Un successo su tutta la linea
di Norman Podhoretz
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006

CAll’inizio ero un sostenitore entusiastico della Dottrina Bush, e lo sono ancora. Ripercorriamo un po’ le tappe. L’11 settembre al Qaeda, l’organizzazione di Osama bin Laden, è riuscita a fare quello che non era mai riuscito né alla Germania di Hitler, né al Giappone di Tojo, né all’Unione Sovietica di Stalin: un attacco agli Stati Uniti sul proprio territorio. L’elemento più nuovo della reazione di George W. Bush a questo attentato consisteva in una strategia pensata per “prosciugare le paludi” del dispotismo religioso-politico in tutto il Medio Oriente, dove, sosteneva il presidente, il nuovo nemico cresceva e prosperava.

Il primo banco di prova della strategia di Bush è stato naturalmente l’Afghanistan, dove gli islamofascisti talebani ospitavano i terroristi di al Qaeda che ci avevano attaccato. Dal punto di vista militare, la campagna per rovesciare i talebani è stata un successo brillante, così come i successivi sviluppi politici in Afghanistan. In tre soli anni sono state indette le prime elezioni libere della storia del paese e Hamid Karzai, giustamente definito civile, moderno e pro-americano, ha prestato giuramento come presidente. Era ovvio anche che l’obiettivo successivo sarebbe stato l’Iraq. Perché se i talebani rappresentavano al meglio la faccia religiosa, o “islamo-” del mostro totalitario bicefalo schierato contro di noi, l’Iraq di Saddam Hussein era la principale incarnazione della sua componente secolare o “fascista”.

Anche la campagna militare contro Saddam è stata un successo brillante. Lo sono state anche le conseguenze politiche, nonostante una “resistenza” che utilizzava tattiche terroristiche estremamente difficili da contrastare. Ma è opportuno notare tre cose. Primo, operando per mezzo di un’alleanza fra guerrieri santi islamisti e ostinati fascisti baathisti, la “resistenza” ha dimostrato che il nostro nemico era – confermando la diagnosi di Bush – un mostro con due teste, una religiosa e una secolare. Secondo, dichiarando che il suo scopo era quello di impedire la democratizzazione dell’Iraq, l’alleanza islamofascista ha dato ragione a Bush, quando sosteneva che la democrazia era la ricetta giusta per uccidere le due forze che essa incarnava e rappresentava.

Terzo, il fatto che la coalizione islamofascista non sia riuscita a impedire gli incredibili progressi che gli iracheni compivano (anche quando molti di loro venivano assassinati), dimostra che Bush aveva ragione quando sosteneva che «i popoli delle nazioni islamiche vogliono... le stesse libertà... come i popoli di tutte le nazioni». Così, come se fossero usciti dal nulla, circa otto milioni di iracheni si sono recati a votare ad una libera elezione: poi, e sempre sconfiggendo il mostro bicefalo, è stata faticosamente prodotta una Costituzione che, probabilmente in tempi abbastanza brevi, trasformerà l’Iraq in una repubblica federale in cui i principi islamici costituiranno formalmente «la principale fonte legislativa» ma nella quale «non si potrà varare alcuna legge che limiti i principi democratici». A questi successi della Dottrina Bush in Afghanistan e Iraq si può aggiungere l’effetto domino che essa ha avuto in tutta la regione e che ha determinato la sospensione del programma di armi di distruzione di massa in Libia, il ritiro delle forze siriane dal Libano e (forse la conseguenza più diretta) l’emergere di voci riformiste sempre più audaci all’interno dell’Islam.

Ora, non riesco in nessun modo a capire come si possa negare che tutto questo – ottenuto con perdite americane incredibilmente basse se comparate a quelle di qualsiasi altra guerra che abbiamo combattuto – stia “rendendo gli Stati Uniti più sicuri”. Ma sicurezza a parte, quello che gli Stati Uniti stanno facendo in Medio Oriente è così impregnato di grandezza e di nobiltà che ho perso la pazienza con i suoi oppositori. Fra questi, considero quelli che odiano l’America moralmente disprezzabili e intellettualmente cretini; per quanto riguarda i loro compagni più moderati, tutto quello che hanno da proporre è o un isolazionismo ormai discreditato da tanto tempo o la ridicola insistenza sul fatto che dovremmo farci guidare dalla saggezza politica della Francia e dall’autorità morale dell’Onu.

E tuttavia, devo confessare che sto esaurendo la pazienza anche con quei sostenitori della Dottrina Bush che passano tutto il tempo a lamentarsi perché (per usare l’inimitabile parafrasi dell’editorialista Mark Steyn) “avremmo dovuto fare questo e avremmo dovuto fare quello”, come se fosse lampante che “questo” e “quello” avrebbero funzionato meglio dei rischi che si sono ragionevolmente corsi, date le circostanze. Benedetta da critiche così sicure di sé da parte di tanti sputasentenze, l’amministrazione Bush non ha quasi più bisogno di me. Nonostante questo, siccome sono convinto che se alla fine saremo sconfitti non sarà per le rivolte terroristiche lì, ma per quelle politiche da noi, credo che sia diventato assolutamente essenziale riconcentrare gli americani sulla minaccia che dobbiamo affrontare. Credo anche che la cosa migliore che l’amministrazione Bush potrebbe fare in questa direzione, sarebbe di iniziare apertamente a identificare il nemico con l’islamofascismo e la guerra contro di esso con la quarta guerra mondiale.

Comprendo perché l’amministrazione cerca di evitare questa china retorica, ma stiamo pagando un prezzo troppo alto in termini di chiarezza e concentrazione a causa del ricorso a eufemismi e giri di parole. Più specificamente, non aver chiamato il nemico e la battaglia con il loro nome ha permesso all’opposizione di strappare l’Iraq al suo contesto, dove era solo un fronte in un conflitto molto più vasto, e di descrivere la nostra campagna come una guerra autonoma non collegata all’11 settembre. È in gran parte grazie a questa perdita di chiarezza e di concentrazione che il sostegno popolare per la politica del presidente ha subìto un pericoloso declino; e questo, più di ogni altro fattore, minaccia la “prospettiva di vasta portata” e la sua magnifica “visione espansiva del ruolo dell’America nel mondo”. Per mettere un freno o forse persino per invertire il declino, il presidente dovrà iniziare e poi continuare a ricordare ai cittadini americani che quella che stiamo combattendo è una guerra mondiale contro l’ennesimo aggressore totalitario, e che i fattori in gioco sono importanti almeno come quelli della seconda guerra mondiale e della terza (altrimenti nota come guerra fredda).

Dio sa che la nostra nazione ha bisogno che le venga ricordato questo e Dio ci aiuti se dovremo farlo a causa di un altro attacco sul suolo americano, questa volta però con armi infinitamente più devastanti di un paio di aerei dirottati.

(© Commentary)

(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)

08 giugno 2006

 

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