Cerco un centro di verità permanente
intervista a Piergiorgio Odifreddi
da Ideazione di gennaio-febbraio 2006
Piergiorgio Odifreddi è simpatico. È la prima cosa che si nota, facendo
la conoscenza di questo “matematico impertinente”: disperazione di
preti, filosofi, e irrazionalisti, passati al suo inesorabile setaccio
logico. Eppure, a sentirlo parlare, non si sospetterebbe l’acredine del
polemista, denunciato da Antonino Zichichi per la pubblicazione di un
ironico florilegio (intitolato “Zichicche”). La vena battagliera di
Odifreddi – docente universitario e piacevole divulgatore, insignito nel
’98 del premio Galileo – è dissimulata nel conversare brillante, ma mai
innocuo. Non si riesce a concordare con chi lo definisce uno scienziato
“da salotto”: si percepisce in lui il depositario di convinzioni,
esposte in maniera insolitamente diretta e comprensibile, ma non per
questo superficiali. Odifreddi scrive su riviste e quotidiani, partecipa
a trasmissioni tv e radiofoniche, pubblica libri agili e divertenti; ma
è prima di tutto un ricercatore. E da ricercatore lo interpellano queste
domande.
Professor Odifreddi, cos’è il metodo?
Bisognerebbe chiederlo a Cartesio, che con il suo Discorso sul Metodo ha
aperto la scienza moderna. Spesso i filosofi lo dimenticano, ma si
trattava dell’introduzione a un lungo libro di tre capitoli (uno dei
quali dedicato alla geometria), nel quale egli stesso riconosce che il
metodo non è nient’altro che il procedimento matematico. Cartesio era un
razionalista, credeva in un modello di scienza a priori, non suffragata
dall’esperienza. Questo tipo di procedimento oggi è caduto in disuso;
decidere che il mondo dev’essere fatto in un certo modo solo perché noi
così pensiamo è anzi considerato molto pericoloso. Certo, esistono le
eccezioni: l’esempio tipico è quello di Einstein, che concepì tra le
mura domestiche la teoria della relatività generale, ossia quella che
doveva essere la struttura dell’Universo. Nonostante questo – o appunto
per questo – l’apriorismo resta un metodo da non consigliare agli
studenti – anche perché non tutti sono Einstein. Di norma, invece, il
metodo scientifico usa la ragione formalizzata dalla matematica (a
rigore, tutto ciò che non può essere matematizzato, o che ancora non lo
è, non può chiamarsi propriamente scientifico), ma insieme
all’interrogazione diretta della natura, per suscitare le sue risposte:
il metodo empirico. È proprio questa unione tra la matematica –
corrispondente alla ragione nella sua forma più pura – e l’empirismo –
in cui per così dire “ci si sporca le mani” – ciò che rende la scienza
diversa da tutte le altre discipline. Compresa la filosofia, la quale
invece è rimasta cartesiana: continua a ragionare “tra sé e sé”, ma
senza usare cartesianamente la matematica. Certo, filosofi e teologi
parlano di verità; ma si tratta di una verità diversa. Aprirei una
parentesi: bisogna intendersi quando parliamo di verità, che in sé è un
termine ambiguo. L’equivoco nasce dalla confusione tra il significato
greco e quello romano della parola, che corrispondono a due cose
completamente diverse. Per dire verità, i greci antichi usavano due
parole: aletheia e apocalypsis, che significano rispettivamente
non-oblio e disvelamento…
Ma questa non è la lettura di Heidegger? Non mi dica che lei è un
heideggeriano.
Per carità! A Heidegger, è bastato scambiare il significato del primo
termine – che ha tradotto con disvelamento – con il secondo, per
costruire un’intera filosofia. Invece, l’aletheia è “ciò che non si può
dimenticare”: ovvero, basta guardare in profondità dentro di sé per
trovarla. Ed è questa la verità di ragione, quella matematica.
L’apokalypsis, d’altro canto, è “ciò che si scopre”: che si è
dimenticato, oppure che è nascosto, ma si può scoprire sollevando il
velo. Non è un caso che nella scienza si parli appunto di scoperta,
intendendo qualcosa che non è così evidente, di cui bisogna andare in
cerca. Oggi confondiamo con questi due significati una terza accezione,
che risale invece ai romani: quella della verità giuridica. Per i romani
la verità era quella del diritto: verum deriva da una radice
indoeuropea, ver, che significa barriera; una barriera che si erge
diritta, che all’occasione bisogna raddrizzare – proprio come si
raddrizzano i torti. Questa si chiamerebbe oggi la verità di fede. Non
deve sembrare strano l’accostamento tra la legge e la fede; entrambe
poggiano la loro pretesa di verità sui libri (quelli giuridici, in un
caso, e quelli rivelati nell’altro). Così come nei tribunali la verità
si stabilisce attraverso un verdetto, una dichiarazione di verità
rilasciata dal giudice, che per così dire si rende vera, in teologia la
verità passa per editti. Continuare a usare la stessa parola genera
grossi equivoci. Per la verità giuridica, quel che conta è la
consistenza dell’impianto difensivo, o di quello accusatorio, a seconda
che ci sia un’assoluzione o una condanna; per quella teologica, o
filosofica, si ricorre a libri scritti da qualcuno. Cosa ben diversa
accade nella scienza, dove per raggiungere la verità contano la
matematica e gli esperimenti.
Si può quindi parlare di metodo solo nel caso della scienza e della sua
verità?
A mio parere sì. Personalmente non reputo accettabile il ricorso alla
rivelazione contenuta in un libro, a prescindere che sia la Bibbia o
Harry Potter. La consistenza interna di un libro non significa nulla ai
fini della verità: chiunque può scrivere un libro consistente, ma
passare a credere che le cose effettivamente esistono è altra storia. Se
per verità intendiamo ciò che effettivamente c’è, ciò che è reale, ciò
che possiamo vedere direttamente o scoprire attraverso gli esperimenti,
filosofia e teologia non hanno nulla a che vedere con la verità.
In che senso allora lei ha una volta affermato, parafrasando Sartre, che
«la matematica è un umanismo»? Anche discipline così diverse possono
convergere in qualche punto?
Assolutamente: anzi non esiste solo un punto, ma un intero piano di
convergenza. Si tratta di discipline complementari: lungi da me voler
gettare via l’umanesimo per restare al cospetto della sola scienza,
anche se i due campi restano contrapposti, con scopi differenti. Si
tratta di un problema di obiettivi. Molto spesso, quando si pone una
questione, tutto dipende da cosa si vuole in quella situazione; se sia
più importante dare una risposta specifica, dettagliata, prendendosi
tutto il tempo che ci vuole a trovarla, oppure se sia più importante
dare una risposta immediata, anche se imprecisa. Se mettiamo una mano
sul fuoco, o se sta per caderci in testa un masso, non c’è ovviamente il
tempo di fare calcoli; bisogna fare un salto – a volte anche più lungo
della gamba. Senza dubbio avremo una risposta immediata, ma non molto
adeguata rispetto alla natura del fenomeno. In altre circostanze servono
al contrario risposte accurate e più riflesse: quando si compila la
dichiarazione dei redditi, non c’è alcuna fretta, ed è meglio fare bene
i conti, per non subire penali o multe. Ecco, questi sono i due modi di
procedere dell’umanesimo e della scienza: che servono entrambi nella
vita, ma non negli stessi casi. Quel che obietto è che di solito le
discipline umane pretendono di soddisfare anche l’esigenza di verità:
mentre per me la verità è solo quella scientifica, nel senso che si è
detto, della scoperta di quello che veramente c’è. Le discipline umane
hanno altri obiettivi: quello, appunto, di sondare l’animo umano,
persino di divertirci (non la filosofia, anche se i filosofi talvolta ci
divertono ugualmente, malgré soi), ma non di scoprire ciò che è vero.
Non è questo un atteggiamento, come si dice, scientista?
Chiamerei scientismo quello di cui parlavamo poc’anzi: il fatto di
rigettare del tutto le discipline umane, affermando che debba esserci
soltanto la scienza. Detto questo, il termine può essere utilizzato come
ognuno crede, anche con connotati negativi; oggi c’è chi, come Pera e
Ratzinger, chiama scientismo l’atteggiamento di cui abbiamo appena
parlato, ossia la convinzione che la scienza abbia il monopolio della
verità. In questo senso – e personalmente non mi dà alcun fastidio – io
sono certamente scientista, perché credo che la scienza sia l’unica
depositaria della verità, e nego che la teologia abbia invece qualunque
cosa a che fare con essa, visto che si occupa di ciò che è fuori del
mondo – o, come direbbe Cacciari, «dell’inizio e della fine». In
effetti, i filosofi che si autoproclamano laici dovrebbero piuttosto
occuparsi di quello che sta tra inizio e fine, ossia il tutto. Ripeto:
questo non significa contrapporre la scienza all’umanesimo con l’intento
di abolire quest’ultimo, ma semplicemente riconoscere che vi sono
discipline che non hanno l’obiettivo di scoprire la verità,
chiarificando i termini del discorso.
Scienze umane e scienze esatte possono condividere uno stesso percorso?
È interessante che le uniche discipline che si definiscono “scienze”
siano proprio quelle che non lo sono. Le cosiddette “scienze umane” sono
l’esatto contrario della scienza, perché non consentono alcun
esperimento, né alcun ragionamento logico-matematico; adoperano
piuttosto un procedimento intuitivo. Penso alla sociologia, ma anche
alla teologia; esiste poi una lunga diatriba sulla scientificità della
psicanalisi, inaugurata già dal Circolo di Vienna, in particolare da
Popper. La psicanalisi è una costruzione letteraria, che per lo più
serve a costruire malattie che poi si inventa essa stessa, e che servono
soprattutto a fare la fortuna degli psicanalisti. Nabokov diceva più
semplicemente che la psicanalisi è «una cura che consiste nello
spalmarsi miti greci sulle parti intime»; si tratta di invenzioni, visto
che quel che è nella testa è per definizione inconscio, e quindi nessuno
potrà mai conoscere la verità al suo proposito. Il motivo per cui queste
discipline avanzano la pretesa di essere riconosciute come scientifiche
è il credito che la scienza ormai riscuote. La visione scientifica è
diventata imperante, ed è comprensibile anche all’uomo della strada (se
si vuole andare da qualche parte non si prega un santo perché ci
teletrasporti, ma più verosimilmente si prende un treno, una macchina o
un qualsiasi altro mezzo di locomozione). Sono la scienza e la
tecnologia ormai a risolvere i problemi della vita; poiché la cosa è
ormai evidente a tutti, anche le metodologie che sono “dall’altra parte”
vorrebbero appropriarsi della sua fortuna, e credono di poterlo fare
ribattezzandosi scienze umane, anche se di scientifico non c’è quasi
nulla. La storia, ad esempio, può essere scientifica se si basa su
fatti, su dati archeologici, sulle analisi biochimiche, insomma su fatti
che si possano confutare o verificare; ma più spesso la storia è
letteratura (quando Cesare scrive la storia della campagna di Gallia, di
scientifico c’è ben poco, e molto più c’è invece di letterario e di
propagandistico). Così come per l’utilizzo della parola verità, anche
con la parola scienza è bene non fare confusione; la scienza ha come
scopo la scoperta della verità, attraverso il metodo matematico e
sperimentale, e dall’altra parte ci sono discipline diverse.
Dove va tracciato il confine tra scienza e non-scienza?
È certamente difficile dire da dove comincia la scienza e dove finisce
l’umanesimo. Siamo certi di dove porre la matematica, la fisica, la
chimica; con la biologia la questione è un po’ più dubbia, quantunque
quella moderna si sia sempre più avvicinata al metodo matematico. La
medicina è piuttosto una pratica, e spesso i medici sono l’equivalente
odierno degli stregoni. Non è un caso che la medicina sia ancora in
larga misura pervasa dalla tassonomia, che va poco d’accordo con la
scienza, perché questa riduce la conoscenza a poche ipotesi dalle quali
poi tutto il resto viene dedotto con la matematica. Man mano che si
procede, e si arriva alla psicologia, alla psicanalisi, eccetera, si
passa a una dimensione sempre meno scientifica, fino a toccare l’estremo
dello spettro. Questo non significa che un giorno anche queste
discipline non possano essere comprese nella scienza, e certamente le
prime saranno la biologia e la medicina; ma vi sono altre discipline che
restano ascientifiche – o antiscientifiche – per loro natura,
impossibili da sperimentare, fino alla teologia che addirittura parla di
ciò che sta fuori del mondo.
Cosa cambia man mano che si procede lungo questo spettro? Qual è il
valore che cresce passando dall’anti-scienza alla scienza?
Potremmo dire che cresce gradualmente il contenuto di realtà, e quindi
di verità. La fisica ci dà un’immagine del mondo com’è, e così fa la
chimica; la biologia si limita a ciò che accade sulla crosta terrestre,
ossia le specie vitali; la medicina si interessa in particolare della
specie umana; e via via, partendo dalla fisica – che prende di mira
l’intero universo – ci si concentra su un obiettivo sempre meno
universale. Forse è questo che contraddistingue la scienza
dall’umanesimo, che come dice la parola stessa ha a che fare con l’uomo
e guarda a un campo di interesse molto più ristretto. È chiaro che, per
noi antropocentrici, questo è l’oggetto di maggiore interesse; ma
dobbiamo riconoscere che si tratta di ben piccola cosa, dal momento che
la specie umana è solo una tra le altre, e che la vita è solo una parte
di tutto l’esistente. Eppure, man mano che si restringe il campo di
interesse, crescono però le pretese di essere arrivati all’essenza della
verità, proprio mentre dalla verità oggettiva ci si allontana sempre
più, fino alla sua dissoluzione. Per averne una prova empirica, basta
osservare la varietà di filosofie, di religioni, di fedi politiche, di
arti, di stili che si incontrano in giro per il mondo, distribuite
geograficamente e cronologicamente. Al contrario, la scienza è sempre
uguale; il teorema di Pitagora è lì da quattromila anni, eppure nessuno
si sogna di cambiarlo. Una volta che la verità scientifica è scoperta,
chiunque la accetta, che si sia in India, in Australia o in Sud America.
Proprio le filosofie e le religioni, che sono ovunque sempre diverse,
avanzano invece pretese di assolutezza; affermano la verità di se stesse
e negano quella di tutte le altre; mentre sono in realtà del tutto
provinciali, nel senso che si riferiscono a un ambiente e a un periodo
storico ben precisi. La scienza al contrario, che non accampa pretese
simili, giunge a un risultato unico. Spesso faccio inorridire i
religiosi, scherzando sul fatto che l’unica vera Chiesa cattolica è la
scienza: quella scientifica è una comunità universale, come non può dire
di sé la religione cattolica, che coinvolge solo un sesto degli abitanti
del pianeta.
Il relativismo è quindi una necessità per le discipline non
scientifiche?
Direi addirittura che il relativismo è obbligatorio per i filosofi e i
teologi; eppure sono proprio loro che lo rifiutano. Al contrario di
quanto dicono, però, la scienza è quanto di più lontano dall’idea del
relativismo, dal momento che le sue verità sono assolute, e dal momento
in cui sono scoperte non cambiano. Possono semmai essere ulteriormente
precisate, ma non vengono sconfessate, al contrario di quanto pensi una
certa concezione comune. Le teorie di Einstein, ad esempio, non hanno
fatto piazza pulita di quelle di Newton, che erano state valide solo
fino a quel momento; queste rimangono invece perfettamente valide, ma
diventano più precise. È quasi paradossale che nel dibattito queste
posizioni si invertano; e coloro che per loro natura dovrebbero essere
relativisti si comportano invece da assolutisti, accusando il
relativismo di essere il male del secolo e imputandolo alla scienza, che
non ne partecipa affatto.
L’idea che ci sia una disputa secolare tra scienziati che si
“correggono” a vicenda è quindi una visione volgare della storia della
scienza?
Non solo volgare, ma sbagliata; non a caso, basata non su quello che gli
scienziati effettivamente fanno, ma sul racconto che ne offrono i
filosofi. Questo è accaduto ad esempio con Kuhn [Thomas Kuhn, autore di
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, NdR], che ha introdotto
un’idea fuorviante. Kuhn parla come se il passaggio dalla fisica
aristotelica a quella galileiana fosse stata una rivoluzione
scientifica; ma la scienza è nata solo nel Seicento, e da allora non vi
sono mai state rivoluzioni. Pensiamo al valore del “pi greco”: le varie
scritture, via via più precise, di questo numero, che aggiungono sempre
decimali alla cifra iniziale, non si contraddicono affatto le une con le
altre; diventano sempre più approfondite, ma il valore non cambia mai.
Ecco, si potrebbe dire che passare da una teoria scientifica all’altra è
come aggiungere ulteriori decimali ai valori fondamentali, come la
velocità della luce, la massa dell’elettrone eccetera. Il problema è che
molti filosofi presentano una propria visione della scienza senza sapere
di cosa parlino. Non mi riferisco ai filosofi della scienza, che sono
pochi e poco ascoltati (in Italia citerei solo Giorello): ma quelli del
mainstream, che vanno per la maggiore e che vengono sempre interpellati
a questi propositi, mentre un qualsiasi studente di liceo ne sa più di
loro. Nel mio ultimo libro, Il matematico impertinente, io li chiamo
scherzosamente “la RCS”: Reale, Cacciari, Severino. Se la scienza fosse
ciò che questi pensatori credono, avrebbero tutte le ragioni di fare le
loro critiche; ma la scienza è ben altro. Bisognerebbe che si
informassero, ma così diventerebbero scientifici e si
autodistruggerebbero…
Possiamo dire che quando “ci distraiamo”, pensando troppo a noi stessi e
troppo poco a quello che esiste fuori, vengono fuori delle
elucubrazioni?
Guardi, l’ha detto meravigliosamente Talleyrand. A chi gli faceva
presente l’opinione del principe, a suon di “ma il principe pensa che…”,
egli rispose una volta: «Il principe pensa troppo per la sua
intelligenza». Trovo che si adatti perfettamente anche al nostro caso.
03 luglio 2006
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