Anatomia di una maggioranza
di Andrea Mancia
da Ideazione di maggio-giugno 2006
La Right Nation italiana esiste. Ed è, potenzialmente,
maggioranza strutturale in Italia. Dopo i tanti numeri immaginari che
hanno infettato questa campagna elettorale – sondaggi taroccati, exit
poll psichedelici, proiezioni che contraddicevano se stesse, conti e
riconti – è forse questo l’unico dato reale emerso dalle ultime elezioni
politiche. Inoltre, si tratta di un risultato ottenuto nelle peggiori
condizioni possibili per il centrodestra italiano: dopo un quinquennio
di durissima congiuntura economica internazionale, con l’establishment
finanziario, culturale e mediatico schierato come un sol’uomo contro il
Caimano, con le inchieste ad orologeria della magistratura, con una
buona parte della classe dirigente del centrodestra impegnata a remare
contro (o, nella migliore delle ipotesi, a non remare affatto) e pezzi
della coalizione saliti anzitempo sul carro del vincitore annunciato.
Eppure, in queste condizioni oggettivamente disperate, con i sondaggi
“perbene” (non quelli commissionati da Forza Italia, insomma) che
garantivano all’Unione un vantaggio abissale ed incolmabile, la Casa
delle Libertà è riuscita a superare il 50 per cento dei voti al Senato
ed a sfiorarlo alla Camera. Un miracolo tattico di Silvio Berlusconi? O
piuttosto la conferma che la Right Nation italiana è intrinsecamente
maggioranza in questo paese e, con qualche accorgimento tecnico minore,
sarebbe naturalmente destinata a governare per i prossimi decenni?
Probabilmente la verità, come spesso accade, si nasconde da qualche
parte tra queste due affermazioni estreme. È vero, infatti, che la
gestione delle ultime settimane della campagna elettorale da parte di
Silvio Berlusconi è stata – tatticamente – perfetta. Ma è anche vero che
ad una prima analisi dei dati e dei flussi elettorali si nota una tenuta
complessiva della coalizione di centrodestra che va ben al di là di
qualsiasi invenzione dell’ultimo minuto.
Prendiamo i numeri della Camera, che sono anche quelli più sfavorevoli
alla CdL. Rispetto alle Politiche 2001, Forza Italia ha perso circa 1
milione e 800mila voti (passando da quasi 11 milioni a poco più di 9
milioni di preferenze). Questa emorragia, peraltro molto contenuta
rispetto alle “previsioni” della vigilia e alle consultazioni
amministrative degli ultimi anni, è stata completamente assorbita dagli
alleati della coalizione. L’udc ne ha recuperati 1 milione e 385mila
(più che raddoppiando la propria cifra elettorale), Alleanza Nazionale è
cresciuta di quasi 250mila voti e la Lega Nord (che al Sud era alleata
con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo) ha raccolto
283mila voti in più rispetto al 2001. Insomma, la tanto celebrata
transumanza da destra verso sinistra, su cui gli analisti avevano speso
in anticipo tonnellate d’inchiostro, non c’è stata. Mentre si è
assistito a spostamenti, anche considerevoli ma tutto sommato
prevedibili, all’interno della coalizione. Nel suo complesso, il
centrodestra ha ottenuto quasi 19 milioni di voti: 385mila in più
rispetto alle elezioni precedenti. Ma dove si nascondeva questa enorme
massa di cittadini, che è sembrata sfuggire a lungo ad ogni tentativo di
inquadramento statistico?
La maggioranza che non si vede
Non esistono parole sufficienti per descrivere l’incredibile débâcle
degli istituti di ricerca che, durante la campagna elettorale, si sono
esercitati nella difficile (e ben pagata) arte della sondaggistica
politica. Volendo, con una buona dose di magnanimità, credere nella
buona fede di Swg, Ispo, Piepoli, Ipsos, Ekma e compagnia, il minimo che
si possa dire è che la continua, insistente e univoca pubblicazione di
sondaggi che registravano un distacco enorme a favore del centrosinistra
ha fatto perdere alla CdL almeno mezzo milione di voti. Colpa di quel
bandwagon effect che gli studiosi conoscono da prima che nascesse la
scienza della politica in senso stretto. Ancora più imbarazzanti degli
exit poll che già circolavano nella notte di domenica 9 aprile o delle
proiezioni che si autosmentivano nel giro di qualche minuto, poi, sono
stati gli astrusi tentativi dei sondaggisti di spiegare questo flop così
clamoroso.
In uno studio pubblicato da swg nei giorni successivi al voto, vengono
identificate tre cause principali della “sistematica sovrastima del
centrosinistra”: segmenti di popolazione poco raggiungibili; aumento
imprevisto dei voti validi; reticenza a rispondere alle domande dei
sondaggisti. Ma procediamo a ritroso.
La “reticenza a rispondere” sarebbe la “tendenza a non dichiarare
correttamente il proprio orientamento al voto”. Per swg si tratta di «un
fattore che ha determinato la sottostima di Forza Italia (a favore di
Alleanza Nazionale) e quella dell’udc [...] una condizione, più forte
nell’elettorato moderato, che determina la difficoltà a rivelare il
proprio orientamento perché difforme dal clima di opinione o meglio da
quella che si ritiene essere la tendenza elettorale prevalente o quella
maggiormente e socialmente accettata in un dato momento». La scoperta
dell’acqua calda, insomma, visto che la necessità di ponderare i dati
raccolti tra l’elettorato moderato è nota almeno dal 1992, anno in cui i
sondaggisti britannici si accorsero di aver sottostimato di almeno 8-9
punti percentuali il risultato dei Conservatori di John Mayor (il
cosiddetto Shy Tory Factor). E comunque non è una spiegazione
convincente per fare luce sull’errore di stima nei confronti del
centrodestra nel suo complesso (Forza Italia e udc sono state
sottostimate, ma an sovrastimata).
Il secondo punto, invece, quello relativo «all’incremento significativo
dei voti validamente espressi», spinge swg a ritenere che «la riduzione
delle schede bianche e nulle» abbia premiato maggiormente il
centrodestra «con un effetto analogo a quello descritto dai sondaggi
preelettorali che evidenziavano come ad un aumento del livello di
partecipazione (e quindi dei voti validi) si riducesse lo scarto tra le
due coalizioni». Peccato che l’unico istituto di ricerca che abbia osato
avanzare un’ipotesi del genere durante la campagna elettorale –
Euromedia Research di Alessandra Ghisleri – sia stato sbeffeggiato dai
colleghi con la terribile (e neanche troppo velata) accusa di “lavorare
per Berlusconi”. Come se avere L’espresso o i ds come committenti
contribuisse a rendere più solide le proprie rilevazioni statistiche.
Ma il non Daily ultra si raggiunge con la prima delle tre spiegazioni, e
cioè con «l’impossibilità di monitorare, o meglio di arrivare, ad alcuni
segmenti dell’opinione pubblica». swg si riferisce a «quelle aree
sociali, prevalentemente lontane dalla politica, marginali, anti
sistemiche [...] segmenti generalmente a basso livello di
scolarizzazione e informazione che più facilmente vengono attratti da
espressioni e/o messaggi di tipo evocativo-emozionale o a forte impatto,
quelli cioè che muovono comportamenti irrazionali, istintivi, impulsivi
o che incidono sulla formazione non ragionata di idee e orientamenti.
Tali segmenti sono stati toccati marginalmente dai sondaggi, pur
trovando nelle ultime settimane di campagna elettorale un forte stimolo
all’espressione di voto nella capacità comunicativa del Premier che ha
agito in tali aree inducendo una maggior spinta partecipativa o meglio
dichiarativa al voto». Sì, avete letto bene. I berlusconiani dispersi,
in estrema sintesi, sono ignoranti e disinformati (anti-sistema,
addirittura), si fanno ipnotizzare dai messaggi irrazionali ed impulsivi
sparati dal Caimano in televisione e, soprattutto, hanno idee e
orientamenti che si formano in modo “non ragionato”. Una sorta di
esercito di catatonici in letargo, insomma, che soltanto il Cavaliere
Nero è in grado di risvegliare con un click del telecomando.
La maggioranza che si vede
“Ignoranza” o “reticenza”, però, cambia poco. Perché queste
“radiografie” postume che tentano di analizzare l’humus socio-economico
che ha permesso la rimonta della CdL sono fondamentalmente in linea con
l’idea che settori consistenti dell’establishment mediatico e culturale
hanno maturato a proposito della forma e della sostanza della Right
Nation italiana (e non soltanto della parte di essa che sfugge
sistematicamente alle rilevazioni statistiche). Basta rileggere
l’articolo scritto da Giorgio Bocca per Repubblica il giorno dopo le
elezioni, per toccare con mano l’assoluta incapacità di comprendere i
confini e la struttura del blocco sociale che sceglie, ormai da tempo,
di affidare il proprio voto al centrodestra. Per Bocca si tratta, né più
né meno, di un’Italia «sempre più ricca e sempre più sovversiva», la
stessa che «negli anni Venti ha preferito il fascismo alla democrazia,
che in quelli Quaranta si è rifugiato sotto lo scudo democristiano»,
oscillando senza troppa convinzione tra un voto «ora fascista, ora
clericale, ora manageriale o finanziario».
Si tratta, naturalmente, di una caricatura che poco o nulla ha a che
fare con la realtà. Perché la realtà, quella fatta di numeri solidi e di
croci incise con forza sui simboli dei partiti, racconta una storia del
tutto diversa. Racconta di una coalizione forte su tutto il territorio
nazionale e che raccoglie uno spettro molto ampio di condizioni
socio-economiche e di sensibilità culturali e politiche. Una coalizione
che, alle Politiche del 2006, è tornata maggioranza in tutto il Nord e
nelle regioni più produttive e moderne del Mezzogiorno. Non si tratterà
forse, come ha scritto Renato Brunetta, di una coalizione che vince dove
viene prodotto l’85 per cento del Pil, ma non si può negare che – oltre
ad aver consolidato la sua netta maggioranza in Lombardia e Veneto (con
numeri che sfiorano le percentuali “bulgare” delle regioni rosse), il
centrodestra abbia riconquistato il Piemonte, il Lazio e la Puglia,
sfiorato il clamoroso successo al Senato in Campania e riaffermato la
propria supremazia quasi strutturale in Sicilia. Viste le premesse della
vigilia, ci troviamo di fronte ad un risultato oggettivamente
straordinario.
Da analizzare con attenzione, piuttosto, sarebbe la vera vulnerabilità
della CdL, quella relativa al voto dei giovani tra i 18 e i 24 anni, che
ha regalato – anche se per una manciata di voti – la maggioranza della
Camera al centrosinistra. Secondo le analisi dei flussi elettorali (che,
ricordiamocelo, sono comunque basate su exit poll ampiamente smentiti
dai risultati reali), degli oltre 3 milioni di giovani che si sono
recati per la prima volta alle urne nel 2006, il 42,1 per cento ha
scelto l’Unione mentre il 34,6 per cento ha scelto il centrodestra.
Mancano all’appello circa 700mila votanti (il 23,3 per cento) che si
sono astenuti. Viene spontaneo chiedersi quanti di questi 700mila voti
potenziali si sarebbero potuti recuperare se la CdL avesse evitato,
nella fase centrale ma anche in quella finale della legislatura uscente,
di prendere provvedimenti che sono stati quasi universalmente
riconosciuti come iniqui dalla fascia d’età di cui ci stiamo occupando.
Pensiamo soprattutto alla nuova legge sulla droga (che è stata, nella
migliore delle ipotesi, spiegata malissimo ai cittadini) oppure al
famigerato decreto Urbani che si è mosso inconsultamente verso la
criminalizzazione dello scambio di file su Internet. Quando si perde la
Camera per 24mila voti, non si può non rimanere perplessi sul modo in
cui è stato gestito il rapporto con questa cruciale fascia d’età.
Le ragioni di un’alleanza
Nelle condizioni ambientali migliori della sua storia politica, la
sinistra – ramazzando perfino negli angoli più oscuri degli schieramenti
politici – non è riuscita a raggiungere il 50 per cento dei voti né alla
Camera né al Senato. Ce ne sarebbe abbastanza per considerare il
risultato elettorale come una clamorosa sconfitta per una classe
dirigente eterogenea e rissosa che sembra riuscire a stare insieme
soltanto con l’obiettivo (per ora fallito) di porre fine all’era
berlusconiana. Dall’altra parte, invece, ci troviamo di fronte ad una
coalizione piuttosto omogenea, che sembra aver trovato – più a livello
popolare che di élite dirigenti – una coesione invidiabile. Anche gli
spostamenti di voto all’interno della coalizione, che si ripetono con
frequenza ad ogni tornata elettorale, a ben guardare rappresentano un
punto di forza per il centrodestra nel medio e nel lungo periodo.
Soprattutto se, come è possibile, ad un’accelerazione verso il “partito
unico” tra Ds, Margherita e cespugli vari, corrispondesse un’analoga
spinta centripeta per la costruzione di un partito moderato di
centrodestra riconducibile alla grande famiglia dei Popolari europei.
Forza Italia stessa, seppure allo stato embrionale, è una sorta di
esperimento fusionista tra anime diverse – liberale, conservatrice,
cattolica, moderata e riformista – che riescono a convivere sulla base
di istanze, istinti e ragioni comuni. Alleanza Nazionale e l’udc, sul
fianco destro e su quello più moderato, rappresentano elettorati
assolutamente compatibili (e per questo spesso interscambiabili) con
quello del partito di maggioranza relativa. La Lega, naturalmente,
resterebbe fuori da questo nuovo soggetto politico, anche se alleata con
esso; ma è opinione diffusa che questa scelta potrebbe rafforzare la sua
forza elettorale e portare giovamento (se non altro numerico) all’intera
coalizione.
Partendo dal risultato elettorale del 2006, non è comunque necessario
pensare ad un “partito unico” del centrodestra per puntare, nel giro di
pochi anni, allo status di “maggioranza strutturale” nel paese. A patto,
naturalmente, di prendere coscienza degli errori commessi, non tanto
durante la campagna elettorale ma soprattutto negli anni precedenti.
Investire nella produzione culturale (pensiamo anche alla cultura
popolare) non è più rinviabile. Think tank, fondazioni, riviste e
giornali, ma anche soggetti in grado di sfruttare le potenzialità
immense di old e new media, già esistono ma vanno potenziati, messi in
rete tra loro e considerati come una risorsa per la crescita complessiva
di un’area politica di riferimento, non come scorciatoie per il
raggiungimento di obiettivi personali. L’organizzazione politica sul
territorio, che sia quella del “partito unico” o dei singoli partiti
della coalizione, deve essere considerata importante almeno quanto la
capacità di mobilitare il proprio elettorato in occasione degli
appuntamenti “nazionali”. A questa esigenza è strettamente connessa
quella di migliorare il livello della propria classe dirigente,
soprattutto locale, per diventare competitivi nelle tornate elettorali
amministrative.
E’ necessario, insomma, prepararsi ad una “campagna elettorale
permanente” in grado di favorire la proiezione, anche sul piano più
strettamente tecnico-elettorale, di quella “maggioranza strutturale” che
il centrodestra, ancora una volta, ha dimostrato di rappresentare nel
paese.
09 maggio 2006
|