L’importante è non pianificare
di Vittorio Mathieu*
da Ideazione di luglio-agosto 2006
Molte le fondazioni culturali classificabili (all’ingrosso) come “di
centrodestra”; non sufficientemente incisivo il loro operato. Eppure se
facessimo la somma dei loro introiti – quasi mai di origine pubblica,
più spesso di fonte imprenditoriale o mecenatesca – arriveremmo a un
totale cospicuo. Poiché il tempo dei fiori all’occhiello è sempre più
lontano, conviene domandarsi come provvedere, in modo che gli enti
erogatori abbiano la soddisfazione di vedere i loro sforzi coronati da
un risultato concreto. Pensando in primo luogo al principale mezzo di
comunicazione delle fondazioni con il pubblico, le riviste, la prima
risposta da dare è: specializzarsi e correlarsi. Dividersi i compiti a
seconda delle possibilità. Ciò comporterà qualche attrito, perché alcuni
temi sono più attraenti di altri: attirano di più l’attenzione. Ma il
vantaggio della specializzazione è tale da compensare qualche
sacrificio. Inoltre, l’interesse del pubblico non dipende solo dal tema
trattato, ma anche e soprattutto dal modo di trattarlo. Se ciascuno,
anziché parlare di tutto, affronta un problema in modo originale, è
probabile che attiri l’attenzione di molti che prima non ci pensavano.
La libera concorrenza, se veramente tale, induce specializzazioni, anche
nel commercio (lo ha dimostrato Pascal Salin).
La cerchia dei collaboratori fissi sarà ristretta: la maggior parte del
lavoro verrà svolto da freelance. Per quanto specifico, infatti, sia il
problema in discussione, per affrontarlo occorrono competenze sparse tra
più specialisti. Costoro, dovranno essere disponibili per più centri. Un
problema angoscioso è la loro retribuzione. In genere, ormai, anche il
lavoro intellettuale va retribuito; e i professionisti tengono in gran
conto l’entità della retribuzione, perché questa diviene, all’americana,
un attestato di stima. Si può risparmiare da altre parti, in particolare
nella composizione tipografica, lasciata ormai a chi scrive in cambio di
un buon onorario, grazie alla scrittura elettronica. Rimane per contro
pesante e inesorabile la distribuzione, decisiva per far sì che il
messaggio non rimanga la voce di un oratore nel deserto. È inutile
nasconderselo: c’è un punto critico al di sotto del quale si risparmia
omettendo di distribuire un’opera già stampata e mandandola al più
presto al macero, in modo che non ingombri il magazzino.
Alcune modeste proposte
Un mezzo però c’è, per attirare buoni collaboratori con retribuzioni
modeste o perfino nulle: divenire un periodico autorevole. Anche se
vengono letti solo nelle redazioni di altri periodici, certi periodici
acquistano fama di “autorevoli” e attirano collaboratori desiderosi di
divenire autorevoli a loro volta. La specializzazione serve anche a
questo: in particolare a farsi portavoce di un gruppo compatto e
battagliero, anche se relativamente piccolo. In questo dobbiamo
riconoscere che sono in vantaggio le sinistre. Se provate a fare un
censimento dei quotidiani o settimanali giudicati autorevoli nel mondo
trovate moltissimi periodici di sinistra, con tirature non grandi, ma
con pretese di serietà e acutezza: esempio tipico Le Monde. Come si
spiega il consolidarsi di queste fame, siano esse usurpate o no? Il
prestigio oggi viene soprattutto dalla scienza, e sarebbe interessante
studiare i processi attraverso cui divengono autorevoli i mensili
scientifici. Hanno dei comitati di garanti con nomi famosi e direttori
di sezione con il compito di garantire l’attendibilità dei testi. A sua
volta, questa funzione dà ai garanti un prestigio a ritroso, al punto
che dirigere una rivista autorevole è utile in America per ottenere una
cattedra.
Nonostante tali cautele, su quei fogli autorevoli compaiono contributi
che sono vere e proprie “bufale” (cioè: non soltanto congetture che
attendono di essere corroborate o falsificate, come ogni proposta
scientifica, ma che non stanno, come si suol dire, né in cielo né in
terra). La ragione di ciò è che una rivista ha il compito di annunciare
le novità, e la ricerca del nuovo per il nuovo porta spesso alla frode
intellettuale, a volte involontaria, a volte colposa o dolosa. Il nuovo
ha il pregio di sorprendere, ma il sorprendente non è detto per questo
che sia autenticamente nuovo. La teoria delle tracce mnestiche – per
fare un esempio – si trova in Aristotele e fu già confutata da Plotino,
eppure ricompare periodicamente nelle “scienze cognitive”.
Se questa è la situazione nelle scienze, si pensi a quello che sarà in
politica e in quella che si presenta come scienza politica. Il genio, si
sa, è innovatore, e quando compare a volte è misconosciuto, a volte no:
ma la probabilità è che per genio si spacci anche chi cerca soltanto di
colpire e di far rumore. Probabilità che cresce tanto più quanto più una
scienza è di dominio pubblico. Ad esempio, sul modo di trovare sempre
nuovi numeri primi (che, pure, si è dimostrato che sono infiniti)
nessuno osa dire la sua. Sul problema della fusione nucleare fredda già
ci si può illudere anche in buona fede. Sulle cause e gli effetti
dell’inquinamento pochi si rimettono con umiltà al parere di altri. In
politica generale, poi, non ci sono specialisti: accade piuttosto che
chi è specialista in tutt’altro campo si presenti come giudice di
problemi di cui non sa nulla. I premi Nobel in particolare, non solo
sono tollerati se parlano di cose che non conoscono, ma sono
costantemente invitati a farlo. La via per divenire autorevoli in campo
scientifico suscita dunque molte perplessità e non fornisce un esempio
che si possa applicare in campo politico.
La forza delle minoranze creative
Eppure accade che gruppi politicamente minoritari siano tenuti in
considerazione, pur rappresentando posizioni in contrasto con quelle
della maggioranza. Prendiamo ad esempio i cattolici in Francia. Dalla
fine dell’Ottocento la Francia è uno Stato, non solo laico, ma
dichiaratamente laicista; eppure i pensatori cattolici francesi sono
tenuti in una considerazione ben superiore a quella dei corrispondenti
pensatori italiani o tedeschi. O, almeno, lo erano finché il francese è
stato una delle massime lingue di cultura. Domandiamoci dunque: come mai
tanta attenzione al pensiero cattolico nella Francia di mezzo secolo fa?
La ragione è chiara: i cattolici erano una minoranza, ma una minoranza
che si dichiarava e si definiva con chiarezza. Erano rispettati anche in
Italia docenti come Gustavo Bontadini o Sofia Vanni Rovighi, ma
insegnavano in una università istituzionalmente cattolica, anche se,
grazie a loro, si era aperta a trecentosessanta gradi; e in un paese
dove (almeno allora) l’essere cattolici non faceva notizia. A Bontadini
sentii dire da un collega che lo apprezzava: «Se tu non fossi un
cattolico meriteresti di essere cooptato ai Lincei». Poi Bontadini lo
fu, anche perché lui stesso ironizzava sulla sua situazione. Raccontava,
ad esempio, che un amico gli aveva detto: «Tu, Gustavo, sei il più
grande filosofo. Cattolico. Italiano. Di via Stradella» (la strada in
cui abitava).
Nell’Italia d’oggi non gira più la Madonna Pellegrina e la professione
di fede cattolica è ormai minoritaria. In compenso, sul soglio di Pietro
siede un Pontefice che ha resistito vittoriosamente alla teologia
sociologizzante e agli exploits dei teologi vedètte. Un gruppo cattolico
può far sentire una voce minoritaria su cui l’eccezionalità attiri
l’attenzione. Mettersi in contrasto con l’andazzo corrente non è
difficile, perché la tecnologia biomedica è tutta occupata a
“disorientare i borghesi” sui temi della morale, con invenzioni sempre
più strabilianti in materia sessuale. Il modo tradizionale di conservare
la specie è ancora largamente praticato (sia pure evitando spesso che
dalle premesse discendano le conseguenze); ma ciò che attira
l’attenzione è ormai la riproduzione in laboratorio.
Ciò coinvolge problemi etici su cui la minoranza cattolica avrebbe buon
gioco nel far prevalere a destra le sue posizioni, mentre dalla parte
opposta una minoranza anch’essa cattolica minimizza il contrasto. Un
indifferentismo etico verso questi problemi è presente anche a destra,
ma evita di farsi sentire, mentre a sinistra sono piuttosto i
conservatori in materia di costume quelli che cercano di defilarsi.
Intorno a questo tema potrebbe dunque formarsi un nucleo di ricercatori
che raccolga in primo luogo le opinioni scientificamente meglio
corroborate sulle conseguenze delle nuove pratiche riproduttive,
terapeutiche ed eugenetiche; e in secondo luogo si richiami ai principi
etici, nonché di buon gusto che sconsigliano certe novità. Anche questo
non è un problema nuovo. Wagner, nel Faust, afferma che «il modo
tradizionale di generare […] è ormai spodestato quanto a dignità: se
l’animale continua a trarne godimento, l’uomo, con le sue grandi doti,
dovrà avere un’origine più pura, più elevata». Goethe era un “laico”,
ancor più di Marcello Pera, ma credeva nella natura e ne accettava i
procedimenti riproduttivi, anche se rozzi e ineleganti.
Questo tema non è soltanto eine Posse, una burla, come dice il Faust: è
un tipico esempio della difficoltà che la sinistra incontra nel
concepire il diritto quando cerca di applicarlo ai costumi.
Kantianamente, il diritto è il mezzo per rendere compatibile la libertà
di ciascuno con quella degli altri: e solo in virtù della forma può
prescrivere ai singoli certi comportamenti. Le sue norme, per un
liberale, è bene che consistano essenzialmente in proibizioni. In tal
modo ciò che non è proibito risulterà automaticamente permesso. Con la
crisi del giusnaturalismo, però, il diritto cambia pelle: tende a
divenire, non più regolativo e formale, ma costitutivo e assistenziale.
Perciò contenutistico: prescrive che cosa si deve fare. Lo osservava il
giuspositivista Norberto Bobbio già mezzo secolo fa; e si compiaceva che
le leggi aiutassero anziché proibire. Se non che leggi del genere
rimangono dichiarazioni d’intenti. Tutti, ad esempio, hanno diritto ad
avere una casa e un lavoro; ma la legge non è in grado di dire quale
ente (pubblico o privato) glieli debba dare; e, soprattutto, come
debbano essere.
Applicato alla procreazione il diritto può proteggere un legittimo
desiderio quale quello di avere un figlio; ma non può garantirne la
soddisfazione, neppure con la riproduzione artificiale. Per quanto
legittimo, il desiderio di avere un figlio non prevale su norme a
garanzia dell’ordine pubblico, o semplicemente su leggi di natura. Per
questo – lecita restando e plausibile la fecondazione assistita (come
quella che si pratica ormai quasi sempre sulle vacche) – può, e forse
deve, essere proibita la fecondazione in vitro, con le pratiche che la
precedono, la permettono e la seguono. Queste si può ben dire che vadano
contro l’ordine pubblico.
Come organizzare il coordinamento
Un ultimo punto sulla conduzione delle fondazioni associate: cupola o
rete? Ossia, un comando centralizzato che fa capo ad un punto culminante
o un collegamento tra una fondazione e l’altra, senza che si possa
individuare un centro? Il primo modello ha fatto le sue prove (a volte
brillanti) nel secolo Ventesimo, sotto forma di ministero della Cultura
popolare. Ma è adatto ad una guida pubblica dell’opinione. A una sua
conduzione libera e privata si conviene un modello molto meno
centralizzato: altrimenti sorgerebbe il problema di dove collocare il
centro e a beneficio di chi o di che cosa. Il modello preferibile è la
rete, in cui ogni fondazione è collegata – ossia legata da un nodo – a
tre o quattro altre senza che l’insieme svolga un progetto pianificato
dall’alto. Un accordo spontaneo non si raggiungerà sempre perfettamente
e in tutto, ma a cercarlo ci si abitua a poco a poco, in vista di fini
politici comuni che, del resto, non rimangono fissi, ma si modificano
nel tempo. La ricerca del perfetto è nemica del buono.
30 agosto 2006
* accademico dei Lincei, presidente del comitato scientifico della
Fondazione Ideazione
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