India, l’elefante con gli occhi di tigre
di Franco Oliva
da Ideazione di maggio-giugno 2006
Elefante o tigre? Un pachiderma ingombrante che si muove pesantemente e
lentamente; o un felino scattante, veloce, aggressivo? Politici,
analisti e media si dividono quando, parlando dell’India, cercano
un’immagine che possa dare immediatamente un’idea di come il
subcontinente asiatico viene percepito oggi sulla scena mondiale,
politica ed economica. Ma tutti concordano sul fatto che un nuovo grande
protagonista è ormai pronto a entrare stabilmente e a pieno titolo nel
club delle grandi potenze del pianeta. E non potrebbe essere altrimenti.
Basta dare uno sguardo ai fatti e alle cifre. Il primo fatto è sotto gli
occhi di tutti: l’India è di moda. È tornata a essere un topos: non
quello mistico-spirituale dei secoli scorsi, ma quello più prosaico
dell’era post-industriale del Ventunesimo secolo. L’architettura fredda
delle nuove cattedrali tecnologiche in vetro e ferrocemento di Bangalore
ha soppiantato, nell’immaginario occidentale, quella magica dei mille
templi o del Taj Mahal. Il mondo – e in particolare gli usa – sta
corteggiando l’India come non ha mai fatto prima, affascinato dalla sua
nuova storia di crescita, forse preoccupato della superpotenza cinese in
Asia, cercando di proteggere alcune scommesse. Capi di Stato, ministri,
grandi manager internazionali vanno ormai in pellegrinaggio a New Delhi
e nelle altre metropoli indiane, con un ritmo vertiginoso. I
corteggiatori più assidui e insistenti sono proprio i più importanti
attori delle relazioni internazionali: usa, Cina, Giappone, Russia,
Unione Europea. Ciascuno con le proprie preoccupazioni, le proprie
strategie e i propri interessi.
Ma il mondo conosce davvero questo paese complesso e diverso? E, d’altro
canto, sa l’India che cosa vuole dal mondo? Alla seconda domanda si può
rispondere con relativa facilità: l’India cerca spazio e ruolo
economico, ma vuole anche che sia riconosciuto il suo status di grande
potenza politico-militare. Facile a dirsi, ma molto difficile da
realizzarsi. Intanto, però, negli ultimi anni ha accresciuto le proprie
credenziali: ha messo a segno un tasso di sviluppo economico sostenuto e
ormai pare anche consolidato; si è qualificata come potenza nucleare
(ufficialmente con gli esperimenti del 1998); ha messo la sordina ai
conflitti territoriali con due potenti vicini, la Cina e il Pakistan,
che sono stati causa di scontri armati. E ha già presentato il conto.
Mentre attende la riforma dell’onu dove ha chiesto di occupare uno dei
seggi nel Consiglio di Sicurezza, ha raggiunto un accordo con gli Stati
Uniti sullo spinoso e annoso problema nucleare, ottenendo la caduta
delle sanzioni per aver sviluppato energia nucleare con potenziale
bellico contravvenendo al divieto contenuto nel Trattato di non
proliferazione. Proprio il rapporto con gli usa sta offrendo,
finalmente, all’India la chiave per accedere ai vertici dell’ordine
politico-economico mondiale.
Molti americani sarebbero probabilmente sorpresi nell’apprendere che
l’India è diventato, senza alcun dubbio, il paese più filo-americano del
mondo. Di recente, in un sondaggio della Pew Global Attitude Survey un
sorprendente 71 per cento di indiani ha dichiarato di avere
un’impressione favorevole verso gli usa. Dei cittadini dei 16 paesi
coinvolti nel sondaggio, solo gli stessi americani hanno dichiarato di
avere una visione più favorevole dell’America (83 per cento). Il
risultato è stato confermato, anche se con numeri diversi, da altre
inchieste. Eppure per decenni il governo indiano aveva provato a
inculcare un sentimento anti-americano nel suo popolo (soprattutto negli
anni Settanta i politici parlavano spesso di una mano nascosta, hidden
hand – la cia o comunque l’interferenza americana – quando si trattava
di spiegare le ragioni delle miserie dell’India). Di questo grande
sforzo di propaganda non è rimasta traccia se non nella retorica
antiglobal, erede, non solo in India, del terzomondismo più velleitario
della seconda metà del secolo scorso. Le manifestazioni anti-Bush,
durante la visita a New Delhi nel marzo scorso, sono state quasi
patetici “atti dovuti”. Non solo per i numeri dei partecipanti, ma anche
e soprattutto perché il presidente americano stava siglando storici
accordi con un governo di sinistra, ancora dominato dal partito del
Congresso della dinastia Nehru-Gandhi e appoggiato dai comunisti. Il
realismo ha suggerito al governo di sfruttare al meglio la posizione
strategica che la storia ha assegnato all’India, chiamata – non dagli
americani, ma dalle leggi della geopolitica – a fare da contrappeso alla
crescente e preoccupante potenza cinese nello scacchiere asiatico e
mondiale. Alla crescita politica dell’India hanno sicuramente
contribuito gli spettacolari risultati conseguiti sul piano economico.
Negli ultimi 15 anni, l’India è stato il secondo paese per velocità di
crescita nel mondo, registrando una media superiore al 6 per cento
l’anno. La crescita ha accelerato al 7,5 per cento l’anno scorso e
probabilmente manterrà lo stesso passo anche quest’anno. Molti
osservatori credono che l’India potrebbe espandersi a questo tasso in
tutto il prossimo decennio.
E le cose non dovrebbero cambiare se si allunga lo sguardo. Per la
Goldman Sachs, secondo quanto riportato da Newsweek, per esempio, nei
prossimi 50 anni l’India crescerà più velocemente rispetto alle maggiori
economie mondiali (molto a causa del fatto che la sua forza lavoro
invecchierà meno velocemente). Fra 10 anni la sua economia supererà
quella dell’Italia e fra 15 raggiungerà quella della Gran Bretagna.
Intorno al 2040 sarà la terza economia del mondo. Per il 2050 sarà
cinque volte più grande di quella del Giappone e il suo reddito
pro-capite sarà cresciuto di 35 volte rispetto al livello attuale. Da
notare che l’attuale tasso di crescita dell’economia indiana è superiore
a quello indicato dallo studio. Solo la Cina, l’altro gigante asiatico e
mondiale, è riuscita a fare meglio, con una crescita media del 10 per
cento. Ma sulla classificazione della Cina non ci sono problemi: essa è
la tigre per eccellenza, quella che sta in prima fila. Una tigre che
incute rispetto, ma anche timore. Gli indiani preferiscono un’immagine
più rassicurante per il loro paese. Assicura Gurcharan Das, guru del
management ed economista indiano: «L’India non sarà una tigre, ma
somiglia piuttosto a un elefante che marcia a passo sicuro. Una crescita
superiore sarebbe possibile solo per atti d’imperio di un governo
autoritario, che spinga su investimenti pubblici o tagli i nodi
burocratici per stendere tappeti rossi agli investitori internazionali
in determinati settori». Ogni riferimento alla Cina non è puramente
casuale.
La crescita della Cina è un prodotto del suo efficiente e onnipotente
governo. La crescita dell’India, invece, è disordinata, caotica e
largamente non programmata. Non è top-down ma bottom-up, non promana
cioè dall’alto ma dal basso. Sta avvenendo non grazie al governo, ma in
larga parte nonostante esso. E, come vedremo, può essere minacciata
proprio da una scarsa governance. “Chindia”, Cina (China in inglese) più
India: i loro nomi, combinati, sembrano fatti apposta per un gioco di
parole. E la tentazione di vedere nell’uno lo specchio dell’altro è
irresistibile e forse inevitabile, ma può essere fuorviante. India e
Cina, da sempre due civiltà molto diverse, hanno seguito strade molto
diverse verso lo sviluppo. Soprattutto hanno cominciato il loro
straordinario cammino verso lo sviluppo e la modernità in tempi molto
differenti. E sta forse proprio qui – nell’inizio anticipato – una delle
ragioni principali del gap attuale, a favore della Cina. Il regime di
Pechino avviò le sue riforme, nel 1978, dopo la fine dell’incubo della
“rivoluzione culturale” e la morte di Mao. Dopo la crisi di Tiananmen
del 1989, quando fu addirittura messa in discussione l’apertura degli
anni precedenti, il processo riformatore ebbe un nuovo e più forte
impulso, sotto la guida di Deng Xiaoping, all’inizio del 1992.
L’India, invece, sotto la guida illuminata dell’allora ministro delle
Finanze e attuale primo ministro Manmohan Singh, cominciava proprio
allora, nel 1991. Fu una scelta obbligata: dopo la caduta dell’impero
sovietico – il suo principale partner economico e politico – il governo
di New Delhi si trovò spiazzato e isolato sulla scena mondiale, dove si
era definitivamente dissolto il suo sogno di leadership dei “non
allineati”, e con un disastroso carico di debiti che rischiava di
schiacciare il Paese. Ma, a quel punto, aveva già perso il vantaggio che
aveva sui vicini. Nel 1960 l’India aveva un reddito pro-capite superiore
a quello della Cina; oggi è la metà di quello cinese. Quell’anno aveva
lo stesso reddito pro-capite della Corea del Sud; oggi quello della
Corea è di 13 volte superiore. Eppure, la partenza, nell’immediato
dopoguerra, lasciava prevedere altri sviluppi. Dopo la fine della
dominazione straniera (15 agosto 1947), fu creata una repubblica laica,
unificata e democratica con una rapidità eccezionale, anche non furono
risparmiati momenti drammatici e crudeli per la spartizione dell’ex
dominion tra India (a maggioranza indù) e Pakistan (musulmano). Ma
l’economia, voluta socialista e pianificata, rimase alle corde,
soffrendo quello che si è finito per chiamare “tasso di crescita indù”.
Negli anni 1950 e 1960, l’India tentò la strada della modernizzazione
creando un modello di economia “mista”, tra capitalismo e comunismo.
Questo ha significato un settore privato incatenato e
sovra-regolamentato e un settore pubblico massicciamente inefficiente e
corrotto. I risultati furono miseri e negli anni Settanta, a mano a mano
che l’India diventava più socialista, divennero disastrosi. La quota
dell’India nel commercio mondiale scese a zero. Gli imprenditori e le
grandi famiglie del mondo degli affari fuggivano all’estero per poter
guadagnare soldi e sfuggire alla vulgata sovietica che pretendeva di
fissare persino il numero di bulloni che una fabbrica poteva utilizzare.
Ora, c’è da dire che proprio gli indiani della diaspora all’estero (nri,
i Non-Resident Indians) hanno giocato un ruolo importante nell’aprire la
madre patria: sono tornati in India con soldi, idee di investimenti,
standard globali e, soprattutto, un senso che volendo si può raggiungere
qualsiasi obiettivo. Il loro successo – in tutto il mondo, ma in
particolare nelle due grandi metropoli del capitalismo, gli usa e la
Gran Bretagna – è un esempio vivo, sempre presente, stimolante
soprattutto per i giovani indiani che sono la vera forza, numerica e
intellettuale, della nuova India. La metà della popolazione indiana ha
meno di 25 anni. India, a mix of brain power and large scale: India, una
combinazione di potere cerebrale e di grandi dimensioni. La demografia è
l’arma assoluta dell’India per l’oggi e il domani. È insieme una riserva
di consumatori e una leva per perseguire i cambiamenti necessari. Oggi,
insieme, India e Cina hanno una popolazione pari ai due quinti di tutta
l’umanità. I numeri sono impressionanti: più di 1.300 milioni di
abitanti in Cina e quasi 1.100 milioni in India. Ma il rapporto sta per
cambiare: nel 2025 vivranno in India 1.395 milioni di persone e 1.593
nel 2050; i cinesi saranno 1.441 milioni nel 2025, però scenderanno a
1.392 milioni nel 2050 a causa del loro inferiore tasso di natalità. La
più promettente risorsa del paese è, dunque, una grande e giovane
riserva umana, forte di un’educazione crescente e con il vantaggio di
una conoscenza generalizzata e quasi naturale dell’inglese (l’India nel
2010 conterà sul più grande numero di anglofoni del mondo). Già oggi,
grazie a questo fattore, l’India è diventata “l’ufficio del mondo” in
contrapposizione indiretta con la Cina che viene definita “la fabbrica
del mondo”.
La scommessa è quella di uno sviluppo più equilibrato. Per esempio, il
modello attuale per il quale il mondo ammira l’India e di cui il paese
va oggi orgoglioso alla lunga potrebbe rivelarsi inadeguato o almeno
insufficiente. Va bene essere all’avanguardia nelle tecnologie
dell’informatica e delle telecomunicazioni o nelle biotecnologie, va
altrettanto bene essere il centro mondiale dei call center e
dell’outsourcing. Ma dal punto di vista dei numeri – tanto più quando si
tratta, come nel caso dell’India, di cifre a otto e nove zeri –
l’occupazione che può arrivare da una crescita limitata o almeno molto
accentuata sul settore dei servizi non è sufficiente ad assorbire un
inevitabile esodo dalle campagne dove ancora vivono 700 milioni di
indiani, quasi tutti a livelli di miseria abissali. Occorre guardare
anche all’agricoltura e, soprattutto, all’industria e al settore
manifatturiero. Per creare più occupazione bisogna accettare di fare
almeno un po’ di concorrenza alla Cina, che oggi è la meta preferita
della localizzazione delle fabbriche dai paesi più maturi (usa, Europa e
Giappone).
Qualcuno, crudamente, ha fatto rilevare che l’India forse ha parecchie
Silicon Valley, ma ha anche tre Nigerie dentro di sé, con più di 300
milioni di persone che vivono – o, meglio, cercano di sopravvivere – con
meno di un dollaro al giorno. 800 milioni guadagnano meno di 2 dollari
al giorno. L’India ha il 40 per cento dei poveri del mondo e la seconda
più grande popolazione infetta di aids del mondo. Nei paesi in via di
sviluppo, molti hanno sistematicamente promesso troppo e mantenuto poco.
La tendenza è di spingere le riforme in periodi di difficoltà e di
sprecare le risorse quando la pressione si abbassa. E anche in India,
dall’inizio delle riforme nel 1991 a oggi, periodi di entusiasmo ed
euforia si sono alternati ad altri di delusione e disappunto. L’India ha
un evidente tallone d’Achille che potrebbe bruciare tutte le promesse e
le premesse dello sviluppo: lo stato disastroso delle infrastrutture che
impone costi addizionali alle imprese erodendo il vantaggio di un basso
costo del lavoro. Solo le telecomunicazioni hanno avuto un significativo
miglioramento, mentre è lontana la modernizzazione di areoporti, strade,
ferrovie e porti. E qui che si fa evidente il basso livello della
governance.
Uno degli aspetti per i quali molti oggi sembrano propensi a preferirla
alla Cina del totalitarismo più o meno illuminato è il fatto che l’India
è la più grande democrazia del mondo. Certo, con tutti i suoi limiti e
le sue contraddizioni. Quasi un miracolo nella storia dell’Asia, ma un
miracolo con tanti lati oscuri: una corruzione endemica, a tutti i
livelli; clientelismo e localismo asfissiante; tentazioni di
integralismo, che hanno provocato in tempi più o meno lontani esplosioni
di odio religioso ed etnico (si ricordino la strage di sikh a New Delhi
nel 1983 e quella dei musulmani nel Gujarat nel 2002). La democrazia è
la forza dell’India, ma può rendere le cose più difficili, soprattutto
quando si assiste a una frammentazione degli schieramenti e diventano
inevitabili governi con coalizioni vaste e variegate (quella oggi al
governo raccoglie 20 partiti!) capaci più di porre veti e bloccare che
di prendere le decisioni che sono fondamentali per procedere sulla
strada delle riforme e dell’apertura economica.
09 maggio 2006
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