La lezione di Jean-François Revel
di Riccardo Paradisi
da Ideazione di gennaio-febbraio 2005
Di solito, quando si è molto giovani, i libri più che studiarli li si
usa. E forse è per questo che a un autore come Jean-Francois Revel, si
arriva quando si è già maturi, o almeno non si è più così acerbi da
credere che il mondo possa essere messo in forma da qualche ideologia.
Revel chiede a chi lo legge uno sguardo aperto come quello che lui porta
sulla realtà, che non sta ferma ma si muove secondo il farsi di un’opera
aperta. Di lui si è detto che è sempre stato un autore
straordinariamente perspicace, anche profetico: forse più semplicemente
è un pensatore che ha saputo osservare laddove altri hanno adoperato
schemi mentali.
Basta rileggersi oggi Né Cristo né Marx, un libro del 1970 (che ha avuto
un successo di pubblico eccezionale e la denigrazione di una critica
ideologica feroce), per avere una conferma di quanto i sensori
intellettuali di Revel abbiano sempre funzionato bene: «La grande
rivoluzione del Ventesimo secolo – scriveva Revel all’inizio degli anni
Settanta – sarà stata in fin dei conti non la rivoluzione socialista ma
la rivoluzione liberista». Nell’Europa di allora, nell’Italia delle
università, dei giornali e delle case editrici trasformate in reparti
d’assalto del gramscismo militante, la tesi di Revel poteva apparire
legittimamente una stravaganza, l’utopia regressiva di un liberale
francese proiettata in un futuro che non ci sarebbe mai stato. Il fatto
è che Revel per guardare dentro il futuro era andato in America, una
“società laboratorio” nel cui universo si forma, da almeno mezzo secolo,
il presente e l’avvenire del mondo. Una società aperta, in movimento e
dunque capace di un dinamismo sconosciuto all’Europa (eppure le classi
dirigenti europee continuano incredibilmente a mantenere un
atteggiamento di superiorità nei confronti degli Stati Uniti).
Invece, quella americana, dimostrava Revel, è una società affrancata,
già nella mentalità, dalla morsa del potere politico, una realtà fondata
sulla dinamica del libero mercato e dunque in grado di rinnovare
continuamente élite naturali fondate sul merito e l’utilità sociale. Una
qualità, questa, indipendente dalla conformazione del regime politico,
dalla collocazione repubblicana o democratica delle amministrazioni di
turno. Revel osserva che in America, a differenza che in Europa, le
ragioni della politica sono buone quando derivano dalla società: è la
politica a essere subordinata alla società, non viceversa. In questa
prospettiva la vera “rivoluzione” non era quella caraibica di Castro e
Che Guevara, verso la quale intere generazioni di europei hanno guardato
per un decennio, confondendo un mito regressivo con una rivoluzione, ma
quella che partiva dal cuore del capitalismo mondiale, da una società
cioè fondata sulle libertà economiche sociali e personali e sul diritto
individuale alla ricerca della propria felicità. Revel infatti ha colto,
con trent’anni di anticipo, il concetto dell’individualizzazione che
qualche sociologo crede di avere scoperto oggi.
Oggi che i fatti hanno dato ragione a Revel e hanno dato torto a chi
credeva che il futuro dell’Occidente potesse essere il socialismo e
addirittura le sue declinazioni più esotiche: da quella castrista a
quella maoista. Però la maestà dei fatti non ha sempre l’onore e il
riconoscimento che merita. Le ideologie non sono cose innocue: esse
danno pur sempre a chi teme di essere libero l’illusione di una fede,
regalano una visione del mondo a chi non si contenta di averla al
cinema. Per questo le ideologie continuano a venire riprodotte; oltre
per il fatto che le macchine mitologiche che continuano a propagandarle
hanno bisogno di essere alimentate. Da qui la pratica della
disinformazione, sistematica, scientifica, continuativa – che Revel
descrive bene ne La conoscenza inutile – di quelle élite intellettuali
che attraverso la comunicazione massmediatica continuano a irradiare una
critica senza appello nei confronti della società aperta, del libero
mercato, degli Stati Uniti che, come nota giustamente Revel, per il
fatto di incarnare tutti i tratti distintivi di una società aperta, sono
la nazione più criticata del mondo. Criticata coi metodi disonesti della
parzialità, dell’omissione di informazioni, della lettura fuorviante dei
fatti e delle notizie attraverso cui avviene la loro divulgazione.
Per questo, avverte Revel nell’Ossessione antiamericana, «oggi come ieri
e ieri come un tempo, un libro sugli Stati Uniti è in qualche modo
condannato a essere un libro consacrato alla disinformazione sugli Stati
Uniti. Compito temibile e interminabile, continuamente e invano
ricominciato, poiché questa disinformazione non risulta da errori che
sempre sono possibili, perdonabili e rettificabili, ma da un bisogno
psicologico profondo, insito nei disinformatori e in quelli che credono
loro». Ma come si diceva un attimo fa non è solo il bisogno psicologico
di avere una teoria completa di riferimento a mantenere in vita, seppure
a livello residuale, le ideologie in generale. Ne La grande parata.
Saggio sulla sopravvivenza dell’ideologia socialista, (Plon, Parigi
2000) Revel parlando della «sopravvivenza dell’utopia socialista» ha
spiegato che dopo l’implosione dell’Urss la sinistra ha cercato di
distrarre l’attenzione dai misfatti del socialismo realizzato per timore
di essere spazzata via dalla storia e per «rimanere nella commedia del
potere e dello spettacolo culturale, per continuare a guidare la sfilata
– la parata – del circo».
Tale operazione peraltro perfettamente riuscita visto che
incredibilmente sul banco degli imputati oggi sembra essere il
liberalismo e che la parola comunismo, anche nel senso comune, continua
a riscuotere simpatia: come un’idea nobile i cui orrori sono
disinvoltamente rubricati come incidenti di percorso. Con buona pace del
fatto che «la repressione concentrazionaria o carceraria, i processi
truccati, le epurazioni sanguinose, le carestie provocate» non sono
state un’eccezione nell’edificazione del socialismo, «ma accompagnano
tutti i regimi comunisti, senza eccezione, lungo tutto il loro
percorso».
In questo, per Revel, il comunismo è sullo stesso piano del nazismo:
sono ideologie accomunate «dal monopolio globale dell’iniziativa
economica, dell’iniziativa politica e dell’iniziativa culturale,
esercitato dal partito unico al potere».
Porre sullo stesso piano dunque l’orrore di queste esperienze con i
limiti e gli errori del liberalismo è semplicemente disonesto. Infatti
«martellare continuamente contro le “devastazioni del liberalismo” è un
modo surrettizio per insinuare: Vedete, il comunismo non era poi così
male, a parte qualche “deviazione contro natura”». Ecco il vecchio
vizio: «l’ignoranza volontaria dei fatti», la disinvoltura di vivere in
contraddizione coi propri principi, «il rifiuto di esaminare le cause
degli errori».
Questa capacità analitica di Revel, questa esigenza di scavo e di
profondità che lo rende un fenomenologo dei fatti sociali, lo ha reso
curioso anche nei confronti di un fenomeno che investe l’Occidente ormai
da qualche decennio: l’interesse attivo nei confronti di filosofie e
tecniche interiori che tradizionalmente sono appartenute all’area
orientale del mondo. Revel – non lo si ricorda quasi mai – ne ha
un’esperienza diretta: suo figlio, Matthieu Ricard, dopo aver compiuto
studi scientifici in biologia, non solo ha aderito al buddhismo ma, nel
1972, si è stabilito definitivamente in Asia, facendosi monaco, per
seguire l’insegnamento dei suoi maestri tibetani. Revel si è confrontato
con la scelta del figlio fino ad arrivare a stabilire con lui un
rapporto dialettico.
Ne è venuto fuori un libro originale e piacevole Il monaco e il
filosofo: il buddhismo oggi (Edizioni Tea) dove un padre (Jean-François
Revel, filosofo di formazione rigorosamente laica) e un figlio (Matthieu
Ricard, un intellettuale occidentale che ha scelto la via del buddhismo)
conversano ad Hatiban, in Nepal, nell’isolamento di un eremitaggio, su
scelte diverse. Il monaco e il filosofo è così la testimonianza del
tentativo di due menti diverse, ma ugualmente appassionate, di trovare
risposte a una serie di quesiti sulla vera natura del buddhismo e sulle
ragioni del suo dilagante “successo” in Occidente. «Non bisogna
aspettarsi – dice il monaco Matthieu – che in Occidente il buddhismo
venga praticato come in Oriente, ma sembra che esso disponga dei mezzi
necessari per contribuire alla pace interiore di ognuno. Non si tratta
di creare un “buddhismo occidentale”, ma di utilizzare le verità del
buddhismo per attualizzare il potenziale di perfezione che abbiamo in
noi». «Per me – dice il filosofo Jean-François – la situazione si
riassume così: l’Occidente ha trionfato nella scienza, ma non possiede
più né una saggezza né una morale plausibili. L’Oriente può recarci la
sua morale e le sue direttive di vita, ma esse sono prive di fondamenti
teorici. La saggezza non si fonda su nessuna certezza scientifica e la
certezza scientifica non porta a nessuna saggezza. Tuttavia, l’una e
l’altra esistono, per sempre indispensabili, per sempre divise, per
sempre complementari».
Lo sguardo aperto sul mondo. Il mondo come opera aperta. Ecco la lezione
di Revel.
05 maggio 2006
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