La democrazia va conquistata
di Edward N. Luttwak
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
L’idea di espandere attivamente la democrazia tra gli arabi, e non solo,
è assai intrigante. E anch’io, una volta, ne ero tentato. Insieme a una
coautrice araba, di origine sciita, una donna di talento che adesso si
dedica a cose più interessanti, ho cominciato a scrivere un saggio di
politica in cui propugnavamo la promozione vigorosa della democrazia in
Medio Oriente da parte degli Stati Uniti, anche a costo di compromettere
la stabilità. All’inizio, ci è sembrato che non fosse poi troppo
difficile argomentare in modo persuasivo che i disordini della
transizione, e persino le vittorie elettorali degli integralisti
islamici dopo l’instaurazione della democrazia, fossero preferibili al
persistere di quella colossale anomalia che è proteggere la grottesca
famiglia saudita, satrapi di minore importanza, e altri potentati
autoritari come Mubarak e Hussein di Giordania. Questo è stato grosso
modo un anno prima dell’11 settembre 2001.
Quello che mi ha fatto cambiare idea non è stata, temo, una lunga
riflessione sul problema, ma piuttosto la distrazione di un viaggio in
Sicilia con i miei fratelli, per rivisitare i luoghi della nostra
infanzia tra Palermo e dintorni. Nonostante le bellezze di livello
mondiale, ci sono pochissimi buoni alberghi; tutto lo sviluppo della
Sicilia è strangolato da servizi pubblici e infrastrutture
insufficienti, immediatamente riconducibili alle burocrazie locali e
regionali, costosissime e incredibilmente inefficienti. Con i suoi sei
milioni di abitanti, la Sicilia è più popolosa di molti Stati membri
dell’Unione Europea, ma è governata così a casaccio che il traffico di
Palermo è un ingorgo da incubo senza controllo (i poliziotti sono molti,
ma solo pochi di loro sono in servizio), mentre nella Sicilia
occidentale diverse città, tra cui Agrigento, coi suoi famosi templi
greci, d’estate non hanno acqua potabile, per non parlare di piscine, il
che inficia lo sviluppo turistico. E tutti sono concordi
nell’individuare le vere cause di questo spettacolare malgoverno,
perpetrato anno dopo anno, da quando Garibaldi, nel 1860, rovesciò il
regno borbonico delle due Sicilie.
I fenomeni essenzialmente politici chiamati col nome collettivo di
mafia, sovvertono e usurpano il governo, attaccando direttamente la
libera impresa, imponendo tasse non ufficiali e proteggendo i monopoli
locali. Non si tratta della mafia hollywoodiana costituita da violenti
criminali comuni, con o senza rivendicazioni socioculturali. È in realtà
la mafia, davvero esistente, dei dottori, degli avvocati, degli
ingegneri; a dire la verità, soprattutto medici, per il semplice fatto
che l’assistenza fornita dal sistema sanitario italiano è di gran lunga
la più grossa spesa regionale, con miliardi di euro che possono essere
rubati (contro i milioni del traffico locale di droga). La seconda spesa
è quella per le opere di ingegneria, per quei lavori pubblici che
restano incompleti per giustificare ulteriori appalti, tra cui ponti che
vengono lasciati a metà. Come hanno dimostrato centinaia di processi, i
criminali professionisti delle mafie locali siciliane, ovvero quelli che
vivono di piccole estorsioni e reati simili, operano sotto il patrocinio
degli avvocati, dei dottori, degli ingegneri della sovrastruttura
mafiosa, che paga le loro spese legali e mantiene le loro famiglie
durante l’incarcerazione, per mantenere il controllo locale e la fedeltà
delle truppe. Di conseguenza, i commercialisti, i revisori contabili,
gli impiegati statali, i giornalisti che vorrebbero denunciare le
fatture fraudolente e i contratti illegali restano zitti, e le indagini
delle polizia di Stato di solito non vanno a buon fine per mancanza di
testimoni.
Questa è la situazione della Sicilia, a circa 145 anni dal rovesciamento
dei Borboni e dopo un numero infinito di libere elezioni. Poiché i
siciliani non si sono liberati da soli, ma sono stati invece liberati
dal Nord Italia, restando passivi o ostili, il loro senso di identità è
ancor oggi definito dall’opposizione a tutto ciò che il liberale regno
d’Italia ha cercato di imporgli, a cominciare dalla legalità.
Oggi, in Iraq, la situazione è la stessa, solo di gran lunga peggiore.
Almeno, i piemontesi e i siciliani condividevano simbolicamente la
stessa nazionalità e la stessa religione, e l’invasione della Sicilia è
stata preceduta da decenni di propaganda a favore dell’Italia unita che
aveva raggiunto anche l’isola. Invece in Iraq molti credono che i
liberatori/invasori non islamici siano arrivati con lo scopo primario di
rovesciare l’Islam (ad esempio, diffondendo i diritti delle donne),
mentre gli arabi iracheni, indipendentemente dal fatto che lo credano o
no, sono persuasi che lo scopo principale dell’invasione sia quello di
annientare il potere del più forte Stato arabo. Quasi tutti gli
iracheni, curdi compresi, sono convinti che un altro movente sia stato
il controllo dei pozzi di petrolio. (Dal momento che non si sognerebbero
mai di invadere un altro paese per motivi che non siano depredarne le
risorse, escludono la possibilità che gli americani e i britannici
stiano pagando un tributo di sangue e denaro per un Iraq democratico e
prospero.) Ciò che esacerba gli iracheni è il caos sempre maggiore.
Molti sciiti oggi ritengono che gli americani stiano segretamente
organizzando gli attacchi rivolti contro di loro, per indebolire gli
arabi e l’Islam, scatenando una guerra civile tra sciiti e sunniti; da
parte loro, molti sunniti arabi sostengono che la tensione tra gli Stati
Uniti e l’Iran è fittizia, e che entrambi gli Stati intendono dominare e
dividere l’Iraq e la penisola araba. E queste sono soltanto le
spiegazioni più semplici. Teorie complottiste più complesse di solito
includono Israele e i sionisti, e sono all’origine dell’emissione di
alcune fatwe che proibiscono la vendita delle terre agli ebrei. Il
quadro complessivo è uguale a quello della sindrome siciliana: essendo
stati liberati, invece di essersi liberati da soli, gli iracheni oggi
costruiscono la loro identità respingendo tutto ciò che i loro
liberatori rappresentano, sposando versioni radicalizzate delle proprie
culture e seguendone i diversi capi. Tra questi, ricordiamo i membri del
clero, ignoranti e xenofobi senza speranza, che gli sciiti seguono più
ciecamente che mai, perché gli assicurano il dominio della loro etnia; e
poi i capi delle tribù arabe sunnite; le resistenze baathiste e gli
integralisti islamici assassini.
Lasciato a sé, l’Iraq col tempo avrebbe potuto evolversi in modo
naturale ed organico verso forme di governo migliori rispetto a quello
di Saddam Hussein. Ma allo stato attuale delle cose, dovrà in primo
luogo superare gli effetti della liberazione, il che richiederà
ulteriori generazioni, se non secoli. Lo stesso vale per tutte le altre
nazioni del mondo arabo, così diverse dalla Germania e dal Giappone del
1945, in cui è stata necessaria soltanto la riabilitazione di due
democrazie abortite prima della guerra, dove non esisteva l’ostacolo
dell’Islam, e dove anni di guerra sanguinosa avevano annientato i nemici
del progresso democratico, gettando nel più totale discredito le loro
ideologie.
(© Commentary)
(Traduzione dall’inglese di Arianna Capuani)
08 giugno 2006
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