problemi del terzo mondo, dell’evoluzione
delle vecchie democrazie, minate dall’interno dalla corruzione e
dell’immemorabile problema: «In che cosa consiste una società
vivibile?».
Per concludere questa rapida presentazione di quest’importante autore,
occorre iscrivere la sua opera nella tradizione del liberalismo
francese. Una tradizione che ha i suoi maggiori interpreti in
Montesquieu, Toqueville e Benjamin Constant e che è stata rinnovata, in
epoca recente, da Raimond Aron ma che, a causa del peso costantemente
esercitato dallo Stato, resterà minoritaria in questo paese in quanto,
come scrive Jean-François Revel «esiste nella tradizione politica
francese, di destra come di sinistra, una tendenza ad accettare la
democrazia solo nella misura in cui essa schiacci l’individuo, a
cominciare dalla pressione esercitata dal fisco, il miglior modo per
ridurlo all’impotenza, ed anche nella misura in cui lo Stato può di
conseguenza sostituire le sue decisioni collettive a tutte quelle che
normalmente dovrebbero essere individuali».
In un sondaggio effettuato presso gli elettori della destra francese e
pubblicato di recente dal Figaro Magazine, alla domanda «come giudica
l’intervento dello Stato nella vita economica del paese» solo il 14 per
cento degli intervistati risponde “troppo”, mentre il 32 per cento
risponde “quanto basta” e ben il 48 per cento risponde “non abbastanza”.
Come si può facilmente dedurre da questi dati, l’exception française,
nell’ambito delle democrazie liberali occidentali, è destinata a durare
ancora qualche tempo.
05 maggio 2006
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