America, che ossessione
di Massimo Teodori
da Ideazione di gennaio-febbraio 2005
Da anni discutendo sull’atteggiamento di noi europei nei confronti degli
americani ci domandiamo: esiste davvero un antiamericanismo? Che cos’è e
quanto è diffuso? Quale rilevanza ha nella cultura e nella politica
europea? Quali ne sono le radici? Interrogativi importanti da quando gli
Stati Uniti sono divenuti l’unica superpotenza, anzi, come dicono in
maniera spregiativa i francesi, una iperpuissance per cui si trovano ad
intervenire direttamente sulla scena internazionale sia su richiesta di
organismi multinazionali, Onu, sia per decisioni proprie di tipo
unilateralista.
Dopo l’11 settembre con la frattura determinata dall’impatto
internazionale del terrorismo il solco tra sentimenti filoamericani ed
antiamericani nel mondo, e in particolare in Europa, è divenuto più
profondo. Vi ha concorso soprattutto la guerra in Iraq e, prima,
l’enunciazione della teoria del first strike, cioè della guerra
preventiva da parte di George W. Bush nell’autunno 2002.
Revel scrisse L’ossessione anti-americana prima dell’Iraq. Ma tutte le
sue argomentazioni sono valide e fondate ancor più dopo la campagna
d’Iraq. L’antiamericanismo ha ripreso vigore dopo che la grande
maggioranza dei paesi e dei popoli europei, per un breve periodo di
tempo all’indomani dell’11 settembre si dichiarava solidale con gli Usa.
Ma, mano a mano che l’amministrazione Usa reagiva all’attacco portato
per la prima volta su terra americana, e Bush decideva di usare la forza
militare contro il nemico non chiaramente localizzabile, in molti
settori intellettuali e popolari dell’Occidente, ai sentimenti solidali
subentrava una diffidenza verso l’America che diveniva spesso aspra
critica ed ostilità pregiudiziale. Lo dimostrano i molti sondaggi che
sono stati effettuati in Europa negli ultimi tre anni.
Il libro L’ossessione antiamericana affronta l’attualità con lucidità,
rigore ed abbondanza di riferimenti. Revel entra nel vivo di quel che
accade in continuazione e argomenta in una spietata e documentata
vivisezione tutti i pregiudizi, le false idee, le incompetenze e le
contraddizioni di cui si alimenta l’antiamericanismo francese
contemporaneo. L’invidia e il disprezzo per gli Stati Uniti sono in
Francia un sentimento antico e radicato e perciò i francesi, ancor più
degli italiani, possono vantare in materia una specie di primato in
Europa, dovuto probabilmente al fatto che fin dalle rivoluzioni
settecentesche si è avuta una sorta di concorrenza civile tra le due
nazioni che si è definitivamente sbilanciata a favore dell’America nel
secondo dopoguerra, cioè da quando la Francia è retrocessa nella scala
delle potenze e gli Stati Uniti hanno acquisito un ruolo unico ben noto.
Mentre in Italia l’antiamericanismo nasce nel Novecento nella cultura
cattolica tradizionalista e in quella della destra fascista e populista
a cui si aggiunge, durante la Guerra Fredda, la pressione ideologica del
comunismo sovietico con grande impatto sulla sinistra comunista, in
Francia la matrice principale è sempre stata e resta quella
nazionalista-sciovinista con manifestazioni a destra e a sinistra
dell’arco politico.
Per Revel gli antiamericani cercano di accreditare una corrispondenza
biunivoca tra America e liberalismo. Quella parte dei francesi che si
scaglia contro la società americana (che sarebbe governata dal denaro,
dominata dalla violenza e segnata irrimediabilmente dalle ineguaglianze
sociali) e contro la sua classe dirigente vuole in realtà colpire
l’economia libera, le istituzioni democratiche e lo Stato di diritto, un
trinomio che è alla base del successo statunitense: «La funzione
principale dell’antiamericanismo era, ed è ancora oggi, di annerire il
liberalismo nella sua incarnazione suprema. Travestire gli Stati Uniti
da società repressiva, ingiusta, razzista, quasi fascista non è stato
altro che un mezzo per dire: vedete quel che produce la messa in opera
del liberalismo!».
Il buon funzionamento democratico delle istituzioni americane, che hanno
resistito per secoli ad ogni rottura autoritaria, diversamente dai paesi
europei che hanno dato vita ai peggiori regimi criminali (nazismo e
comunismo), rappresenta la cattiva coscienza per i rivoluzionari
ideologici che hanno cercato di sovvertire le fondamenta liberali delle
società occidentali: «Quando descrivo negli Stati Uniti non soltanto un
sistema democratico classico che marcia piuttosto meglio che altrove, ma
una società in pieno sommovimento rivoluzionario che è capace di
rimettere in questione i suoi stessi valori tradizionali, disturbo il
sonno dogmatico e il comfort ideologico della maggior parte delle élite
universitarie, giornalistiche e letterarie nel mondo».
La verità messa in rilievo da Revel attraverso una accurata casistica di
esempi è che molte accuse verso gli Stati Uniti nascono da una
sostanziale mancanza di informazione sulla realtà americana che, a sua
volta, è il risultato dei filtri ideologici e culturali utilizzati da
coloro che orientano l’opinione pubblica. Questo è particolarmente vero
nella politica internazionale, dove si riscontra un atteggiamento
abbastanza singolare: se gli Stati Uniti non intervengono con la loro
potenza e capacità di risolvere i conflitti usando gli strumenti della
diplomazia e della forza militare in giro per il mondo, sono accusati di
disinteressarsi irresponsabilmente degli affari altrui, cioè di
rifugiarsi nell’isolazionismo che è stato fino alla seconda guerra
mondiale la linea portante della politica estera americana. Se, al
contrario, intervengono magari anche su richiesta degli interessati o su
mandato degli organismi internazionali, si grida subito all’imperialismo
ed alla violenza del “gendarme del mondo”.
Analogo è il caso della mondializzazione attualmente sotto accusa da
parte delle frange militari anti-occidentali all’interno ed all’esterno
delle liberaldemocrazie. Si imputa agli Stati Uniti e al suo capitalismo
globalizzato di provocare un processo che va ben al di là della portata
soggettiva di un paese, per quanto ricco e potente esso sia. In verità
dietro la lotta contro la circolazione delle persone e dei beni si
nasconde una lotta ben più antica e fondamentale contro il liberalismo
e, dunque, contro gli Stati Uniti che ne sono il principale
rappresentante ed il più potente veicolo planetario.
L’Europa e gli europei, per il fustigatore dell’“ossessione
antiamericana”, sono i veri responsabili delle stesse tracimazioni,
quando criticano la potenza americana che – non va dimenticato – nasce e
si afferma con gli interventi nella prima e seconda guerra mondiale in
soccorso degli agonizzanti Stati democratici europei assediati prima
dagli imperialismi tradizionali e poi dal nazifascismo, e più tardi con
lo scudo militare posto in essere durante la Guerra Fredda a difesa dal
comunismo sovietico. Gli europei nell’ultimo mezzo secolo non hanno mai
voluto assumersi responsabilità adeguate alla loro forza economica e
politica preferendo “il burro ai cannoni” e lasciando la gestione
dell’ordine e della sicurezza internazionali nelle mani degli Stati
Uniti.
L’unilateralismo antiamericano, se c’è e quando c’è, è dunque il
risultato delle non-scelte degli europei: «Questo unilateralismo è in
effetti la risultante meccanica del cedimento delle altre potenze,
cedimento spesso più intellettuale che materiale, vale a dire relativo
più ad errori di analisi che all’insufficienza dei mezzi economici,
politici e strategici. Nulla obbligava, ad esempio, gli europei a
lasciare andare gli Stati Uniti da soli in soccorso dei resistenti
afgani in lotta contro l’invasore sovietico durante gli anni Ottanta.
Non è certo per la mancanza di mezzi che l’Europa si è astenuta
dall’aiutare gli afgani. è per ossequioso rispetto all’Unione Sovietica
ed in seguito ad una analisi lamentosamente sbagliata, con l’illusione o
la scusa di «salvaguardare la distensione» che già allora era «bella e
morta».
Perché vi sia una effettiva politica di sicurezza internazionale che non
faccia affidamento esclusivamente sulla superpotenza americana,
occorrerebbe che gli altri paesi che hanno le capacità politiche,
economiche e tecnologiche decidano di associarsi per elaborare e
metterne in pratica progetti comuni riguardanti gli interessi della
comunità internazionale o almeno a quella parte che si identifica con il
mondo che pratica la democrazia, l’economia libera e i diritti
individuali. Solo con questo assetto anche oggi potrebbe essere
affrontata adeguatamente la lotta contro il terrorismo senza stare a
guardare inerti come nel bene o negli eccessi provocati dalla solitudine
unilaterale operano gli americani sospinti non tanto dai loro angusti
interessi nazionali (che pure vi sono) quanto dalla responsabilità
generale che lo status di superpotenza conferisce loro.
Quello di Revel è un grido di allarme rivolto agli europei. Consapevole
che l’antiamericanismo è nuovamente divenuto – come nel mondo bipolare
del dopoguerra – uno dei grandi spartiacque su cui si misurano le scelte
politiche dell’Europa, ammonisce innanzitutto i suoi connazionali
francesi ad uscire dai vecchi vizi della piccola grandeur
nazionalistica; e più in generale gli europei affinché non si facciano
trascinare nelle difficili prove del futuro da un atteggiamento omissivo
e distaccato invece di assumersi insieme agli Stati Uniti le
responsabilità del momento.
05 maggio 2006
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