Le storture del giudice legislatore
di Vittorio Mathieu
da Ideazione di settembre-ottobre 2006
In un libro pubblicato in Italia un paio di anni fa dall’editore
Liberilibri, intitolato Il giudice sovrano, Robert H. Bork, celebre
avvocato e professore di Diritto costituzionale alla Yale University,
discute delle Corti Costituzionali. Ma l’assolutismo dei giudici, che
depreca, vale per qualsiasi grado di giudizio, non solo di legalità ma
anche di merito. Da decenni si osserva che l’ordine giudiziario, senza
rispondere in nessun modo all’elettorato, si assume un compito politico:
cerca di sostituirsi al legislatore nel decidere come ci si debba
comportare. Il pretesto è che la società è corrotta e che solo una
magistratura indipendente può correggerla. L’argomento è esatto, ma
l’abuso che se ne fa è evidente, soprattutto in Italia, dove il primo
requisito sarebbe l’indipendenza dei giudici dal pubblico ministero. Su
ciò Bork sorvola, perché negli ordinamenti anglosassoni (o non italiani
in genere) è ovvio. Eppure “l’estendersi mondiale della funzione dei
giudici” (sottotitolo dell’edizione americana, Coercing virtue, 2002) fa
sì che il caso italiano divenga emblematico. Cominciamo col ricordare la
definizione scolastica di giudizio: “sussunzione di un caso particolare
sotto un concetto generale”. La parola “sussunzione” non deve
spaventare: a chiunque capita di domandarsi se, ad esempio, in
circostanze ben precise l’epiteto “figlio di puttana” (usato
verosimilmente da Materazzi contro Zidane prima della famosa testata)
rientri o no sotto il concetto di “ingiuria grave”. Nel far ciò chiunque
di noi giudica. La differenza è che il giudice di merito fa ciò
professionalmente ed è pagato per farlo.
Ne viene che i giudici – che hanno istituzionalmente il compito di
giudicare – ricevono dalla pubblica autorità l’incarico di compiere
qualcosa che chiunque fa di continuo a proposito di qualsiasi problema.
Il giudice penale lo fa a proposito di comportamenti vietati dalla
legge, per i quali cioè la legge commina (o minaccia) una sanzione. Se
in nome del sovrano (cioè un tempo del re, oggi del popolo italiano) il
giudice stabilisce che la fattispecie rientra effettivamente sotto il
divieto, “irroga” la sanzione che la legge commina (mi diverto a usare
questi termini tecnici perché, a volte, perfino gli “operatori
giudiziari” li usano a sproposito). Entro questi limiti il diritto è
“conservatore”. La legge stabilisce una volta per tutte ciò che è
vietato, e non muta fin quando una nuova legge non la cambi. Il costume
può darsi che cambi più in fretta, e che trovi ad esempio penalmente
irrilevante l’adulterio quando ancora la legge lo vieta. Il giudice
innovatore, allora, si incarica di adeguare le conseguenze dell’atto al
nuovo modo comune di sentire (caso tipico: il comune senso del pudore).
Nel far ciò «si parrà la sua nobilitate»: a volte i giudici lo fanno
abilmente, senza violare apertamente la legge. Quando però sono
mediocri, o addirittura pessimi, lo fanno platealmente, con motivazioni
che un’istanza superiore trova spesso aberranti, per non dire “suicide”.
Nei casi studiati da Bork un’istanza superiore per lo più non c’è, e la
situazione diviene irrimediabile. L’organo giudiziario usurpa quel
compito di mutare la stessa Costituzione che spetterebbe a un’assemblea
legislativa ad hoc, quale si elegge a intervalli lunghissimi; o, nel
caso migliore, sostituita dal potere legislativo ordinario. La
costituzione americana – ufficialmente la più antica in vigore – è stata
ripetutamente emendata dal legislatore; ma soprattutto le sentenze della
Corte suprema, osserva Bork, l’hanno di fatto totalmente
cambiata.Veniamo alle conseguenze politiche, che sono quelle che ci
interessano. Tra noi, fin dall’immediato dopoguerra, chi si è reso conto
delle possibilità che gli offriva la situazione è il pci. Grazie alla
sua influenza ha provveduto a migliorare la situazione dei magistrati, a
proteggerli da giudizi di demerito grazie al concetto di “magistrato
unico”, ad assicurare loro una progressione economica indipendente dal
grado, distinguendo tra “qualifica” e “funzione”; e a immettere nella
carriera mediante concorsi non truccati ma guidati il maggior numero
possibile di magistrati fedeli (in teoria non dichiaratamente). In tal
modo ha dato alla magistratura una compattezza corporativa e ai propri
seguaci l’incarico di guidarla, anche da posizioni di minoranza.
La distinzione non implausibile tra giustizia sostanziale e giustizia
formale ha dato luogo a sentenze con relative motivazioni aberranti
(«non punibili, perché persuasi di esercitare un loro diritto» e
simili). Sentenze che, in un articolo, proposi di raccogliere in un
tempietto al centro di un “parco della rimembranza”, dove i pensionati,
portando a giocare i nipotini, potessero leggere che cosa è stato
giudicato “giusto”. Da Bork, la situazione è studiata molto più a grandi
linee, ed è indipendente dalla tradizione comunistica della politica
italiana. In quasi tutto il resto del mondo la situazione è opera di una
New Class – che è opportuno tradurre con “nuova casta” – di
intellettuali, che si arroga il compito di decidere in proprio, contro
la maggioranza, che cosa sia giusto, ovvero, nel suo linguaggio
“politicamente corretto”; col sottinteso che chi la pensa diversamente è
un retrogrado, un egoista, un corrotto, al limite un degenerato. Da noi
la nuova casta ha ricevuto o volontariamente assunto denominazioni
politiche che ricordano il bolscevismo dal 1917 in poi. Altrove (si
pensi ai “fabiani” inglesi, ammiratori di Quinto Fabio Massimo il
Temporeggiatore) il bolscevismo è stato accolto solo con severità, o con
tolleranza, o con comprensione, o al più con indulgenza, ma la
situazione è la stessa; stessa pretesa di influire coercitivamente, in
virtù di un pensiero illuminato (coercing virtue), sul diritto vigente;
stabilendo, ad esempio, che chi giudica delitti “contro l’umanità” abbia
una competenza territoriale planetaria e possa (pretendere di) far
arrestare dalla forza pubblica di uno Stato estero un cittadino
straniero accusato di crimini commessi all’estero contro cittadini
stranieri. Inoltre i giudici illuminati (non è forse loro l’incarico di
giudicare?) avrebbero il compito di stabilire contro chi debbano o non
debbano muoversi le forze armate di uno Stato qualsiasi. Non, ad
esempio, contro la minoranza armata che si era impadronita dell’isola di
Grenada (1979).
Ricordo questo episodio perché un mio ex professore di filosofia, nonché
ex sindaco di Tortona dopo la guerra, incontrandomi per strada in quei
giorni mi confidò: «Ti confesso che approvo l’azione degli Stati Uniti»,
quasi confessasse un’opinione paradossale e, per i più, perversa.
Quell’ex partigiano era divenuto frattanto preside di un liceo
scientifico di Milano, e aveva avuto occasione di guadagnarsi la stima
degli studenti in occasione delle assemblee, grazie alla sua abilità nel
judo. Bork ignora quasi del tutto la situazione italiana. Abituato a
procuratori generali elettivi, trova aberrante la pretesa del
procuratore generale della Corte suprema di Israele, Aharon Barak, di
«occupare un ruolo indipendente, o perfino dialettico, rispetto alle
scelte politiche del governo eletto». L’alta Corte di Israele, dove
manca una Costituzione, è effettivamente fenomenale nella sua pretesa di
giudicare come Israele debba difendersi; nonché nel riprodursi per
cooptazione sotto la guida illuminata di Barak. Chissà che cosa direbbe
Bork se gli facessimo presente che in Italia un unico Consiglio
superiore della magistratura – che decide la carriera dei giudici e dei
procuratori – è composto in prevalenza da rappresentanti della
magistratura requirente, benché la base dei magistrati giudicanti sia
più numerosa. È come se la carriera dei giudici venisse decisa da un
organo in cui sono in maggioranza i rappresentanti dell’ordine degli
avvocati.
La Casa delle Libertà ha avuto per cinque anni una maggioranza
schiacciante alla Camera e al Senato, eppure questa anomalia non è
cambiata; ed è il centrodestra ad essere accusato di attentare
all’indipendenza della magistratura. Qualcosa però è cambiato
nell’ultima elezione, pur senza eliminare lo strapotere dei pm. Sono i
magistrati stessi quelli che hanno cominciato a raddrizzare le cose, pur
con qualche rischio di essere bollati d’infamia. I politici hanno solo
tentato fin qui di far passare una “separazione delle carriere” sotto la
denominazione ipocrita di “separazione delle funzioni”: quasi che –
poniamo – le funzioni di inquirente e di giudicante non fossero separate
già per natura e occorresse uno speciale provvedimento legislativo per
tenerle distinte. Occorre forse una legge per distinguere le funzioni di
un capostazione da quelle di un macchinista, pur nell’unità
dell’ordinamento ferroviario? Nell’eccellente prefazione al libro,
Serena Sileoni non si allinea in tutto sulle posizioni di Bork, ma fa
notare l’importanza della vicenda (fu bocciato da giudice della Corte
suprema dal Congresso americano); la quale ha indotto addirittura
l’Oxford Dictionary a introdurre il neologismo to bork: «Diffamare una
persona, in particolare attraverso i mass media, allo scopo di impedire
la sua nomina a una carica pubblica».
13 settembre 2006
Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei,
presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione
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